domenica 14 marzo 2010

La grazia sufficiente

recensione pubblicata in:


La grazia sufficiente (Campanotto, Udine 2010) di Giancarlo Micheli

«Di tutte le cose che soddisfano i suoi bisogni l’uomo attribuisce il maggior valore a quelle che meno gli sono indispensabili». È uno dei tanti aforismi che punteggiano il testo di Micheli. È un aforisma dal sapore orientale, quasi una massima confuciana, ma è anche una sentenza occidentale, che contiene una critica implicita al capitalismo che in occidente ha avuto i propri albori. Vorrei proporre come chiave di lettura del romanzo di Micheli la sovrapposizione, il rovesciamento tra oriente e occidente che si ritrova lungo tutto il testo, a cominciare dal titolo: La grazia sufficiente. Un titolo pertinente alla piena teologia cattolica e quindi occidentale. La grazia sufficiente è la grazia che avremmo perso dopo la caduta del peccato originale; grazia efficiente è invece il dono che Dio ci offre di ristabilirci nella grazia originaria attraverso la morte e la resurrezione del Cristo. Quello di grazia sufficiente, del resto, è anche concetto fondamentale della teologia protestante, in particolare della dottrina della predestinazione, nella quale Weber, come è accennato in un passo del libro, vede nell’etica protestante il punto germinale del capitalismo. Dunque un titolo che fa esplicito riferimento alla teologia cristiana, occidentale, per un romanzo però ambientato in Giappone. Due personaggi: un giapponese Taisho, che studia per conformarsi al modello occidentale, e un olandese, Baruch, che vivrà in Giappone ed assumerà gli usi e i costumi del luogo. La scena principale del romanzo è posta a Nagasaki, città che, a distanza di pochi anni da quelli in cui si svolgono le vicende narrate, rappresentò il punto di impatto più devastante nell’incontro tra Occidente e Oriente. Il libro offre un ricchissimo campionario di tali luoghi d’incontro e rovesciamento, uno dei quale è proprio la ricchezza. Una ricchezza intesa in senso occidentale, sotto la categoria della quantità, ma non disgiunta da una correlativa accezione orientale, quale ricchezza interiore e dissipazione di essa. La ricchezza è anche la cifra più evidente della concrezione stilistica dell’opera. Quello del Micheli è uno stile ricercato, minuzioso, alto, dove ricorre un continuo utilizzo di vocaboli desueti, non perché arcaici ma perché esclusi dall’uso quotidiano della lingua; vi emerge un tentativo di riportare la nostra lingua a una ricchezza che le è propria, proprio in un momento in cui si sta, ovvio costatarlo, terribilmente impoverendo. La critica letteraria ne fa all’autore in qualche modo un cruccio, travisando completamente questo punto specifico. Anche critici letterari rinomati, pur riconoscendone il valore di scrittore, rimproverano a Micheli, chi direttamente chi indirettamente, il limite dello stile. Io trovo che sia come muovere rimbrotto a Monna Lisa perché non sorride a tutta bocca o per lo meno non se ne stia seria come ritrattistica vuole. Lo stile è invece l’elemento peculiare della scrittura di Micheli. Uno stile che esige senza dubbio una grande attenzione, richiede al lettore la stessa fatica richiesta all’autore per metterlo sulla pagina. Soltanto qualora si consideri la letteratura come svago, gli può essere rimproverato uno stile così personale e così riuscito. Uno stile troppo ricercato, è stato detto; sicuramente ricercato, nel senso però di frutto di una ricerca, che, peraltro, ottiene evidenti risultati. La grazia sufficiente è il terzo romanzo del Micheli; chi conosca i precedenti sa delle difficoltà che si incontrano nell’affrontarne le prime pagine, e sa anche del piacere che si prova ad andare avanti, sa della facilità con cui, una volta che si sia acquisita familiarità con i modi narrativi dell’autore, si voglia impazientemente arrivare all’epilogo e come, guardandosi poi indietro, si rimanga estremamente grati alla ricercatezza e al non svilimento di parole che costituiscono il valore della lingua italiana. Tipico dello stile del Micheli è un continuo, quasi ossessivo, accoppiamento di sostantivo e aggettivo, spesso di sostantivo e aggettivi. Scrive Cesare Pavese nel Mestiere di vivere: «Anche se proviamo un palpito di gioia a trovare un aggettivo accoppiato con riuscita a un sostantivo, che mai si videro insieme, non è stupore all’eleganza della cosa, alla prontezza dell’ingegno, all’abilità tecnica del poeta che ci tocca, ma meraviglia alla nuova realtà portata in luce». Il valore della prosa del Micheli risiede esattamente nella capacità, dispiegata in ogni frase e in ogni periodo, di portare alla luce nuove realtà, dapprima linguistiche ma che si trasformano, poi, in nuove realtà prettamente percettive. Alla conclusione della lettura di un romanzo di Micheli traiamo una percezione dell’esistente estremamente più ricca di quanto ci era compagna prima. Anche dal punto di vista narrativo riscontriamo una analoga abbondanza (ricchezza) di temi e di strutture. E sono certo che la critica meno attenta sarà pronta a pretendere il diritto di bacchetta. Anche qui sarebbe solamente fraintendere un punto invece essenziale. Due personaggi indipendenti, l’uno reincarnazione dell’altro, forse, si incontrano in maniera sfumata, in sogno, un ricongiungimento onirico. Si incontrano nuovamente, forse, di nuovo nel capitolo conclusivo. Tutto ciò avviene in forme e stati di coscienza molto vicini a quelli che Esiodo attribuisce a Hypnos, figlio della Notte e fratello della Morte. Qua il sogno è soglia privilegiata tra il mondo dell’al di qua e la vita dell’al di là, tra la realtà presente ed una ulteriore. Il sogno, sia nella filosofia orientale che nella nostra occidentale, è stato da sempre considerato manifestazione di una realtà parallela, alternativa, portatrice di messaggi peculiari e verità più profonde; dopo che il razionalismo moderno lo ebbe relegato entro i confini dell’illusorio, si sono dovute attendere le prove fornite dalla psicanalisi affinché fosse rimesso al posto che gli compete. In tal senso si potrebbe dare allo stile di Micheli la definizione di realismo onirico, così come di onirico realismo si compone la narrazione della Cabala. Anche nella struttura narrativa de La grazia sufficiente ritroviamo due serie parallele e tra di loro intrecciate: ancora una volta Occidente, nella precisione linguistica e dei riferimenti culturali, e Oriente, nei concetti portanti di possibilità e dissipazione. Taluni personaggi, talune vicende vengono presentati con i chiari segni di essere determinanti per il prosieguo della storia, e invece come così compaiono dispaiono. Talvolta sembra che la storia prenda una certa via, ma subito dopo ne imbocca invece una diversa e non prevedibile. Personaggi che sembrano poter essere coprotagonisti svaniscono poi nel nulla, proprio come nel sogno, proprio come nella vita, nella realtà. La saggezza orientale ha inteso il concetto di giusto mezzo come pari possibilità degli estremi. Solo Bruno e Spinoza, nella filosofia occidentale, hanno espresso concezioni simili. Non a caso il protagonista del romanzo di Micheli, ebreo convertito al calvinismo, porta lo stesso nome di battesimo di Spinoza, Baruch. La cifra che caratterizza i personaggi del romanzo e le loro relazioni non è l’equidistanza, di consuetudine e stampo occidentali, bensì la equiprobabilità; non è la mezza misura, la medietas, la mediocritas, ma piuttosto una fluttuazione attiva, un movimento che si dispiega di nuovo come in sogno, ancora una volta come nella realtà. Il movimento nella filosofia orientale è un processo, una via; la parola Tao significa ciò: la via. Il filosofo taoista Meng Zi scrisse: «Si lede il Tao se ci si attiene all’uno, se si accoglie un principio e se ne trascurano cento». Il taoismo invita dunque a contemplare la pari probabilità di un accadimento e del suo contrario. Tutto il testo di Micheli è, in qualche modo, una ripetizione di questa saggezza orientale. Sembra che qualcosa accada, ma la sua evenienza svanisce nel nulla; possibilità non preparate dall’intreccio prendono invece importanza all’improvviso e rilanciano la narrazione. Ritornando, per un attimo, sull’esame del piano linguistico, la lingua del romanzo di Micheli si lascia contaminare dai modi propri del mondo culturale che raffigura, esprimendosi in alcuni passi per accenni, per additamenti. Nel modo di parlare dell’Oriente una frase non si chiude come la si pensa e la si chiude in occidente ma, per così dire, si riassorbe appena accennata. Come in questo apologo che si trova nel libro di Zhuang Zi: “Al maestro venne chiesto: «Che cos’è la saggezza». Il maestro rispose: «Un allevatore di scimmie distribuiva ghiande alle scimmie dicendo: vi darò tre ghiande al mattino quattro alla sera. Le scimmie si dimostrarono innervosite. Ve ne darò quattro la mattina e tre la sera. Le scimmie ne rimasero incantate». Si tratta di accenni che non appartengono alla razionalità conchiusa, che abbisogna di un significato immediato, quale si presenta nella forma tipica del saggio filosofico occidentale. Anche l’esergo del romanzo di Micheli è tratto dal libro di Zhuang Zi: “Una volta Zhuang-zi sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Zhuang-zi. Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang-zi. Non seppe più allora se era Zhuang-zi che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhuang-zi. Tra lui e la farfalla vi era una differenza. Questo è ciò che chiamano la metamorfosi degli esseri”. Questo movimento è quello del Tao, la via. E il libro di Micheli si chiude con una seconda sentenza del libro di Zhaung Zi, riportata nella nota che chiosa l’ultima frase del testo: “Il Tao supremo non ha nome; il discorso supremo non ha parole; la benevolenza suprema esclude qualsiasi benevolenza parziale; la purezza suprema è senza ostentazione; il coraggio supremo è privo di crudeltà”. Nell’allusione, nella suggestione, nel senso vago sta il fondamento della saggezza orientale. In cinese la parola Wei ha un doppio significato: senso e sapore. Il senso si gusta. Del resto anche nella nostra lingua il termine saggezza deriva dal latino sapore. La logica del discorso filosofico orientale non è di tipo razionale (ratio), che ripartisce, ma è una logica sfumata, che si gusta e si lascia sciogliere sulle papille gustative della mente o dell’anima. Nel pensiero orientale esiste il contrario della verità, ma non è, come in occidente, la falsità; è piuttosto la parzialità. Non vero è ciò che non riesce ad abbracciare tutte le possibilità dell’esistente. Si tratta, dunque, di un tipo di logica del tutto contraria a quella esclusiva (non contraddizione, terzo escluso) su cui si fonda il pensiero occidentale da Aristotele in poi. Tale logica è invece inclusiva, ogni possibilità è mobile e fluttuante, e ricompare ovunque lungo tutto il romanzo di Micheli. Auguste Blanqui, rivoluzionario nizzardo che fu internato nella prigione dello château d'If in seguito al fallimento della Comune di Parigi di cui era stato membro, ebbe un’idea assolutamente orientale, che più tardi Nietzsche riprese nella propria concezione dell’eterno ritorno e che può rischiarare bene l’intreccio narrativo adottato da Micheli. Scrive Blanqui nel breve saggio del 1871 L’éternité par les astres: «Esiste una terra in cui ogni uomo segue la strada che il suo sosia ha disprezzato nell'altra. La sua esistenza si sdoppia in due globi diversi, e poi si biforca una seconda, una terza volta, migliaia di volte. Possiede così dei sosia identici e incalcolabili varianti di sosia, che sono la stessa persona moltiplicata, ma che condividono solo dei frammenti dello stesso destino. Tutto ciò che si sarebbe potuto essere quaggiù, lo si è altrove, da qualche altra parte». Un’idea visionaria e terribilmente affascinante: altrove continuano a vivere le possibilità che qui abbiamo scartato. Questo sapiente utilizzo del concetto di possibilità è anche il merito che si deve dare a un libro come La grazia sufficiente, al cui autore dobbiamo essere grati per un testo di tanta ricchezza in un momento di così buia povertà culturale, un testo tanto ricco da dissipare, tanto onirico da mostrare che il reale è costituito da molteplici e diversi possibili, che noi rifuggiamo quando siamo sopraffatti dalla paura o quando li percepiamo quali possibili imprevisti, ostacoli al tranquillante prevedibile e dei quali, per timore, ce ne priviamo. Scrive Kong Zi nel libro dei Dialoghi, il Lun Yu: “Guardo in alto ed è sempre più in alto. Cerco di entrarvi ed è sempre più impenetrabile. Lo vedo davanti e ad un tratto è dietro.”
Stefano Busellato





Giancarlo Micheli, La grazia sufficiente (Campanotto, Udine 2010)

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lettura dal prologo


Iacopo Vettori

lunedì 8 marzo 2010

La grazia sufficiente (Campanotto, 2010)

La grazia sufficiente (Campanotto, 2010)
Giancarlo Micheli


Nella lingua cinese il termine Ren - che ritorna quasi come un leit-motif nel libro di Confucio, il Lun Yu (V sec. a.C.) - significa: uomo in quanto altro da sé. Si scrive unendo gli ideogrammi che designano, rispettivamente, il concetto di "uomo" e quello del numero "due". Ulteriori significati che il termine Ren può assumere sono quelli di "benevolenza", "simpatia". Al contrario di quanto avviene nella nostra tradizione filosofica, sviluppatasi attorno al nucleo della coscienza individuale, la soggettività orientale si coglie, o si sfiora, sotto la luce della relazione originaria tra gli individui. Il romanzo La grazia sufficiente cerca di riflettere, nello specchio del pensiero e della vita ad occidente, l'immagine di questa differenza sostanziale. La traiettoria della narrazione è aperta verso il raggiungimento del frutto di una coscienza reciproca e sensibile.


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lettura dal capitolo X
Ilaria Pardini