recensione pubblicata sulla rivista
Quaderni di Farestoria (anno XII - n.3, settembre-dicembre 2010)
Poeta e scrittore, ma anche critico e traduttore, ricercatore aperto alle sollecitazioni delle più diverse tendenze e dei multiformi linguaggi dell’arte contemporanea, Giancarlo Micheli , viareggino, è un artista “per vocazione”, come lo definisce il decano Manlio Cancogni che nella prefazione a questo suo secondo romanzo, Indie occidentali, ne sottolinea la “meticolosa cura artigianale” della scrittura.
Una qualità di cui Micheli aveva già dato prova nella sua ‘opera prima’ di ampio respiro, Elegia provinciale, pubblicata per i tipi della collana Mediterranea dell’editore Mauro Baroni di Viareggio nel 2007.
Allora la vicenda, fra storia e finzione, ruotava tutta attorno alla vita del maestro Giacomo Puccini e alle ‘sue’ donne (la moglie Elvira, la focosa Fosca, la giovane Giulia, l’affascinante Sybil) – soprattutto attorno ai dubbi angoscianti sul suicidio della servetta Doria Manfredi, che con quel gesto intendeva affermare la propria illibatezza.
Era quindi un romanzo storico e biografico, una love story, un’analisi di coscienza e delle coscienze, infine un vero e proprio romanzo giallo che sulle rive del lago di Massaciuccoli si consumava in un sapiente gioco di equivoci.
E Puccini, – ora al Metropolitan di New York per riscuotere, pagato il prezzo della “vita della ragazza”, il “meritato successo”, per sé e per lei, alla prima della Fanciulla del West il 10 dicembre 1910 –, è il pretesto per accendere i riflettori sulla simbolica e “bronzea figura” della statua della libertà che vicino a Ellis Island accoglie le speranze di “quanti tessono la trama del mondo possibile, l’arte alla vita”, come si legge nella dedica.
Si tratta di una giovane coppia di sposi, Erminia e Aurelio, emigranti nell’America del sogno utopistico all’inizio del ’900, sullo sfondo dello sfrenato sviluppo industriale e delle lotte sindacali degli Industrial Workers of the World.
Una vicenda umana, come quella di tanti “disperati” che “avevano voluto venire all’america, imbarcati nelle stive, nelle sale macchine, nelle pance gravide dei bastimenti” (p. 36), seppure mitigata dal fatto che al loro arrivo i due protagonisti hanno le possibilità economiche per gestire un piccolo bar in Mulberry Street a Manhattan, anche se il quartiere non è dei più raccomandabili e la clientela è fatta di diseredati “scavezzacollo”:
Li aveva presi il vento, quello dei fortunali d’inverno, che porta via nel suo turbine stregone armenti e lupi, e li trascina lontani, al di là delle montagne azzurre. Se ne erano partiti con la dote dei bei corredi di lino, che le donne di casa sbrigavano dai tiretti del canterale, cosicché tutto un brivido di lavanda infebbrava la purezza degli imenei, e li inghirlandavano i fiori del pesco e l’aurifera primavera dei sessi. L’america era stato agio e intravisto splendore, conquistato diritto a sfilare per viali di opulento gaudio, tangenti a paradisi di anglofoni numi (p. 17).
Ma anche disumana, perché la loro “ingenuità” e “ignoranza delle dinamiche violente e spietate che informano i rapporti nella comunità che li accoglie” (e Aurelio sa bene che “oramai era giusto che sui treni ci salisse da mascalzone quale aveva scelto di essere”, p. 63) saranno punite dal racket con l’attentato al bar e con l’incendio della loro modesta, ma dignitosa casa popolare in cui muore la mamma di Erminia. Dovranno, allora, emigrare ancora e, questa volta, lottare per sopravvivere: prima, negli stockyards (i mattatoi) di Chicago e poi, nelle industrie tessili di seta a Paterson nel New Jersey.
In questa altalena tra bene e male, fiducia e sfiducia, entusiasmo e depressione, i due ragazzi si rendono conto di quanto fosse “sottile l’argine che proteggeva la serenità di ciascuno dalla marea della disperazione e della miseria” (p. 73) e approdano: lui, alla fede politica e alla partecipazione attiva all’azione del sindacato “affinché a Eugenia [la loro bambina ancora piccola] fosse accordato un futuro diverso, e più felice” (p. 167); lei, alla fede scientista della Church of Christ, dove il calore umano e la comprensiva accoglienza le fanno assaporare il diritto a una vita libera e indipendente, di Verità e di Amore.
La finzione narrativa, che con un finale a sorpresa si concluderà proprio a Ponte a Moriano, nella Valle del Serchio lucchese, dove era iniziata una trentina di anni prima (ma tutta l’azione ha sempre un andamento circolare, anche in America dove da New York si torna a New York!), e la documentazione storica, incentrata sull’idea di democrazia libertaria internazionalista e rivoluzionaria del movimento sindacale operaio e ricostruita soprattutto sull’attività dei setaioli di Paterson tra il ’12 e il ’13, sono i due capisaldi con cui Micheli si prefigge
di districare il roveto dei fatti a partire dalle radici reali di un’esistenza possibile, portatrice di una sua essenziale ricchezza di gioia e di dolore, unita alla catena di una durevole trama, i cui anelli non siano deboli e forti, bensì irripetibili e originali, come in verità sono stati ogniqualvolta l’uomo è sorto all’essere nelle sue azioni (p. 96).
E lo fa riuscendo ad amalgamare, nel fluire del racconto, il linguaggio quotidiano dei protagonisti con le espressioni del loro dialetto d’origine fuso talvolta ad un inglese approssimativo e sgrammaticato (p.e.: “Goodnight Aurelio, m’astu portà li sghei?” o “you shall bring me a whole of cheese, if you has got… per la mi’ socera, che delle cose di qua non ne vol mangiare”, p. 22) e, contemporaneamente, ad intercalare nel discorso l’uso – quello suo proprio, che lo connota – di una sintassi complessa e di un lessico ricercato, cioè di un registro dai toni elevati e solenni che conferiscono preziosità alla prosa e spessore allo stile:
La mamma l’attendeva – Erminia non aveva dubbi –, la attendeva impaziente di affidarle nelle braccia la bimba, tutta infagottata e olente di giulebbe, la attendeva per compiere quel gesto altero, con sufficienza di levatrice d’anime. Dopo che avesse fatto scricchiolare tutto il rosario delle ossa annose, sollevandosi dalla poltrona imbottita, la mamma avrebbe detto “l’ho cullata tutta la sera. Sta bimba ‘un piange mai; averemo d’apprendeglieli noaltri i dispiaceri” o qualcosa del genere, ma sempre con la voce burbera e chiotta, e forse avrebbe aggiunto “di costì, ‘ndove m’avete volsuto acciottorare, ‘un c’è la vita vera… ‘un c’è da pigliassi dell’embrioni” e avrebbe concluso strozzando nella gola un risentito cachinno, che era quel che a Erminia spaventava di più, anche di più che non tutti i discorsi sul povero babbo buonanima o sui terreni di Ponte a Moriano (p. 18).
Disinvolto narratore eterodiegetico, Micheli interviene sternianamente nell’opera in prima persona solamente per ricordare al lettore quando è ambientata la vicenda (“Si ricordi […] Mi propongo […]”, p. 96) e per riflettere sulla maniera più giusta di “raccontare” un personaggio scomodo come il vecchio padrone Catholina Lambert (p. 125).
Al tempo stesso, però, si dimostra un perfetto direttore onnisciente, essendo capace di armonizzare la realtà e il sogno in descrizioni di forte impatto impressionista.
L’oggettività della narrazione storica, che si pone come background e framework della vicenda e nasce da un’accurata e minuziosa documentazione condotta al limite dell’ossessione, porta sulla scena tante figure reali: il romanziere progressista Jack London, l’animoso giornalista radicale John Reed, l’anarchico sindacalista Carlo Tresca, il dirigente degli Industrial Workers William Dudley Haywood (più noto come ‘Big Bill’), l’intellettuale e filantropa Mabel Dodge Luhan, l’editore della rivista «The Masses» Max Eastman e, last but not least, il maestro Puccini.
Sulla storia, con abile maestria, Micheli innesta l’incanto della fantasia nel cammino evolutivo di due soggetti ‘innamorati’, di una figlia bambina che inaspettatamente ritroviamo signorina nell’ultimo capitolo, e di una folta schiera di comparse (hobos, lavoratori occasionali e nomadi; tramps, barboni e non lavoratori; bumps, fannulloni e ubriaconi) e coprotagonisti più o meno flat (Ernesto, Venanzio, il Sor Clemente, il capitano Burns, il caposquadra Nathaniel) o round (la spigliata e determinata Sophonisba, l’irrequieta e affascinante Olga e suo padre Pietro Botto), secondo le categorie di forsteriana memoria e le necessità imposte dalla partitura.
Il romanzo storico si fonde, allora, con quello di formazione e si distende nell’aspirazione di Erminia e Aurelio alla stima e considerazione umana all’interno dell’eterogeneo ma solidale gruppo sociale d’appartenenza e nella ricerca della consapevole capacità di denunciare, senza violenza, attraverso la produzione di una pièce teatrale (dove echeggia l’epilogo della Tosca pucciniana), l’oppressione che le nuove classi operaie cosmopolite subivano in America prima di poter affermare il loro diritto alla “dignità per ciò che erano e per ciò che sapevano fare” (p. 165).
Fabio Flego
bol
dal capitolo XLV del romanzo "Indie occidentali" (Campanotto editore, 2008) di Giancarlo Micheli; lettura di Paola Lazzari
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