lunedì 3 dicembre 2012

Paesaggi della cultura e trasmigrazione degli sguardi

intrecci tra necessità rituale e libertà creatrice nell’arte dell’estremo Oriente

articolo di Giancarlo Micheli, pubblicato su Zeta - rivista internazionale di poesia e ricerche (anno XXXIV, n.3, dicembre 2012)



1.      La legge morale nella pelle del serpente 

 Qualcosa dissolve, a ritroso, nelle profondità della storia, si disfa in fondo ad uno sguardo che, nel tentativo di fissarsi ad un oggetto remoto, finisce per confonderne i contorni al nebbioso paesaggio che, poco fa, quando lo sguardo si levava appena e desideroso di sensibile corrispondenza, lo delimitava ancora entro una sua forma nitida e tersa.

 Sulle antiche pitture vascolari della dinastia Shang (1766-1122 a.C.) uno dei soggetti rappresentati con maggior frequenza è il demone T’ao T’ieh, una figura assai complessa, costruita unendo parti anatomiche di tori, tigri, arieti e serpenti. Della parola T’ao T’ieh si era andata perdendo la conoscenza del significato preciso a partire dal periodo feudale degli Stati Combattenti (403-221 a.C.) ed il concetto da essa designato già svaniva inesorabilmente nella cognizione dei cinesi delle dinastie Qin (221-206 a.C.) e Han (206 a.C.-220 d.C.), sotto le quali si compì l’unificazione dell’impero, che raggiunse allora un’estensione territoriale paragonabile a quella della attuale Repubblica popolare. Alla luce delle categorie dell’antropologia culturale il T’ao T’ieh viene oggi concepito quale simbolo della divinità della Terra, mutevole e caotica espressione delle forze originarie in essa contenute. Una tale definizione del simbolo del T’ao T’ieh, del resto, non può che riuscire per noi insoddisfacente, giacché esclude tutta una modalità essenziale di percezioni che ne rendevano vivo il senso all’umanità che lo frequentò da vicino. Lo scorgiamo pertanto attraverso una cortina di nebbie, alla quale è confuso non meno che allo sfondo da cui affiora in minimo rilievo, non meno che al paesaggio cui è unito da un vincolo tanto inestricabile quanto lieve, dove si agita appena, assomiglia alla radice di uno strano albero che, d’altronde, non ravvisiamo meglio di esso, anche perché ecco che, ora, già ci pare che il T’ao T’ieh si scuota, che voglia sgusciar fuori da quella sua primitiva pelle, ci sembra che frema e strisci: è una serpe avvolta alle rocce di un declivio montuoso, una lasca che sguscia nell’acqua limacciosa di un fiume.

 Un tale tremore naturale, cui corrisponde uno speculare sentimento religioso, ad un tempo impetuoso ed evanescente, un tale riflesso incondizionato, che ha ogni ragione per lasciarsi avvertire come se emanasse dalla sorgente originaria dell’essere, percorre tutta la storia dell’etica e dell’estetica cinesi. Di esso l’insegnamento di Kong Zi, impartito nel VI sec. a.C. ai discepoli affinché lo raccogliessero nelle pagine che avrebbero costituito κατ’εξοχήν il testo classico della letteratura cinese, il Lun Yu, compì l’innesto sul corpo della legge secolare, ne sancì l’incarnazione nei precetti di una morale concreta e nelle regole dell’amministrazione del potere, ponendo limiti rigorosi all’uso della violenza dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Tale incorporamento si realizzava sui lembi di una duplice sutura, una duplice serie di precetti: quelli alla cui osservanza era tenuto il letterato, saggio sapiente nonché funzionario della già evoluta burocrazia statale, e quelli cui era tenuto il Signore, modello di virtù ideale nella cui persona vivente trovano complemento il brivido originario di cui si è detto (il qì, o ki in giapponese) e l’azione umana deliberata. Grande enfasi la dottrina confuciana riservò all’oculata osservanza delle cerimonie e dei rituali religiosi, intesi a preservare l’unità spirituale con le generazioni passate e ad onorare il culto degli antenati. Il saggio confuciano affonda risolutamente il proprio sguardo nel passato e, dinanzi a tutto ciò che lo distragga da tale contemplazione, rimane, in sostanza, fermo e irremovibile.

 Dell’architettura culturale confuciana, attraverso la quale l’uomo aveva introdotto la propria presenza nel paesaggio della natura, il daoismo, un paio di secoli più tardi, avrebbe esaltato alcuni aspetti prospettici: con il progredire dell’oblìo del simbolo originario, i maestri daoisti avrebbero messo a fuoco la nebbia che si infittiva davanti ad esso e, riflettendovi il proprio sguardo, avrebbero cominciato a intravedere ciò che stava loro alle spalle, il futuro. Non il futuro cronologico, quale convergenza ad un puntuale e replicato presente del fascio di infinite potenzialità che lo attraversano, ma proprio il contrario, il futuro come apertura del tempo dell’attesa, dispiegato ventaglio delle evenienze, luogo dell’illuminazione improvvisa. Scrisse Meng Zi (372-289 a.C.): “Si lede il Dao se ci si attiene all’uno, se si accoglie un principio e se ne trascurano cento.”

 
 
2.      Cenni storici sulla diffusione del buddismo nell’Asia orientale

 All’imperatore Mingdi, che regnò tra il 57 e il 75 d.C. sulla dinastia degli Han orientali o posteriori, nel corso di uno dei relativamente brevi periodi in cui l’Impero non fu unificato sotto un unico sovrano, la storiografia fa risalire la prima penetrazione del buddismo nella cultura cinese. Alla fine del II secolo esistevano già molte scuole e templi buddisti, soprattutto nella vasta e fertile regione tra lo Huang He e lo Yangzi, nonché attorno alla capitale di allora, Luoyang. La prima forma conosciuta in Cina fu quella dell’amidismo, associata alla teologia della Terra Pura e ad un sentimento di religiosità popolare che favorì l’identificazione delle varie concezioni buddiste con le figure della religione tradizionale cinese, ad esempio del bodhisattva Avalokitesvara con la dea cinese della misericordia, Guanyin. Anche la forma che è comunemente associata a caratteristiche spiccatamente autoctone, il buddismo Chan (Zen per i giapponesi) proveniva dall’India, tramite l’insegnamento del monaco cingalese Bodhidarma, ospite alla corte dell’imperatore Wu agli inizi del VI secolo. In effetti esistono considerevoli affinità tra il daoismo, che era seguito con molta cura dalle dinastie regnanti del tempo, e questa forma buddista, la quale, al contrario dell’amidismo, pone enfasi sulla conoscenza del sé a scapito degli aspetti devozionali. Sotto tale forma il buddismo raggiunse il Giappone, quando la casata imperiale Yamato affermò il proprio potere, durante l’VIII secolo, e si aprì ad influssi emulativi nei confronti delle consuetudini culturali e delle tecniche di esercizio del potere tipiche della dinastia Tang che, a partire dal 618, aveva gloriosamente ricostituito l’unità dell’Impero cinese. Da allora, in Giappone, il buddismo Zen rimase una dottrina di esclusivo appannaggio delle caste nobiliari. Soltanto in seguito, altre sette buddiste diffusero precetti che fecero presa su strati più vasti della popolazione. La teologia Jodoshu, che proveniva appunto dall’assimilazione dell’amidismo cinese, fece proseliti tra i contadini e i ceti più umili soltanto a partire dal XII secolo.

 La forma buddista che ebbe invece non solo caratteristiche più spiccatamente nazionali ma che fu praticata trasversalmente in tutte le caste, prese origine dagli insegnamenti del monaco Nichiren, il quale visse tra il 1222 e il 1282. Il diffondersi della sua dottrina presso il popolo fu dapprima vigorosamente osteggiato dagli shogun del clan Hojo, benché in seguito la storia nazionale abbia attribuito al Daishonin Nichiren meriti addirittura patriottici, tra i quali quello di aver scongiurato, scatenando contro le loro flotte prodigiose tempeste, ben due tentativi d’invasione da parte dei Mongoli.

 

3.      Sviluppo economico durante la dinastia Song e germi del capitalismo.

 Fino, dunque, nelle modalità di assimilazione del buddismo, che pure fu elemento comune ad entrambe almeno dal VIII secolo in poi, le culture della Cina e del Giappone manifestano discordanze e specificità essenziali. All’inizio del X secolo nell’arcipelago era praticata un’economia di pura sussistenza, la sovranità era ripartita presso numerosi feudatari e la pur sfarzosa corte imperiale di Kyoto sviluppava un suo canone estetico e intellettuale totalmente avulso alle questioni concrete dell’organizzazione dello Stato nascente. Testimonianza di ciò è offerta nella compilazione della prima antologia di poesie giapponesi, il Kokin Waka Shu (Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne), che nel 905 d.C. l’imperatore Daigo commissionò al sovrintendente dell’Archivio di corte, il nobile Ki no Tsurayuki. In oltre mille liriche, caratterizzate dalla espressività epigrammatica e da uno stile colto e raffinato, incline all’intimismo sentimentale non meno che al distacco contemplativo di ascendenza Zen, tale silloge segna una compiuta evoluzione rispetto ai canoni della poesia continentale che, circa un secolo prima, impregnavano ancora il tono della precedente Man’yoshu (Raccolta di diecimila foglie): ne emerge una visione del mondo chiusa e, in definitiva, autoreferenziale.

 Negli stessi anni, in Cina, la dinastia Song andava invece adottando una sagace politica di equilibrio verso le potenze che ne minacciavano i confini, in particolare nei confronti dello Stato di Liao, abitato da popolazione di etnìa qidan, del ceppo tunguso-siberiano, il quale si estendeva nelle cosiddette sedici prefetture del nord-est, che avevano fatto parte integrante dell’impero sotto i Tang (618-907 d.C.). Tale situazione, relativamente stabile e pacifica, favorì un consistente progresso economico e, assieme ai rilevanti sviluppi nelle tecniche di coltivazione, alla nascita di un forte commercio interno e al perfezionamento della burocrazia statale, rifondata sulla base del sistema degli esami e in osservanza dei principî confuciani, produsse un rapido incremento demografico e un’accresciuta prosperità. È stato calcolato che il volume del commercio nella capitale di Kaifeng, collegata tramite il Grande Canale ai bacini dello Huang He e dello Yangzi, ammontasse almeno al doppio di quello di Londra all’inizio del Settecento. A dispetto della congiuntura favorevole non si sviluppò un nucleo consistente della proprietà privata, tale da avviare una fase di capitalismo vero e proprio. Tra le cause a cui gli storici attribuisco ciò, occupa un posto ragguardevole proprio la crescita della burocrazia statale, misurabile vuoi nei termini della proliferazione delle cariche vuoi in quelli di una maggiore complessità dei compiti e delle strutture organizzative. Tra i ruoli che la burocrazia non disattese ci fu, senza dubbio, quello economico. Oltre a rendere efficiente il sistema di riscossione delle imposte, l’amministrazione partecipò attivamente al commercio, acquistando eccedenze di prodotti, principalmente agricoli, per rivenderle in altre province così da calmierare il regime dei prezzi. Il celebre riformatore confuciano Wang Anshi (1021-1086 d.C.) promosse l’istituzione dell’Ente del tè e dei cavalli, che provvedeva ad esportare il tè del Sichuan in Tibet e ad acquistare là cavalli da guerra per le truppe imperiali. Un primitivo esempio di capitalismo di Stato, o quantomeno di mercantilismo di Stato.
 
 L’ultimo imperatore della dinastia Song, pittore e calligrafo, fu una personalità artistica di assoluto rilievo. Salito al trono nel 1101, Huizong non fu certo un pioniere nella pratica e nello studio delle discipline artistiche, giacché molti dei sovrani che lo avevano preceduto non le avevano affatto disdegnate. Cionondimeno a lui non soltanto va ascritta una delle prime attribuzioni certe di un’opera d’arte cinese al suo autore, poiché a partire da dipinti quali il Piccione su un ramo di pesco conservato al Museum of Fine Arts di Boston egli appose ad essi la propria firma, ma gli va riconosciuto pure il merito di aver fatto compilare un catalogo completo e ragionato della propria collezione personale, il quale avrebbe costituito, nei secoli a venire, un’autentica enciclopedia della pittura dell’Asia orientale. Nella classificazione molto accurata che lo contraddistingue, le categorie sotto le quali figurano il maggior numero di opere sono: fiori e uccelli, temi daoisti o buddisti, paesaggi. Sulla stregua della contemplazione della natura e ricorrendo alle affini sensibilità delle filosofie daoista e Chan, i paesaggisti cinesi fecero aleggiare la nube dei loro sguardi su una nuova visione, dove le opere del lavoro umano affiorano dallo sfondo nel medesimo momento in cui dissolvono in un’umida caligine, quasi la fatica e il sudore che esse sono costate evaporassero sotto ai raggi di un sole futuro. Dentro ad una grotta, di proporzioni invero umili rispetto alla montagna (Shan) che la sovrasta, si riescono a scorgere a stento delle figure umane mentre si sporgono sull’acqua (Shui) di una sorgente scaturita dai recessi dell’ipogeo. Forse le persone che si intuiscono appena, avviluppate in fresche ombre, sono intente a risciacquare panni nel limpido flutto, forse affilano lame sulle pietre che il torrente ha a lungo levigato, questo non si riesce a distinguerlo con chiarezza. Shan e Shui, montagna e acqua, costituiscono in effetti il senso primo dell’opera, da cui discende e prende vita ogni particolare che vi sia rappresentato. E infatti la parola cinese che noi traduciamo con “pittura di paesaggio” è Shanshui.

 La morte dell’imperatore Huizong, avvenuta nel 1135 in Siberia, dove egli era stato condotto  in  prigionìa  dagli  invasori Jurchen tungusi, segnò la fine della dinastia e l’inizio di un periodo in cui lo slancio precapitalista che aveva caratterizzato l’epoca Song fu depresso da una lunga dominazione straniera. Solo nel 1368, rovesciando la dinastia Yuan insediata dai conquistatori mongoli, i Ming tornarono ad unificare il territorio dell’impero sotto una dinastia autoctona. Proprio in quel tempo, in alcuni luoghi della lontana Europa andavano prendendo corpo fenomeni di evoluzione della società in senso proto-capitalistico. Nelle Fiandre, che appartenevano ancora al vetusto e anacronistico regno di Borgogna ma già costituivano uno dei centri nevralgici del commercio continentale, Jan van Eyck non soltanto introdusse, come Huizong in Cina, la consuetudine di siglare le opere pittoriche, inibita fino ad allora dalla committenza pressoché esclusivamente religiosa, ma fece comparire il paesaggio quale elemento di rilievo nella composizione delle proprie tavole. Dopo aver abbattuto una delle pareti delle architetture ecclesiastiche desunte non senza fatica dai modelli classici della basilica romana al fine di costruirne gli scorci prospettici dove inserire i soggetti delle sue scene, egli riuscì a far emergere il paesaggio dietro ad archi a tutto sesto soffolti da capitelli corinzi ma pur sempre soffocato in una minuzie di particolari, quali ad esempio se ne ravvisano in abbondanza nella Madonna del cancelliere Rolin del Louvre, pur sempre sovrastato dalla imponente munificenza dei notabili che, in veste di nuovi committenti, non si facevano scrupolo di figurare a tutto tondo ed in enfatiche proporzioni al fianco delle immagini sacre.

 

 4.      Astrazione e forme della libertà prefigurata

 Fu proprio nei primi anni dell’epoca Muromachi (1333-1568 d.C.) che in Giappone si verificò una reviviscenza dello stile pittorico cinese. Gli shogun Ashikaga, risolta la crisi politica e militare che aveva spaccato in due il paese, messa in dubbio la legittimità della linea dinastica imperiale e coinvolto tutti i clan feudali in una lotta senza quartiere, posero la sede del loro governo a Kyoto, nel quartiere di Muromachi, eponimo dell’epoca che ebbe allora inizio.

 Sin dall’VIII sec. la pittura Shanshui aveva affinato il proprio canone nella polarità dialettica tra due opposte scuole: Beihua, o pittura settentrionale, e Nanhua, o pittura meridionale. La scuola Beihua aveva eletto a proprio capostipite il monaco Chan Shenxiou, il quale nel VII sec. aveva fondato la setta “gradualista”, che ricercava l’illuminazione attraverso il rispetto della regola monastica e l’attento studio dei Sutra. Nella composizione essa aveva privilegiato i soggetti cari alla corte imperiale e sviluppato una tecnica impeccabile e sofisticata. La scuola Nanhua, o scuola dei letterati (Wenrenhua), faceva invece capo a Huineng, contemporaneo di Shenxiou e fondatore della setta del “wu nien”, del “senza pensiero”, che dalla meditazione dinanzi agli oggetti della natura si proponeva di far sorgere l’illuminazione improvvisa. Di tale seconda corrente si sentirono i prosecutori gli artisti di maggior talento dell’epoca Muromachi. Nell’opera del monaco Zen (traslitterazione della parola cinese Chan, la quale lo è, a sua volta, di quella sanscrita dhyana, meditazione) Sesshu, di meno di trent’anni posteriore a quella di Jan van Eyck, la nebbia della reminiscenza, quel brivido creativo e spirituale nella cui ottica si dissolve l’oggetto della contemplazione, ha quasi del tutto cancellato ogni elemento accessorio. L’artista coglie l’essenza del paesaggio con un’espressione tanto libera e astratta quale in occidente si dovrà attendere per almeno un secolo, riconoscendola forse, prefigurata o latente, su alcune tele di Albrecht Dürer.
 


5.      Origini di una ferita

 Tra i primi occidentali ad approdare nelle terre del Giappone si contano, fervidi e zelanti nel perseguire i loro scopi evangelici, i missionari della Compagnia di Gesù. Fondata nel 1534 a Parigi, dove alcuni giovani di insigni casati aristocratici spagnoli e portoghesi avevano condotto studi in teologia presso la prestigiosa università della Sorbonne, la Compagnia impugnò le armi di una fede appassionata e persuasissima al fine di evangelizzare i popoli dell’Oriente. Francesco Saverio, nobile basco di Xavier, appartenente allora al Regno di Navarra, ricevette il sostegno del Re del Portogallo João III per istruire dalla colonia di Goa, sulla costa occidentale dell’India, una serie di viaggi che lo condussero dapprima nella penisola di Malacca e in Indonesia, poi fino a Kagoshima, nell’isola di Kyushu, la più a sud tra quelle che compongono l’arcipelago del Giappone, dove giunse nell’agosto del 1549. La letteratura agiografica sottolinea lo stato di ispirazione mistica pervaso dalla quale il Padre Santo compì la propria opera di proselitismo, perseguita con dedizione tale da non risparmiarlo alla morte, che lo colse sotto un’umile tenda, al solo cospetto dei suoi servitori personali, tali Antonio e Christovao, mentre attendeva presso la città cinese di Shangchuan, nella provincia meridionale del Guangdong, di essere raggiunto da una delegazione consolare portoghese, che in realtà non partì mai da Goa, e di essere condotto da alcuni mercanti nativi, i quali non fecero a tempo a dar seguito alle loro promesse, fino alla capitale, dove regnava l’imperatore Jiajing della dinastia Ming. Mentre da Kagoshima faceva ritorno a Goa, la nave di Francesco Saverio era stata sospinta là da una tempesta, della cui natura provvidenziale egli restò convinto fino al suo ultimo giorno. Prima della fine dolorosa e conseguente alla imitatio Christi quale era stata concepita secondo le regole dell’ordine di Ignacio de Loyola, egli era però ampiamente riuscito nei propri intenti sull’isola di Kyushu. Si narra che, soltanto nei primi mesi della sua predicazione, egli riuscisse a guadagnare alla fede cattolica centinaia di anime. E forse fu ancora su ispirazione divina se egli seppe ben destreggiarsi nei travagliosi frangenti in cui andava rompendosi l’equilibrio feudale del medioevo giapponese e fu capace di comprendere i reali rapporti di potere che legavano la figura dell’Imperatore, già allora relegata ad assolvere un ruolo esclusivamente simbolico, gli shogun del clan Ashikaga e i vari daimyo locali. In Giappone il sistema delle missioni gesuite continuò a funzionare assai bene anche dopo aver perduto la propria guida spirituale, cosicché esse costituirono una efficace testa di ponte per i traffici mercantili portoghesi e spagnoli nell’arcipelago e nel resto dell’Asia sud-orientale. Il messaggio cristiano si diffuse con grande rapidità soprattutto tra le caste dei contadini, ridotti in stato di totale indigenza dalle guerre del periodo Sengoku per l’unificazione politica e militare dell’Impero. Dopo che gli shogun del clan Tokugawa furono riusciti nel loro intento ed ebbero prevalso sui rivali al prezzo di sanguinose stragi, durante l’opera di edificazione di uno Stato centralizzato essi dovettero fronteggiare la resistenza di un’ormai folta popolazione di convertiti alla fede cristiana. Non furono pochi i martirî, che soprattutto i frati francescani affrontarono levando al cielo gioiose lodi al Signore – celebre quello del 1597, quando 26 seguaci del Santo di Assisi furono crocifissi sulla collina di Nishizaka, sovrastante la città di Nagasaki –, le efferatezze furono crudeli e insensate, come nella repressione della rivolta contadina di Shimabara del 1637. Poco alla volta gli shogun promulgarono una serie di restrizioni al commercio estero e finirono con l’espellere tutti i residenti stranieri dal territorio del Paese. Dal 1640 in poi fu consentito soltanto ad un gruppo di olandesi della Vereenidge Oostindische Compagnie, la Compagnia Olandese delle Indie Orientali, di risiedere su un’isola artificiale nella baia di Nagasaki, l’isola di Dejima. Gli olandesi godettero di tale trattamento di favore poiché erano gli acerrimi rivali degli spagnoli nei traffici commerciali in Oriente, loro nemici giurati a motivo della confessione nazionale calvinista e in seguito alle cruente guerre di indipendenza che le Province Unite avevano sostenuto contro i sovrani Asburgo di Spagna. Nell’arcipelago giapponese la repressione del cristianesimo proseguì ancora a lungo, e gli shogun si avvalsero dell’alleanza del clero buddista. Nel 1664 fu emanato un decreto in cui si prescriveva a tutti i sudditi dell’Impero l’obbligo di registrarsi presso un tempio buddista.

 

6.      Pittura di paesaggio e impatto dell’espansione mercantilista
 
 Le traumatiche vicissitudini dell’epoca Muromachi e della prima parte di quella Tokugawa (1603-1867) lasciarono nell’arte del Giappone una traccia ben più tenue di quella che i preti della dominazione dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura non hanno mancato in ogni epoca di caldeggiare con la loro ipocrita tiepidità.

 L’abitazione tradizionale giapponese è costituita in moduli abitativi i cui volumi possono essere variati, a sentimento, riposizionando pannelli scorrevoli, sopra i quali era antica usanza dipingere scene di paesaggio. Sopra uno di tali pannelli, appartenente alla serie nota come Namban-byobu (“Paraventi dei barbari del sud”), un artista ignoto del XVII secolo raffigurò una delegazione di Gesuiti portoghesi mentre viene ricevuta al momento dello sbarco sulle rive dell’isola di Kyushu. I padri missionari vi appaiono, non senza cura di dettagli, smarriti in un dedalo di bracci di mare e banchi di sabbia, frastornati e sospesi in un paesaggio di tanto imaginosa astrazione da galleggiarvi come sui lembi di una nube aurea, al di là dei quali, con sconcerto, essi non vedono occhieggiare i simboli del loro dio audace e vendicativo.

 Sotto il governo dei Tokugawa, con l’avvento delle pesanti restrizioni al commercio estero, la pittura di paesaggio allentò i legami con i modelli storici cinesi. Sull’esempio della Accademia di Hanlin, le cui origini risalivano alla dinastia Tang e che al principio del XII secolo proprio Huizong aveva rifondato e condotto ai fasti che le avevano meritato il nome esaltante e significativo di “foresta dei pennelli”, su tale esempio illustre, nel Giappone della metà del XV sec, nel cuore del periodo Ashikaga, era nata una scuola pittorica di corte, la scuola Kano. Essa aveva enfatizzato l’attenzione  per  l’elemento  decorativo  e,  trascurando  la ricerca interiore dei seguaci della pittura  Zen e della Wenrenhua, si era volta ad una figurazione  naturalistica magniloquente, quale esigeva il gusto orgoglioso dei nuovi potenti.

 Fu l’ascesa di una classe sociale borghese, quella dei chonin, che dettero nerbo al commercio e si giovarono del declino economico dell’aristocrazia feudale, vessata dai gravami imposti dal governo di Edo, fu tale ascesa a creare il terreno fertile per il sorgere di una nuova sensibilità artistica. Il processo di riproduzione a stampa era stato praticato in Cina già dal IX secolo. Allora, migliaia di immagini del Buddha Amida venivano impresse su torchi lignei e distribuite ad un pubblico vasto, anche tra i ceti più umili, giacché il semplice possesso di tali oggetti devozionali valeva quale ottimo viatico per conquistare, oltre la morte, il Paradiso della Terra Pura. Nel Giappone del XVII secolo, invece, la stampa xilografica ebbe una diffusione di tutt’altro genere. L’arte ukiyo-e, la “pittura del mondo fluttuante”, si strutturò secondo un sistema organizzativo del tutto nuovo, precorrendo addirittura le tecniche e la divisione del lavoro caratteristiche dell’editoria moderna. Un ricco imprenditore, esperto del gusto dei destinatari delle opere a stampa, commissionava agli artisti i disegni, i cui soggetti erano scelti nelle case di piacere dove la nascente borghesia amava consumare i frutti di prosperosi guadagni o tra le bellezze paesaggistiche dei luoghi dove i membri dell’aristocrazia feudale facevano tappa nel recarsi presso la capitale a rendere obbligatorio omaggio allo shogun. Un intagliatore ricavava poi dal disegno la matrice lignea per la stampa. Uno stampatore, infine, realizzava un numero di copie adeguato a soddisfare le richieste degli acquirenti. Benché tale sistema risulti palesemente segnato dalle insorgenti logiche del profitto, nell’opera dei maestri che sospinsero il genere della stampa artistica fino ad un livello di assoluta eccellenza vediamo riemergere quel brivido che si propaga sin dalle origini, da quando l’arte aveva preso a  indagare  il  mistero  della  presenza  umana  nella natura del mondo. Tale brivido estetico,  che si lascia percepire nella sensibilità artistica di tutte le epoche, ha per sua natura una sostanza etica e cognitiva. E non è forse possibile riconoscere persino una sfumata lezione confuciana in uno degli episodi della serie di incisioni nota come Le cinquantatre stazioni posta del Tokaido, dove Ichiryusai Hiroshige raffigurò alcuni portatori seminudi che, sotto una pioggia dirotta, trasportano un palanchino lungo uno scivoloso declivio? Non sorge forse spontanea la speranza che, in vetta a quel colle impervio, il signore che gli affaticati portatori conducono andrà a compiere un qualche atto virtuoso che ripaghi  la loro ostinata solerzia ben al di là di quanto possa una pattuita equivalenza di valori di scambio? In ciò che si intuisce al di là della grigia cortina dei rovesci di pioggia non riecheggia forse un’esortazione luminosa dove l’essere è congiunto all’espressione e il pensiero all’azione? Non può forse udire ciascuno, pronunciata da se stesso e a se stesso con voce finalmente umana, la massima di Kong Zi: “Il signore porta alla luce il bello degli uomini, non il male. Non è compito del giusto diffondere o preservare la civiltà con la violenza e l’ignoranza”?

 La pittura ukiyo-e che, dal tempo del suo quasi mitico fondatore Iwasa Matabei, ebbe tanti maestri capaci di far risuonare in essa una musica di forme e colori essenzialmente umani, quali Kitagawa Utamaro (1753-1806) o Katsushika Hokusai (1760-1849), fu disprezzata con tenacia dai potenti del Giappone quale arte profana e irriverente. All’inizio dell’epoca Meiji (1868-1912), dopo la riapertura dei traffici commerciali imposta dalle potenze imperialiste, essa giunse in Europa sulle carte da imballaggio che avvolgevano principalmente prodotti di lusso. In virtù di un caso che non dovrebbe apparirci sorprendente né arbitrario, giacché manifesta un’astuzia della ragione che senza remore o ottundimenti dovremmo aver infine appreso ad amare, artisti di genio quali Edouard Manet, Edgar Degas, Henri Toulouse-Lautrec e Vincent Van Gogh vennero così a conoscere la pittura ukiyo-e e ne trassero ispirazione per alimentare la rivolta contro l’arte accademica ottocentesca, per dare vita ad una nuova stagione universale di sapienza e di bellezza.

Giancarlo Micheli
 
 
 

Intervista radiofonica per "Dimensione autore"

Intervista a Giancarlo Micheli per la trasmissione radiofonica "Dimensione autore" di RadioItaliaUno del 18 Luglio 2012; a cura di Giorgio Milanese e Laura Scaramozzino




domenica 2 dicembre 2012

Traduzioni

Alcune traduzioni in lingua inglese, tedesca e spagnola di passi delle opere letterarie di Giancarlo Micheli, pubblicate sulla rivista on-line Levure littéraire diretta da Rodica Draghincescu

da Indie occidentali - romanzo
(Campanotto, Udine 2008)
Premio internazionale "Nuove Lettere" dell'Istituto italiano di cultura di Napoli, XXII edizione
traduzione in lingua inglese di Leslie Foster e Giancarlo Micheli

da Elegia provinciale - romanzo
(Baroni, Viareggio 2007)
traduzione in lingua tedesca di Antonio Staude

da Nell'ombra della terra - raccolta di versi
(Gabrieli, Roma 2008)
traduzione in lingua spagnola di Silvia Longohni



Una poesia di Giancarlo Micheli, pubblicata sulla rivista on-line colombiana La Urraka diretta da Juan Carlos Céspedes
 
da Nell'ombra della terra - raccolta di versi
(Gabrieli, Roma 2008)
traduzione in lingua spagnola di Silvia Longohni
 
 

sabato 2 giugno 2012

tramontinversi

rassegna di poesia a viva voce


ideata da
novarubedo - mutazioni nelle lettere e nei sensi

in collaborazione con:
BAU - associazione culturale
La parentesi della scrittura - associazione culturale per la promozione e la diffusione delle Lettere e delle Arti
Libreria Luccalibri (corso Garibaldi, 54 Lucca)

Quando:
Dal 15 Giugno al 5 Ottobre, ogni Venerdì sera alle 21

Dove:
Presso lo stabilimento balneare Bagno Sauro (Terrazza della Repubblica, 9 Viareggio)

Come:
In ciascun appuntamento della rassegna, un poeta presenterà una sua opera, edita o inedita, attraverso la lettura di una selezione di testi. A seguire, dialogo con il pubblico.


 Calendario:

15 GIUGNO
Canti di apocalisse e d’estasi (Campanotto, Udine 2008)
Angelo Tonelli

22 GIUGNO
L'arma propria - Poesie per un futuro trascorso (Clinamen, Firenze 2007)
Giuseppe Panella

29 GIUGNO
Settanta volte sete - Siebzig Mal Durst (ETS, Pisa 2006)
Dieter Schlesak

6 LUGLIO
Il libro dell’oppio (Puntoacapo, Novi Ligure 2012)
Caterina Davinio

13 LUGLIO
Il pudore dei gelsomini (Raffaelli, Rimini 2010)
Adele Desideri

20 LUGLIO
Durata del mezzogiorno (Carabba, Chieti 2011)
Antonio Melillo

27 LUGLIO
Abitare l’attesa (La Vita Felice, Milano 2011)
Francesco Macciò

3 AGOSTO
About poetry
Barbara Serdakowski

10 AGOSTO
La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012)
Giancarlo Micheli

17 AGOSTO
Chi non muore (Campanotto, Udine 2012)
Stefano Busellato

24 AGOSTO
Alchimie d’amore (Campanotto, Udine 2005) e Arabeschi di luce (Campanotto, Udine 2009)
Maria Grazia Maramotti

31 AGOSTO
Romanzo sospeso (inedito)
Gianluca Cupisti

7 SETTEMBRE
L’emozione dell’aria (CFR, Sondrio 2012)
Lucetta Frisa

14 SETTEMBRE
Vagabondages (EuropenDumpLink, Praha 2007)
Elda Torres

21 SETTEMBRE
Poemetto gastronomico e altri nutrimenti (Jaca Book, Milano 2012)
Tomaso Kemeny

28 SETTEMBRE
Nato a Viareggio (Bandecchi&Vivaldi, Pontedera 2012)
Giuseppe Cordoni


5 OTTOBRE
Le molte case dei miei ritorni (inedito)
Gabriella Valera Gruber


Perché:
“Soltanto la perdita di una comunità politica esclude l’individuo dalla umanità” scrisse Hanna Arendt in Le origini del totalitarismo. Nell’epoca attuale, che pare aver condotto ai loro estremi effetti i fenomeni che l’autrice di Vita activa e de La banalità del male avvertì quali tendenze o prodromi, la poesia, giacché parola che vuole lasciarsi intendere al di fuori e al di là di ogni criterio ideologico (l’ideologia della finanza globale, della società dello spettacolo, delle nuove dominazioni di vecchi o decrepiti imperialismi), è la realtà che ancora può dar vita a luoghi di autentica democrazia e libertà, che ancora può offrire cittadinanza a tutti coloro che non hanno desistito dal proposito di “cambiare la vita” e “trasformare il mondo”.

per informazioni: novarubedo@gmail.com – 3394129551

mercoledì 23 maggio 2012

Le ragioni di uno stile

recensione al romanzo
La grazia sufficiente (Campanotto, 2010)
pubblicata su literary.it (n.5/2012)

La grazia sufficiente, edito da Campanotto, è il terzo romanzo di Micheli, ed è, forse, il suo lavoro più maturo, per certe soluzioni stilistiche ancor più radicate di quante non se ne ritrovino nei precedenti. Una scrittura densa, sanguigna, che per certi aspetti ricorda Manzoni – quantomeno nell’architettura stessa della prosa e nel suo poderoso assetto – molto lontana da quella, usa e getta, che oggi va per la maggiore. Facendo ricorso a una metafora, se oggi è in auge il vino poco strutturato, il cui gusto ricorda quello di celebri bevande frizzanti e analcoliche, qui siamo invece di fronte a una bottiglia di vino che ha corpo, personalità: un vino vero. Ecco, Giancarlo Micheli è uno scrittore vero, che ha uno stile, una precisione descrittiva, una ricchezza lessicale straordinaria. Talvolta il lettore potrà imbattersi in passi che richiedono un certo impegno, ma avrà comunque la fortuna di confrontarsi con un’opera che lascia il segno, anche nell’esperire le potenzialità espressive e comunicative della nostra lingua. La sintassi piena, ipotatticamente orientata, la scrittura avvolgente, fascinosa, originalissima, anche nella sovrabbondanza delle immagini – che determinano necessari, e accattivanti, rallentamenti – moltiplicano le possibilità di raffigurazione della realtà, facendola ruotare ad angolo giro sugli assi della propria rappresentabilità. Affiorano un po’ ovunque, intrecciandosi in un robusto tessuto linguistico, gergo comune, non esente da toscanismi, lessico scientifico, settoriale o specialistico. Si veda, ad esempio, l’articolatissima terminologia marinaresca con cui, nelle prime pagine, si descrive la vicenda di un naufragio:

In egual guisa, nell’idrostatico abisso dell’oceano, affondava il capitano Baruch Dekker; volgeva il capo in alto e spalancava gli occhi nell’acqua salsa, osservando, ritagliata contro l’alone di cui il sole macchiava la sovrastante superficie, la sagoma scura del giustacuore, che era appena riuscito a sfilarsi di dosso, e che, ora, galleggiava sopra di lui, somigliante ad un minaccioso sudario. Sempre in alto, ma sulla sinistra della verticale lungo la quale il capitano, per quanto mulinasse di gambe e braccia, tirava a dritto verso il fondale marino, sulla sinistra, benché offuscata dietro un reticolo di riverberi di cui il sole, beffardamente, trafiggeva l’equoreo spessore, sulla sinistra il capitano intuiva una più vasta mole, scossa dalle onde con incombente panneggio. Realizzò confusamente dovesse trattarsi della vela di controbelvedere che, poco prima, quando l’albero di maestra si era spezzato, aveva vorticato nelle elettriche folate del vento e, dopo aver sbattuto contro l’impavesata, era andato ad incastrarsi sotto la chiglia. Tratteneva il fiato il capitano Baruch. Sentiva il corpo pesare sugli strati d’acqua gelida e fosca, allorché apparve, ad un palmo dal suo naso, una lignea forma oblunga, la quale rimontava verso la superficie, con soteriologica inerzia risputata dal sorso immane dell’oceano.

La fiction è sostenuta da un’impalcatura storica – appunto da “vero per soggetto” – di notevole spessore. Il romanzo è ambientato nel Giappone del XVII secolo, dove un capitano di origine ebraica della Compagnia delle Indie orientali olandesi, Baruch Dekker, si trova a doversi ricostruire una vita in seguito al naufragio del bastimento di cui gli era stato affidato il comando. In tale difficile impresa, catapultato in mezzo ad una cultura aliena e ignota, avrà successo grazie all’incontro con una geisha, Netsuki, dalla quale avrà pure un figlio, Aikyo. Con loro formerà una famiglia, che si prodigherà poi a difendere. Alla rigida cultura autoctona del Giappone feudale appartiene, invece, il secondo personaggio, Taisho. Due storie parallele, quindi, che si accavallano sullo sfondo di un intreccio ulteriore, quello tra la nostra civiltà occidentale e l’orientale. Compaiono, infatti, nel racconto le vicissitudini delle guerre di religione del Seicento europeo, dal cui fanatismo e dalle cui persecuzioni l’ebreo Baruch Dekker si volge in fuga, abbandonando la terra natale olandese dinanzi all’invasione delle truppe del Re cattolico guidate da Ambrogio Spinola. Non mancano excursus sul mondo calvinista, con precisi riferimenti alle questioni teologiche che opposero arminiani a gomaristi, i notabili della borghesia mercantile all’aristocrazia delle armi. Di queste diverse culture si descrivono nei dettagli i luoghi degli incontri, come quando si narra del sequestro del carico del galeone spagnolo San Felipe per ordine dello shogun, episodio da cui ebbero inizio le persecuzioni contro i missionari cattolici, a rendere testimonianza della ferocia e spietatezza delle quali proprio il protagonista del romanzo, Baruch Dekker, assisterà ad un episodio assai crudele, quello della fumi-e (i sacerdoti cattolici venivano costretti a calpestare le immagini sacre alla loro religione in segno di abiura).
Nel testo di Micheli si incontrano poi dialoghi e monologhi intensi e sostenuti, formulati in un linguaggio alto, che presenta talvolta uno scarto rispetto a quello che potrebbe essere un quadro realistico delle situazioni narrate, ma sempre con l’intento di distillarne il contenuto lirico o epico:

“Sapete cosa c’è dentro le casse che abbiamo scaricato?” aveva chiesto il primo marinaio, guardandosi tra i piedi sospesi sull’acqua verde della darsena, e subito prima di versarsi in gola un robusto sorso ristoratore dalla fiaschetta che estrasse dalla fodera della marsina sdrucita.
Nei lunghi anni di navigazione Baruch aveva appreso a cavarsela in maniera decente con la lingua lusitana. Squadrò dall’alto in basso l’interlocutore, un tipetto baffuto e segaligno, di pelo ispido e scuro, la cui testa, in postura eretta, non sarebbe arrivata alle sue spalle; quindi Baruch si prese un attimo per riflettere, prima di rispondere con affettata pacatezza.
“Di tutte le cose che soddisfano i suoi bisogni, l’uomo attribuisce il maggior valore a quelle che meno gli sono indispensabili. Sui galeoni ho trasportato lo zucchero di canna dalla Guyana alle Azzorre, il pepe da Cochin a Melinda o a Hormuz, perfino l’oro dalla foce del Congo fino ad Anversa, e schiavi perfino, da Capo Verde ai Caraibi. Per tutti i mari e tutte le terre, però, ho incontrato davvero pochi uomini che sapessero sorridere, che sapessero prendere soddisfazione dalle loro vite. Ovunque tristezza e afflizione, tra i miserevoli quanto tra i più doviziosi. Pure i mercanti che mi hanno affidato i loro traffici, non ricordo di averli mai visti felici. Forse hanno gioito in segreto, quando sono andati a incassare le loro carte di credito dai banchieri. Amico…” e osservò qua una pausa il capitano Dekker, durante la quale fissò il portoghese, tanto intensamente che questi trasse indietro le spalle, sorpreso, quasi timoroso di ciò che l’altro era sul punto di aggiungere. “L’unica cosa che mi sorprenderebbe è se le casse imbarcate sulla vostra feluca contenessero la felicità di qualcuno.”

Dove questa tensione poetica percorre le pagine con evidenza ancora maggiore è nelle descrizioni dei paesaggi:

I portoghesi piegarono per una stradina in salita, che si inerpicava sulle pendici di un colle, e Baruch andò loro dietro, silenzioso e meditativo. Poco oltre, dove le costruzioni diradavano, la stradina sbucava in un tetro ghiaione, proteso da lì fino alla cresta della cima. La palla incandescente del sole, ormai bassa sopra l’orizzonte, era scomparsa, inghiottita oltre il dente azzurrino della cresta. La natura del luogo era orrida, deserta, macchiata la pietraia solo da radi cespugli di erbacce; si aveva l’idea di essere, all’improvviso e senza faticare su per ostiche balze, in alta montagna, dove l’aria impalpabile nutre matrignamente la terra franta e antica. Al di là della linea frastagliata delle rocce si scorgeva soltanto il cielo sgombro di nubi e, a settentrione, dove l’uniforme campitura turchese virava ad uno zaffiro opaco, le prime stelle della sera mostravano le loro pudiche lanterne, in disparte.

Questa lingua ricca, in qualche misura debordante, ricrea una realtà, la reinventa rallentando l’azione, si diceva, per indicarne una parallela, data da questo posarsi sulle cose, investigandole nei minimi dettagli, indugiando sugli stati d’animo dei personaggi, rinvenendo nuove occasioni narrative. Ed è una scrittura coraggiosa, perfino spericolata in questo suo orientarsi controcorrente e tendere verso l’alto, in questo suo offrirsi al lettore come momento che trova in sé, nel suo darsi, la propria ragione e il proprio compimento. In tal senso il romanzo può essere guardato anche come un laboratorio di scrittura, considerata non solo come modo di rappresentare la molteplicità del reale, ma anche come snodo attorno a se stessa, come ricerca delle proprie potenzialità semantiche, sintattiche ed estetiche. I personaggi del romanzo sono immersi in questa procedura pervasiva: le loro voci risultano come uniformate al taglio letterario, quasi intossicate di letteratura, permeate dallo stile che informa tutta l’opera e conferisce ad essa unità di rappresentazione, anche in tale suo moltiplicarsi e scindersi in soggettività plurime, in distinte sfaccettature della realtà che si incastrano tra loro e concrescono alimentandosi le une sulle altre. È proprio lo stile della scrittura di Micheli e la potenza plastica della sua parole che riescono, dunque, ad illuminare le cose in tutta una serie di aspetti su cui, altrimenti, il nostro occhio non si poserebbe.
Francesco Macciò

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I benefici dell'anima

recensione al romanzo La grazia sufficiente (Campanotto, 2010)
pubblicata su valeriaserofilli.it (Maggio 2012)

E' uno scorcio del medioevo giapponese questo recente romanzo di Giancarlo Micheli, pubblicato nel 2010 per i tipi di Campanotto Editore di Udine. Un medioevo orientale contrapposto ma anche messo in parallelo rispetto all'Europa del Cinquecento, devastata dai conflitti religiosi.
Già il titolo stesso del volume ci fornisce una preziosa indicazione riguardo al contenuto: la grazia sufficiente, quella grazia mai negata a chi la chieda e con il cui aiuto l'uomo può sanare il disordine morale. La suddetta grazia costituisce anche l'elemento di connessione e il punto di arrivo auspicato delle due vicende di cui si compone la trama, molto diverse tra di loro nel tempo e nello spazio. L'abilità di Micheli consiste nel rendere credibile la storia tramite citazioni precise di vocaboli propri della lingua giapponese dell'epoca, di luoghi, situazioni e oggetti tìpici dell'ambiente descritto e dell'epoca prescelta, vale a dire l'arcipelago giapponese del medioevo. (Tra i tanti esempi: Komon, torii, shogun, il teatro del nò, la scrittura kanjì, shite, waki, yugen, musubi).
Se da un lato è vero che l'utilizzo di queste terminologie rischia di complicare l'assimilazione e l'interiorizzazione del testo da parte del lettore, è altrettanto vero che l'abilità dell'autore riesce a rendere credibile la vicenda in virtù di un valido intreccio narrativo e dell'abbondanza di dettagli e descrizioni.

Un lampo sottile si distese, si distaccò trasversalmente dal fiotto giallognolo della lampada e fendette il suolo con una candente crepa, che la densa pece della notte rimarginò all’istante. Avevano raggiunto i binari della linea ferroviaria da Ryo Jun a Mukden. Entrambi ripassarono mentalmente le operazioni che avrebbero dovuto compiere. Ormai non più di cinque ken li separavano dal loro obiettivo. Tanto misurava l’orto della famiglia di Taisho, nel villaggio di Mogi, dall’argine del fossato alla casa dal tetto ricoperto di frasche; e non senza affanno Taisho colmò quella minima distanza.
In quel momento sua madre era, senza dubbio, inginocchiata di fronte al butsudan, o quantomeno legittima era la supposizione del figlio di immaginarla là. E proprio l’immagine della madre raccolta in preghiera occupava la mente di Taisho nel momento in cui egli dette di piglio alla pala e iniziò a scavare tra le traversine del binario, sotto le quali si accingeva, con l’ausilio del compagno, a piazzare la carica esplosiva. E il disco lunare del volto materno declinava sotto la curva delle prostrate spalle, mentre le labbra mormoravano una lode al Buddha Amida. Nel distaccarsi dalle labbra, dipinte di un carminio naturale e risaltanti sui bianchi cretti delle rughe che le attorniavano, nel distaccarsi le sillabe prendevano la forma di un vortice o di una spirale, entrambe con gli assi di simmetria giacenti nella rabbrividita notte mancese, esattamente sovrapposti allo spazio occupato dalla colonna vertebrale di Taisho, attorno alla quale avvolgevano una supplice vibrazione, cosicché il giovane guastatore ne riusciva protetto, blandito da un sentimento augurale e benevolo.
Si era fatto, attorno, un silenzio denso, quasi palpabile. Spioveva adesso sui gesti frettolosi dei soldati che, una volta piazzata la dinamite, ora si allontanavano reggendo tra le braccia il detonatore. Il paesaggio era svanito nei riflessi di un gelido cristallo, impenetrabile alla vista, del quale il freddo affilava gli spigoli, li configgeva sotto le intrise uniformi dei soldati, nella pelle assiderata e livida. Le consegne prescrivevano che i due attendessero l’arrivo del treno diretto a Mukden e che la carica fosse innescata quando il locomotore fosse giunto a un cho dal luogo dell’esplosione, affinché il macchinista non avesse il tempo per arrestare il convoglio. L’attesa parve interminabile, scandita dal tremito insistente delle mascelle dei soldati, che mordevano l’aria agghiacciata con metronomica paratassi. Taisho pensò ancora alla madre. La immaginò mentre teneva sul palmo della mano la ihai , sulla quale un monaco buddista aveva scritto il nome che Shigetaro aveva preso dopo la morte. La vide avvicinare agli occhi la tavoletta e annodare attorno ad essa un biglietto di carta di ibisco. Senza dubbio era un voto offerto affinché il figlio le tornasse vivo dalla guerra; Taisho ne aveva opprimente cognizione, unita alla lucida coscienza dei propri gesti che, con solerte automatismo, approntavano l’imminente esplosione.
Giacché gli ottativi dell’anima si avverano soltanto qualora la fede, o la persuasione, siano abbastanza salde da ricomporre le contraddittorie macerie della volontà, Taisho si astraeva dallo spazio fisico che lo separava dalla madre, con tale intensità, e incrollabile, da figurarsi distintamente la schiena di lei, che si inarcava e tornava a prostrarsi dinanzi alla statua del Buddha, con ossequiente ostinazione. Cosa era cambiato da quando Taisho era stato bambino, accovacciato assieme ai genitori davanti al povero desco, oppure in preghiera davanti al piccolo altare domestico? La madre raccoglieva dalla mensola del butsudan una ciotola di riso e si voltava ruotando sulle ginocchia, con senile indugio. Il movimento di lei, tuttavia, non era appesantito dall’oneroso e ovvio vincolo della gravità, i geta non compulsarono sulle tavole del piancito con la goffa sollecitudine necessaria ad impartire alle anche l’opportuna torsione; pareva piuttosto che ella galleggiasse nell’aria ombrosa della stanza, sostenuta da fili invisibili, quasi che la volontà di lei si trasmettesse al corpo non per la tribolatoria via di nervi e muscoli, ma secondo una più ineffabile intenzione, se non trascendente quantomeno impersonale, cosicché infine si arrestò, la ciotola sollevata in alto e il capo nascosto tra le braccia protese, e fu immobile, circonfusa dalla serena levità che l’artista ritrova nell’eidetico equilibrio del soggetto di cui coglie la forma da sottrarre all’ottusità del reale, ridisponendo ogni parte della sua composizione nell’armonia di una nuova specie di necessità, che va portando alla luce. Nel movimento di lei, lento e deciso, al compiersi del quale, adesso, offriva il dono che la pianta del riso aveva distillato dall’acqua e dal fango, nel movimento di lei si librava la quiete di un limpido mattino, quale in un paesaggio del monaco Sesshu ne galleggiano di alte colline, al di sopra di un ristoro di acque placide, prolungati fino ad un’estate che è la stessa ed è un’altra, come la collina riflessa nella mano dell’artefice. Un’impreveduta brezza emerse dalla crespa superficie marina, di intenso azzurro, e accarezzò il volto pallido della madre, le sciolse il nodo che raccoglieva i capelli dietro la nuca, cosicché la loro erba corvina si dispiegò nell’aria, culminò ad indicare un luogo assente e, mentre il soffio del refolo si sfaceva con un fremito stordente, i capelli ricaddero, inerti, sopra la seta del kimono.

Tale complessità, sia dal punto di vista della trama che della ricerca e conoscenza approfondita del mondo storico e sociale del periodo giapponese antico, pone il romanzo in controtendenza rispetto a tanta narrativa minimalista e improvvisata.
E nonostante l'autore parli di due vicende ben definite e circoscritte dal punto di vista cronologico, non siamo tuttavia di fronte ad un saggio storico ma ad un'opera narrativa che si presta ad essere attualizzata in quanto il lettore moderno si può identificare per la vicenda umana narrata, il rapporto con la natura, la profonda ricerca del significato dell'esistenza, nonché il principio secondo cui "chi accoglie un beneficio con anima grata, paga la prima rata del suo debito" (Seneca, De benefìcis, II, 22, 1).
Dal punto di vista linguistico, la ricercatezza e la forza evocativa del linguaggio, contribuisce a conferire alla narrazione quell'andamento e ritmo di classicità e quella patina arcaizzante, calando la storia nell'epoca: «Lungo la baia, sul fluttuante specchio lambito dai raggi del sole equinoziale...» (dal prologo) e ancora «(...) principiava un camminamento »(p. 53); «II torpore del sonno gravava le membra... (p. 97).
Non si tratta comunque unicamente di un romanzo di riflessione filosofico-esistenziale, ma che propone anche numerosi eventi storici ed un'azione ed avventura vivace ed intensa, basate anche su viaggi, battaglie e incontri vissuti dai vari protagonisti.
In quest'ottica possiamo parlare di commistione fra vari generi letterari riuniti in una trama fluida e accattivante, frutto della sensibilità e bravura di Giancarlo Micheli, autore che propone un tipo di narrative del tutto originale che fanno di lui una voce riconoscibile nel panorama letterario contemporaneo.
Valeria Serofilli

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lunedì 16 aprile 2012

Per una teoria del romanzo nella fase suprema dell’imperialismo

articolo pubblicato sulla rivista Cultura e prospettive, supplemento de Il Convivio (anno XIII, n.1 - Gennaio-Marzo 2012)

Durante il secolo scorso – il ventesimo secondo una convenzione cronologica che è propria dell’uso comune non meno che del canone storiografico –, che un insigne storico quale Eric Hobsbawm definì “secolo breve”¹ per designare in una formula icastica l’accelerazione dei processi antropologici, assai vertiginosa e nient’affatto scevra di conseguenze nocive, dalla quale fu caratterizzato, durante questo secolo che riverbera i propri effetti sul nostro presente in misura considerevole e, per molti aspetti, determinante, si compirono trasformazioni sociali e cognitive tali da sconvolgere in profondità il senso che la specie umana fonda in se stessa e nella propria relazione con la natura che abita. Scoperte – o forse invenzioni linguistiche ad arguire sulla base di posteriori elaborazioni concettuali della psicologia dinamica – quali quella freudiana dell’inconscio, ovvero intuizioni matematiche quali quella espressa nella forma elegante e aporistica del teorema di Gödel², hanno agito sulle interpretazioni del mondo e sulla vita reale delle donne e degli uomini assai più in profondità di quanto il senso comune non sia disposto a concedere, non meno di quanto accadde nel corso dell’Umanesimo e del Rinascimento in corrispondenza alla scoperta delle leggi della prospettiva o all’esplorazione dei nuovi continenti.


Il romanzo senza romanzo e la società dei monopoli spettacolari

Non vi è dubbio che l’introduzione su vasta scala di macchine automatiche nella produzione dell’industria, avvenuta a partire dagli ultimi decenni del diciannovesimo secolo e massicciamente proseguita nel successivo, abbia avuto conseguenze antropologiche decisive, sebbene le si possa sperare non definitive. Il modello che guidò tale sviluppo fu quello americano del taylorismo, il quale vide gli albori nel tempo del crollo dei regimi politici dell’assolutismo e condusse ben presto gli Stati Uniti, dove esso allignò in coincidenza con lo spettacolare flusso migratorio che, dalle regioni povere dell’Europa meridionale e orientale, si riversò a soddisfare la domanda di manodopera non specializzata che l’apparato tecnico dei nascenti monopoli economici andava formulando in termini di anno in anno più imperativi e categorici, condusse gli Stati Uniti ad una rapida conquista della supremazia nel novero delle potenze imperialiste. È la tesi di alcuni storici autorevoli, come Karl Polanyi³, che il processo inauguratosi allora abbia portato alla dissoluzione dell’ordine liberale ottocentesco, fondato sui cardini ideologici del mercato autoregolato, del liberalismo politico e della base aurea del valore di scambio, fino a sostituirlo con l’attuale dominio del capitalismo finanziario, ben concreto spettro che, ancora oggi, fa aleggiare sul mondo l’autentica minaccia della propria eternità fittizia. Tale mutamento si compì, potremmo aggiungere, attraverso l’assimilazione di ciò che, nei primi decenni del ventesimo secolo, era apparso all’orizzonte della storia con i crismi dell’irriducibilità dialettica al discorso della civiltà capitalistica, vale a dire attraverso l’assimilazione di non pochi caratteri costitutivi dei regimi totalitari della società di massa: il socialismo di Stato sovietico, il nazionalsocialismo e i fascismi di vario genere e caso. Il prezzo che l’umanità ha dovuto pagare in questa transizione epocale è stato esoso quanto non può sfuggire a chiunque prenda in esame, sia pure in modo superficiale e senza particolari coinvolgimenti emotivi, i conflitti mondiali nelle cui tragiche vicissitudini lo sterminio è stato applicato su scala industriale. Se soltanto lungo una digressione tanto ampia, che ad alcuni sarà potuta apparire persino peregrina, ci è stato possibile avvicinare il nucleo delle riflessioni che intendiamo sviluppare attorno ad alcuni concetti della teoria del romanzo, sarà stato per non tenersi discosti dall’orbita intellettuale di un pensiero che ha gettato molta luce su tali argomenti, quello di Michail Bachtin, il quale scrisse nel saggio Il problema della creazione letteraria: “Il concetto di estetico non può essere derivato per via intuitiva o empirica dall’opera d’arte: esso allora sarà ingenuo, soggettivo e instabile; per autodefinirsi in modo sicuro e preciso esso deve definirsi relativamente alle altre sfere nell’unità della cultura umana”. È chiaro come l’esigenza di sistematicità che si rivela nell’opera di Bachtin affondi le proprie radici nella filosofia dialettica hegeliana, dalla quale egli trasse la linfa necessaria a farne germogliare una formulazione scientifica della tipologia strutturale del discorso proprio al genere narrativo del romanzo, che egli ebbe cura di verificare negli studi monografici dedicati a Rabelais e Dostoevskij. Dopo averne individuate le categorie fondamentali della pluridiscorsività e della plurivocità, ad esso peculiari, egli approdò ad una definizione tanto sintetica quanto rivelatrice, secondo la quale il discorso proprio a tale genere letterario consisterebbe nel “discorso dell’altro nella lingua altrui”. Una disciplina che prese origine dalle evoluzioni della linguistica e della filosofia del linguaggio novecentesche, vale a dire la semiologia, ha contribuito a produrre significative conferme alle tesi del pensatore di Orël. La “scuola di Tartu”, radunata attorno alle personalità carismatiche di Jurij Lotman e Boris Uspenskij, elaborò una concezione dinamica dello sviluppo delle culture sulla base della eterogeneità interna di ciascuna e delle relazioni inclusive che ciascuna pone in essere nei confronti di quelle contigue. Un esempio cui i semiologi di Tartu ricorsero spesso, allo scopo di suffragare le proprie teorie, riguarda la denominazione che al tempo della Russia medioevale era riservata alle popolazioni stanziate ai confini del Principato di Kiev, le quali, gradualmente, abbandonavano la vita nomade per assimilarsi agli usi e alle consuetudini autoctone: naŝi pojanii, cioè “i nostri pagani”, “i nostri estranei”. Nel rispecchiamento dei fenomeni sociali e politici che favoriscono il contatto e la mescolanza delle culture ogni particolare lingua letteraria forgia i propri specifici strumenti evolutivi secondo i criteri della similarità (linea metaforica) e della contiguità (linea metonimica), tanto da lasciar riconoscere una connaturale ed uniforme tendenza a strutturarsi in analogia con i flussi migratori delle popolazioni e delle conoscenze.


Il sistema nervoso dell’imperialismo e i riflessi della storia culturale italiana

Nella storia della cultura italiana è ben nota la rilevanza assunta in lunghi secoli dalla questione della nascita di una lingua nazionale, a partire dal principio del Trecento e dal primo Umanesimo, con l’affermarsi delle lingue volgari sulla κοινή aristocratica della latina, e fino all’Ottocento, all’epoca del compimento dell’unità politica, attraverso lo sforzo di elaborazione teorica e creativa che impegnò le personalità intellettuali più autorevoli, da Alessandro Manzoni a Francesco De Sanctis. Nei Quaderni dal carcere, che redasse dal 1929 al 1935, Antonio Gramsci lamentò l’assenza di un carattere nazionale-popolare della lingua letteraria italiana e castigò la maggior parte degli scrittori del suo tempo conferendo loro il titolo, tanto sprezzante quanto ben giustificato, di “nipotini di Padre Bresciani”. Al contempo, egli notò che negli strati borghesi della società, dove si contava allora la larga maggioranza dei lettori nonché la base morale e politica del regime fascista, le letture più in voga erano quelle dei romanzi d’appendice, inglesi e soprattutto francesi, disponibili in traduzione e pubblicati in edizioni economiche relativamente ben distribuite. Commentando una Lettera a Piero Parini sugli scrittori sedentari di Ugo Ojetti, apparsa sulla rivista Pegaso del Settembre 1930, Gramsci scrisse: “In Italia è sempre esistita una notevole massa di pubblicazioni sull’emigrazione, come fenomeno economico-sociale. Non corrisponde una letteratura artistica: ma ogni emigrante racchiude in sé un dramma, già prima di partire dall’Italia. Che i letterati non si preoccupino dell’emigrato all’estero dovrebbe far meno meraviglia del fatto che non si occupino di lui prima che emigri, delle condizioni che lo costringono a emigrare ecc.; che non si occupino cioè delle lacrime e del sangue che in Italia, prima che all’estero ha voluto dire l’emigrazione in massa. D’altronde occorre dire che se è scarsa (e per lo più retorica) la letteratura sugli italiani all’estero, è scarsa anche la letteratura sui paesi stranieri. Perché fosse possibile, come scrive l’Ojetti, rappresentare il contrasto tra italiani immigrati e le popolazioni dei paesi d’immigrazione, occorrerebbe conoscere e questi paesi e… gli italiani.”
L’odierno apparato delle patrie lettere e la sua concreta funzione di agente nel più vasto ambito della cultura nazionale offre, all’analisi, elementi di chiara analogia con quanto Gramsci descrisse in relazione al proprio tempo, senza lesinare strali e sarcasmo. In merito alla capacità di rappresentare, nell’indipendenza estetica che deve esserle propria, le contraddizioni reali della società e della vita, sembra essersi accresciuto il deficit della produzione letteraria nazionale rispetto a quella europea e americana ma, soprattutto, rispetto a quella dei paesi cosiddetti emergenti. L’ottimo giornalismo di denuncia di Roberto Saviano, ad esempio, se ha consentito all’autore di Gomorra l’agevole, e forse meritato, accesso ad una posizione di rendita tra i simulacri nazional-popolari della locale società dello spettacolo, manca tuttavia ad almeno due funzioni imprescindibili e connaturali ad un’arte letteraria che risponda alle istanze, etiche ed estetiche, poste dalla situazione cui essa aggiunge il proprio discorso: quella di esprimere, nel loro senso storico, i temi di cui tratta (l’apporto conoscitivo dell’opera di Saviano ad una più profonda comprensione della questione meridionale o a quella dei rapporti strutturali tra violenza di Stato e violenza criminale, appare, in definitiva, ben più mediocre di quanto non sia stata sopravvalutata) e l’invenzione di una lingua letteraria propria e personale, che tragga alimento dai linguaggi e dai codici della realtà viva che raffigura affinché ne riescano demistificati nella chiarezza e distinzione peculiari all’arte.
Nell’epoca del regime globale dell’economia finanziaria, i meccanismi di regolazione e distribuzione della violenza necessaria a conservare in equilibrio la riproduzione del capitale e quella della specie agiscono, ovunque, secondo criteri omogenei, applicati con appena lievi adattamenti sotto tutte le bandiere e tutte le latitudini. Come la lingua nell’uso concreto, così anche la lingua letteraria risente di tale deleteria involuzione, cosicché essa tende a discostarsi sempre meno dal grado zero di una complice neutralità, dove si trovi ridotta ad una mera funzione commerciale, all’intrattenimento della torpida e indolente coscienza contemporanea, lontana dalla specie quanto il capitale dista dalle esigenze e dai bisogni reali delle donne e degli uomini che asservisce.
In un suo saggio del 1973 Lucien Goldmann indicava nel “romanzo senza romanzo” la “struttura romanzesca omologa al capitalismo dei monopoli”. Nel solco dove il critico marxista poneva il dito della propria analisi si potevano contare, già allora, esempi di una copiosa tradizione sperimentale, dal romanzo modernista di Joyce o dadaista di Roussel, ai “non romanzi” surrealisti di Breton e Aragon, al Nouveau Roman di Queneau, Robbe-Grillet o Marguerite Duras. Con classico e canonico ritardo la ricerca letteraria italiana tentò di accodarsi a tali direttrici non prima degli anni sessanta, risentendo in ciò di una duplice serie di effetti negativi: quella inerente al tardivo ed imperfetto conseguimento dell’unità politico-culturale e quella relativa al conformismo morale, imposto dapprima dall’atavica egemonia cattolico-clericale e poi, attraverso la violenza intimidatoria e la censura, nel corso del ventennio fascista.
Assecondando la sua vena caustica e viscerale non meno che lucida e illuminante, Pier Paolo Pasolini scriveva nel saggio La fine dell’avanguardia¹⁰: “Ripeto: la caduta della nozione di impegno, come nozione-civetta, ha trascinato con sé, nella caduta, la problematicità tout court, la contestazione, l'individuo, che protesta, l'anormale, il Diverso ecc. Ma qual è stato l'effetto di questo odioso bisogno di stabilità e livellamento delle borghesie, di questa oscena salute del neocapitalismo? Il più incredibile e il più naturale. Una reviviscenza, diffusa, violenta, scandalosa e popolare, fino ad arrivare ad essere di moda, della problematicità pura e semplice, della contestazione, dell'individuo che protesta, dell'anormale, del Diverso ecc.! Che sono giunti - nell'accanimento del difendersi e del disperarsi - a una sorta di aggressivo esibizionismo; disancorandosi e distinguendosi dalla protesta razionale del marxismo; o addirittura ignorandolo, come avviene soprattutto in America. Di fronte a questo revival anarchico non violento, ogni altra forma di contestazione alla società - e nella fattispecie alle sue élites letterarie - sembra soltanto letteraria. In confronto mettiamo a Ginsberg, tutti i contestatari linguistici appaiono degli abatini – come un giornalista imitatore di Contini, chiama i giocatori di calcio graziosi e accademici. Tutta l'avanguardia italiana, per esempio (a parte certi arrivisti, volgari e quasi fìsicamente ripugnanti) è composta di tali abatini. Se dovessi definirli, direi che sono uomini che ripetono, e vogliono ripetere, con puntiglio quasi femmineo e provocatorio, le caratteristiche paterne… Ma ciò è da loro pacificamente ammesso (con altre parole, s'intende!). Poiché tutto è cominciato da parte loro, con un colpo di scena: cioè con la dichiarazione della propria dissociazione tra il fare linguistico e l'essere nella vita. Il fare linguistico consisteva in una pura e semplice battaglia linguistica contro la borghesia così com’è, allo stesso modo per esempio, che un missino – per un esibizionismo che coincide con la scandalosa scelta del conformismo – accetta l'Autorità”. Non è difficile rinvenire un’analogia tra questo passo dai toni parenetici e quanto Gramsci scriveva dal carcere per esecrare la patria avanguardia storica par excellence, le cui connivenze con il regime non ammontarono a poca ignominia: “I futuristi. Un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po' di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre”.
 
 
La ricomposizione dell’oggetto estetico
 
Il valore della critica che in Italia si espresse in pagine particolarmente lucide e appassionate come quelle di Gramsci o Pasolini risiede più che nell’adesione militante ai temi della realtà viva da cui la rappresentazione letteraria trae motivo ed alimento, più che in una fiducia del tutto laica nei possibili effetti pragmatici del lavoro di scrittura, risiede piuttosto nell’equanime enfasi posta sugli elementi etico e conoscitivo dell’architettonica narrativa, i quali, sebbene eterogenei all’elaborazione propriamente estetica, costituiscono di essa il contenuto, lo sfondo dinanzi al quale la composizione artistica fa emergere la necessità del proprio senso e risveglia la bellezza dal sonno inerte dei meri materiali linguistici.
Se già Dostoevskij, all’interno di un corpo narratologico ancora “figurativo”, esplorò i bassifondi e le latebre della residua anima umana e del mondo ben prima della vigilia delle carneficine meccanizzate dalle cui tragiche deflagrazioni la storia della letteratura occidentale proseguì e perseverò fino alle sofferte conquiste della soggettività esplosa e dei suoi contesti in frantumi e macerie – attraverso i capolavori di Joyce o Williams, Bulgakov o Crevel, Yourcenar o Canetti, Bataille o Klossowski –, affinché la forma del romanzo possa rispecchiare la monodimensionalità delle strutture antropologiche e sociali lungo i cui segmenti l’individuo contemporaneo patisce la quotidiana dimostrazione della propria impossibilità concreta, è necessario, oggi come sempre, l’emergere del genio creativo che, al di là delle lenti ideologiche dietro il cui vitreo schermo la società dello spettacolo vede se stessa e addestra la miopia degli sguardi e delle prospettive, ricomponga l’immagine sensibile dove si prefiguri l’umanità affrancata dai vincoli economici oppressivi e dal feticismo delle merci, dove si lasci presagire la libera circolazione del sogno nella realtà.
Con la sua opera monumentale Il principio speranza, il filosofo Ernst Bloch tracciò alcune linee direttrici indispensabili affinché il movimento alla volta dell’arte letteraria che i cicli della storia richiedono sia verificato attraverso i suoi conseguimenti parziali e necessari: “Poiché nel mondo borghese la situazione va sempre peggio, anche qui il sogno non scompare. Ma conserva una certa fre-schezza solo se si annuncia in un gruppo e per il suo futuro. Quando invece il domani che si dipinge è un quadro globale, sul piano tardo-borghese diviene per lo più menzogna, nel caso migliore un gioco o una romanticheria. Questi ultimi due generi debbono comunque essere affrontati, poiché hanno quanto meno mantenuto a galla l'inclinazione all'utopia”¹¹. Nell’attuale società globalizzata, che apologizza la perdita dell’aura che la propria infingarda smemoratezza ha confinato tra i cimeli dell’archeologia dello spirito, nell’attuale atmosfera adattata alle respirazioni artificiali e ai rantoli del fantasma del capitale finanziario e i cui asettici cataboliti si depositano, in pegno alla vita, sui contraltari del feticismo e della reificazione, è saggio riporre grandi speranze nell’arte della scrittura, in primis nella forma del romanzo, giacché essa, per sua interiore essenza, unisce e distingue forma e contenuto. Scriveva Michail Bachtin, a conclusione del suo saggio Il problema della creazione letteraria: “Dopo tutto quello che abbiamo già detto, deve essere chiaro che l'oggetto estetico non è una cosa, poiché la sua forma (più esattamente, la forma del contenuto, dato che l'oggetto estetico è un contenuto organizzato formalmente), nella quale io sento me stesso come soggetto attivo e nella quale io entro come suo necessario momento costitutivo, non può essere, naturalmente, forma di una cosa, di un oggetto”. Soltanto una soggettività creatrice coltivata con amore e coscienza, radicata nel proprio senso storico, saprà rispecchiarsi in una letteratura che sia all’altezza delle emergenze e delle contraddizioni del presente, saprà essere guida, lungo la persistente via della bellezza, verso l’umanità finalmente libera da passioni nocive e velenose, verso un mondo infine abitabile, fino al “qua e ora” dove il volto umano si riconosce, riflesso nella pupilla dell’altro, distinto ed identico a sé.
Giancarlo Micheli

[1] Eric Hobsbawm, Il secolo breve (Rizzoli, Milano 1995).
[2] Il matematico Kurt Gödel (1906-1978) dimostrò, nel celebre teorema che da lui prese nome, che ogni sistema formale, strutturato cioè in una serie di assiomi e in un sistema di regole d’inferenza, non può essere allo stesso tempo coerente e completo: se il sistema è coerente, vale a dire non produce proposizioni contraddittorie, ci saranno proposizioni vere che il sistema non può dedurre; se, al contrario, il sistema è completo, vale a dire può produrre, con l’applicazione delle sue regole d’inferenza ai suoi assiomi, tutte le proposizioni vere, esso conterrà, necessariamente, proposizioni tra di loro contraddittorie.
[3] Karl Polanyi, The Great transformation (Holt Rinehart & Winston Inc., New York 1944); ed. it. La grande trasformazione (Einaudi, Torino 1974).
[4] Michail Bachtin, Estetica e romanzo (Einaudi, Torino 1979).
[5] Michail Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane (Einaudi, Torino 1988).
[6] Jurij Lotman, Tesi per una semiotica delle culture (Meltemi, Roma 2006).
[7] Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale (Editori Riuniti, Roma 1987).
[8] Antonio Bresciani (1798-1862), gesuita e critico letterario, si fece autore e promotore della retorica cattolica e antipatriottica.
[9] Lucien Goldmann, Pour une sociologie du roman (Gallimard, Paris 1973).
[10] Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico (Garzanti, Milano 1972).
[11] Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung (Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1959); ed. It. Il principio speranza (Garzanti, Milano 1994).