L’impianto di condizionamento dell’aria disperdeva nell’ufficio un flebile bramito di parti meccaniche che, docili e affidabili, adempivano la loro necessaria funzione. Da mesi il caldo non dava tregua. I climatologi non si avventuravano in pronostici azzardati. La posizione anomala che, durante quell’estate, aveva assunto l’anticiclone delle Azzorre non consentiva il raffronto con condizioni rilevate in precedenza, cosicché i modelli matematici, non potendo essere alimentati da dati comparativi attendibili, non erano in grado di minimizzare gli errori di calcolo. Era possibile che il fenomeno si esaurisse nel giro di qualche giorno, ma avrebbe potuto anche protrarsi per settimane, forse per mesi interi.
Il presidente allentò il collo della camicia con gesto sollecito, facendo scorrere due dita sull’apprettatura della stoffa.
“C’è poi qua una lettera di ringraziamento del comitato delle vittime del sisma” gli riferiva il suo segretario personale, volgendo su di lui uno sguardo di deferente competenza mentre reggeva tra le mani il plico della posta giornaliera. “Io ben conosco la probità di sua eccellenza. Sono persuaso che ella vorrà concedersi il meritato piacere di esaminarla soltanto dopo aver sbrigato le faccende… più spinose. Suggerirei, dunque, di passare oltre.”
“Senza dubbio” avallò il presidente, cui l’insistente ronzio del condizionatore cominciava a dare davvero fastidio, fino al punto da indurlo a temere che il suo disagio potesse appalesarsi all’interlocutore. Con perturbante lucidità egli si rendeva conto del proprio imbarazzo. Da qualche tempo accadeva ogni giorno, più o meno a metà del mattino, quando il presidente avvertiva con chiarezza un mutamento nel rumore che si sprigionava dall’apparecchio. Ecco, sì… come se le frequenze più alte venissero all’istante abbattute, di modo che, d’un tratto, la vibrazione diveniva cupa, minacciosa. Lo stesso accadeva con il rumore delle onde, sulla spiaggia, quando, molti anni addietro, il padre lo portava in villeggiatura sul litorale e sedeva a guardare il tramonto assieme a lui, fumando in silenzio. Accadeva dopo che il sole era disceso all’orizzonte al di sotto di una certa quota, in quel preciso istante… o, forse, con un impercettibile ritardo. All’improvviso l’onda batteva sulla riva in maniera diversa, fragorosa e cupa.
“Faìt dabin dë sté ansissì ansem a ‘l me masnà” risentiva la voce pacata del genitore, e ne era vieppiù infastidito.
“Sono oltre venti anni che questa Compagnia figura tra i primi dieci sostenitori del nostro partito” argomentava intanto il segretario, senza dare alcuna avvisaglia di aver notato il crescente disagio in cui egli andava sprofondando, come il presidente poté constatare con momentaneo sollievo. “Mi permetto di suggerire che conferire loro un premio di fidelizzazione appare la scelta opportuna… e lungimirante.”
“E quei problemi con la giustizia? Non corriamo il rischio di offrire il fianco ad attacchi insidiosi?”
“La corte internazionale deciderà per l’archiviazione del caso. Abbiamo ricevuto piene assicurazioni in tal senso.”
“E la stampa?”
“Un semplice caso di corruzione in uno Stato africano e qualche minima violenza collaterale non sono di sicuro ciò di cui i direttori dei quotidiani vanno in cerca per incrementare le vendite, tanto più quando hanno da cavalcare la psicosi collettiva per l’ondata di caldo e tutto il resto. Inoltre, gli uomini del nostro apparato vigilano con la consueta ed esemplare riservatezza. Non corriamo alcun pericolo.”
“Bene… mi faccia vedere.”
In quel preciso momento la suoneria del telefono privato del presidente emise una serie di note cristalline del suo tema preferito, quello del brano Uf dem Anger dai Carmina burana di Carl Orff. La solare espressione con la quale egli accompagnò il gesto con cui raccolse l’apparecchio dal ripiano della scrivania, nonché quella ancor più raggiante che gli si stampò sui lineamenti una volta che ebbe letto il messaggio appena ricevuto, furono tali da fugare ogni preoccupazione sul suo umore e sulla salute del suo animo, quand’anche il solerte segretario ne avesse nutrite.
Rinvigorito e senza tergiversare, il presidente appose la sua firma sulle carte che il funzionario gli aveva consegnate.
Prima di congedarlo, lo trattenne ancora un istante sulla soglia della porta: “Ancora una cosa… può impartire disposizioni affinché la signorina Mione sia ammessa nel mio studiolo privato… diciamo tra una mezz’ora?”.
Con un reverenziale e minimo cenno di assenso il segretario uscì, e il presidente rimase solo nell’ufficio percorso dalle lente vibrazioni emesse dal condizionatore d’aria, che adesso egli non percepiva ostili e inquietanti, bensì cullanti e benevole. Reclinò il busto contro la spalliera della poltrona e socchiuse le palpebre. Lo invase allora una sensazione di profonda beatitudine. Ecco che egli vede la signorina Mione entrare sorridente e incedere verso di lui, avvolta in una veste leggera quanto i petali del fiore di bellezza e gioventù che ella è.
Irretito in tale stato di sublime benessere il presidente sistemò comodamente i lombi sopra l’imbottitura anatomica, e la sua mano scivolò a slacciare la cinghia della cintura; ed ecco che la schiena lucente e glabra della signorina Mione si china in mezzo alle gambe del presidente ed egli ne scorge scapole e clavicole alzarsi e abbassarsi come le dune di un deserto nel soffio di venti tenaci e vigorosi. Mentre la signorina continua a dispensargli quell’irripetibile piacere, il presidente sente un grande fiore crescere tra le labbra di lei. Un grande fiore dai petali bianchi che, presto, troneggia solitario al centro della sterminata distesa di sabbia, innalzato fino al cielo terso e puro. Il presidente ode il fruscio della sabbia farsi di attimo in attimo più intenso e confondersi all’accelerato battito del suo cuore.
All’improvviso, senza che di ciò fosse data alcuna avvisaglia, il cuore cessò di battere, mentre il presidente si gettava a capofitto nella corolla di quel fiore tanto desiderabile e mentre un coro di vergini accompagnava con il canto i suoi estatici imenei.
Giancarlo Micheli
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