articolo di Giancarlo Micheli, pubblicato su Zeta - rivista internazionale di poesia e ricerche (anno XXXIV, n.3, dicembre 2012)
1.
La legge morale nella pelle del serpente
Qualcosa dissolve, a ritroso, nelle profondità
della storia, si disfa in fondo ad uno sguardo che, nel tentativo di fissarsi
ad un oggetto remoto, finisce per confonderne i contorni al nebbioso paesaggio
che, poco fa, quando lo sguardo si levava appena e desideroso di sensibile
corrispondenza, lo delimitava ancora entro una sua forma nitida e tersa.
Sulle antiche pitture vascolari della dinastia
Shang (1766-1122 a.C.) uno dei soggetti rappresentati con maggior frequenza è
il demone T’ao T’ieh, una figura assai complessa, costruita unendo parti
anatomiche di tori, tigri, arieti e serpenti. Della parola T’ao T’ieh si era
andata perdendo la conoscenza del significato preciso a partire dal periodo
feudale degli Stati Combattenti (403-221 a.C.) ed il concetto da essa designato
già svaniva inesorabilmente nella cognizione dei cinesi delle dinastie Qin
(221-206 a.C.) e Han (206 a.C.-220 d.C.), sotto le quali si compì
l’unificazione dell’impero, che raggiunse allora un’estensione territoriale
paragonabile a quella della attuale Repubblica popolare. Alla luce delle categorie
dell’antropologia culturale il T’ao T’ieh viene oggi concepito quale simbolo
della divinità della Terra, mutevole e caotica espressione delle forze
originarie in essa contenute. Una tale definizione del simbolo del T’ao T’ieh,
del resto, non può che riuscire per noi insoddisfacente, giacché esclude tutta
una modalità essenziale di percezioni che ne rendevano vivo il senso
all’umanità che lo frequentò da vicino. Lo scorgiamo pertanto attraverso una
cortina di nebbie, alla quale è confuso non meno che allo sfondo da cui affiora
in minimo rilievo, non meno che al paesaggio cui è unito da un vincolo tanto
inestricabile quanto lieve, dove si agita appena, assomiglia alla radice di uno
strano albero che, d’altronde, non ravvisiamo meglio di esso, anche perché ecco
che, ora, già ci pare che il T’ao T’ieh si scuota, che voglia sgusciar fuori da
quella sua primitiva pelle, ci sembra che frema e strisci: è una serpe avvolta
alle rocce di un declivio montuoso, una lasca
che sguscia nell’acqua limacciosa di un fiume.
Un tale tremore naturale, cui
corrisponde uno speculare sentimento religioso, ad un tempo impetuoso ed
evanescente, un tale riflesso incondizionato, che ha ogni ragione per lasciarsi
avvertire come se emanasse dalla sorgente originaria dell’essere, percorre
tutta la storia dell’etica e dell’estetica cinesi. Di esso l’insegnamento di
Kong Zi, impartito nel VI sec. a.C. ai discepoli affinché lo raccogliessero
nelle pagine che avrebbero costituito κατ’εξοχήν il testo classico della
letteratura cinese, il Lun Yu, compì l’innesto sul corpo della legge secolare,
ne sancì l’incarnazione nei precetti di una morale concreta e nelle regole
dell’amministrazione del potere, ponendo limiti rigorosi all’uso della violenza
dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Tale incorporamento si realizzava
sui lembi di una duplice sutura, una duplice serie di precetti: quelli alla cui
osservanza era tenuto il letterato, saggio sapiente nonché funzionario della
già evoluta burocrazia statale, e quelli cui era tenuto il Signore, modello di
virtù ideale nella cui persona vivente trovano complemento il brivido
originario di cui si è detto (il qì, o ki in giapponese) e l’azione umana
deliberata. Grande enfasi la dottrina confuciana riservò all’oculata osservanza
delle cerimonie e dei rituali religiosi, intesi a preservare l’unità spirituale
con le generazioni passate e ad onorare il culto degli antenati. Il saggio
confuciano affonda risolutamente il proprio sguardo nel passato e, dinanzi a
tutto ciò che lo distragga da tale contemplazione, rimane, in sostanza, fermo e
irremovibile.
Dell’architettura culturale confuciana,
attraverso la quale l’uomo aveva introdotto la propria presenza nel paesaggio
della natura, il daoismo, un paio di secoli più tardi, avrebbe esaltato alcuni
aspetti prospettici: con il progredire dell’oblìo del simbolo originario, i
maestri daoisti avrebbero messo a fuoco la nebbia che si infittiva davanti ad
esso e, riflettendovi il proprio sguardo, avrebbero cominciato a intravedere
ciò che stava loro alle spalle, il futuro. Non il futuro cronologico, quale
convergenza ad un puntuale e replicato presente del fascio di infinite
potenzialità che lo attraversano, ma proprio il contrario, il futuro come
apertura del tempo dell’attesa, dispiegato ventaglio delle evenienze, luogo
dell’illuminazione improvvisa. Scrisse Meng Zi (372-289 a.C.): “Si lede il Dao
se ci si attiene all’uno, se si accoglie un principio e se ne trascurano
cento.”
2. Cenni
storici sulla diffusione del buddismo nell’Asia orientale
All’imperatore Mingdi, che regnò tra il 57 e
il 75 d.C. sulla dinastia degli Han orientali o posteriori, nel corso di uno
dei relativamente brevi periodi in cui l’Impero non fu unificato sotto un unico
sovrano, la storiografia fa risalire la prima penetrazione del buddismo nella
cultura cinese. Alla fine del II secolo esistevano già molte scuole e templi
buddisti, soprattutto nella vasta e fertile regione tra lo Huang He e lo
Yangzi, nonché attorno alla capitale di allora, Luoyang. La prima forma
conosciuta in Cina fu quella dell’amidismo, associata alla teologia della Terra
Pura e ad un sentimento di religiosità popolare che favorì l’identificazione
delle varie concezioni buddiste con le figure della religione tradizionale
cinese, ad esempio del bodhisattva Avalokitesvara con la dea cinese della
misericordia, Guanyin. Anche la forma che è comunemente associata a
caratteristiche spiccatamente autoctone, il buddismo Chan (Zen per i
giapponesi) proveniva dall’India, tramite l’insegnamento del monaco cingalese
Bodhidarma, ospite alla corte dell’imperatore Wu agli inizi del VI secolo. In
effetti esistono considerevoli affinità tra il daoismo, che era seguito con
molta cura dalle dinastie regnanti del tempo, e questa forma buddista, la
quale, al contrario dell’amidismo, pone enfasi sulla conoscenza del sé a
scapito degli aspetti devozionali. Sotto tale forma il buddismo raggiunse il
Giappone, quando la casata imperiale Yamato affermò il proprio potere, durante
l’VIII secolo, e si aprì ad influssi emulativi nei confronti delle consuetudini
culturali e delle tecniche di esercizio del potere tipiche della dinastia Tang
che, a partire dal 618, aveva gloriosamente ricostituito l’unità dell’Impero
cinese. Da allora, in Giappone, il buddismo Zen rimase una dottrina di
esclusivo appannaggio delle caste nobiliari. Soltanto in seguito, altre sette
buddiste diffusero precetti che fecero presa su strati più vasti della
popolazione. La teologia Jodoshu, che proveniva appunto dall’assimilazione
dell’amidismo cinese, fece proseliti tra i contadini e i ceti più umili
soltanto a partire dal XII secolo.
La forma buddista
che ebbe invece non solo caratteristiche più spiccatamente nazionali ma che fu
praticata trasversalmente in tutte le caste, prese origine dagli insegnamenti
del monaco Nichiren, il quale visse tra il 1222 e il 1282. Il diffondersi della
sua dottrina presso il popolo fu dapprima vigorosamente osteggiato dagli shogun
del clan Hojo, benché in seguito la storia nazionale abbia attribuito al
Daishonin Nichiren meriti addirittura patriottici, tra i quali quello di aver
scongiurato, scatenando contro le loro flotte prodigiose tempeste, ben due
tentativi d’invasione da parte dei Mongoli.
3. Sviluppo
economico durante la dinastia Song e germi del capitalismo.
Fino, dunque, nelle modalità di assimilazione del buddismo,
che pure fu elemento comune ad entrambe almeno dal VIII secolo in poi, le
culture della Cina e del Giappone manifestano discordanze e specificità
essenziali. All’inizio del X secolo nell’arcipelago era praticata un’economia
di pura sussistenza, la sovranità era ripartita presso numerosi feudatari e la
pur sfarzosa corte imperiale di Kyoto sviluppava un suo canone estetico e
intellettuale totalmente avulso alle questioni concrete dell’organizzazione
dello Stato nascente. Testimonianza di ciò è offerta nella compilazione della
prima antologia di poesie giapponesi, il Kokin Waka Shu (Raccolta di poesie
giapponesi antiche e moderne), che nel 905 d.C. l’imperatore Daigo commissionò
al sovrintendente dell’Archivio di corte, il nobile Ki no Tsurayuki. In oltre
mille liriche, caratterizzate dalla espressività epigrammatica e da uno stile
colto e raffinato, incline all’intimismo sentimentale non meno che al distacco
contemplativo di ascendenza Zen, tale silloge segna una compiuta evoluzione rispetto
ai canoni della poesia continentale che, circa un secolo prima, impregnavano
ancora il tono della precedente Man’yoshu (Raccolta di diecimila foglie): ne
emerge una visione del mondo chiusa e, in definitiva, autoreferenziale.
Negli stessi anni,
in Cina, la dinastia Song andava invece adottando una sagace politica di
equilibrio verso le potenze che ne minacciavano i confini, in particolare nei
confronti dello Stato di Liao, abitato da popolazione di etnìa qidan, del ceppo
tunguso-siberiano, il quale si estendeva nelle cosiddette sedici prefetture del
nord-est, che avevano fatto parte integrante dell’impero sotto i Tang (618-907
d.C.). Tale situazione, relativamente stabile e pacifica, favorì un consistente
progresso economico e, assieme ai rilevanti sviluppi nelle tecniche di
coltivazione, alla nascita di un forte commercio interno e al perfezionamento
della burocrazia statale, rifondata sulla base del sistema degli esami e in
osservanza dei principî confuciani, produsse un rapido incremento demografico e
un’accresciuta prosperità. È stato calcolato che il volume del commercio nella
capitale di Kaifeng, collegata tramite il Grande Canale ai bacini dello Huang
He e dello Yangzi, ammontasse almeno al doppio di quello di Londra all’inizio
del Settecento. A dispetto della congiuntura favorevole non si sviluppò un
nucleo consistente della proprietà privata, tale da avviare una fase di
capitalismo vero e proprio. Tra le cause a cui gli storici attribuisco ciò,
occupa un posto ragguardevole proprio la crescita della burocrazia statale,
misurabile vuoi nei termini della proliferazione delle cariche vuoi in quelli
di una maggiore complessità dei compiti e delle strutture organizzative. Tra i
ruoli che la burocrazia non disattese ci fu, senza dubbio, quello economico.
Oltre a rendere efficiente il sistema di riscossione delle imposte,
l’amministrazione partecipò attivamente al commercio, acquistando eccedenze di
prodotti, principalmente agricoli, per rivenderle in altre province così da
calmierare il regime dei prezzi. Il celebre riformatore confuciano Wang Anshi
(1021-1086 d.C.) promosse l’istituzione dell’Ente del tè e dei cavalli, che
provvedeva ad esportare il tè del Sichuan in Tibet e ad acquistare là cavalli
da guerra per le truppe imperiali. Un primitivo esempio di capitalismo di
Stato, o quantomeno di mercantilismo di Stato.
L’ultimo imperatore della dinastia Song, pittore e
calligrafo, fu una personalità artistica di assoluto rilievo. Salito al trono
nel 1101, Huizong non fu certo un pioniere nella pratica e nello studio delle
discipline artistiche, giacché molti dei sovrani che lo avevano preceduto non
le avevano affatto disdegnate. Cionondimeno a lui non soltanto va ascritta una
delle prime attribuzioni certe di un’opera d’arte cinese al suo autore, poiché
a partire da dipinti quali il Piccione su
un ramo di pesco conservato al Museum of Fine Arts di Boston egli appose ad
essi la propria firma, ma gli va riconosciuto pure il merito di aver fatto
compilare un catalogo completo e ragionato della propria collezione personale,
il quale avrebbe costituito, nei secoli a venire, un’autentica enciclopedia
della pittura dell’Asia orientale. Nella classificazione molto accurata che lo
contraddistingue, le categorie sotto le quali figurano il maggior numero di
opere sono: fiori e uccelli, temi daoisti o buddisti, paesaggi. Sulla stregua
della contemplazione della natura e ricorrendo alle affini sensibilità delle
filosofie daoista e Chan, i paesaggisti cinesi fecero aleggiare la nube dei
loro sguardi su una nuova visione, dove le opere del lavoro umano affiorano
dallo sfondo nel medesimo momento in cui dissolvono in un’umida caligine, quasi
la fatica e il sudore che esse sono costate evaporassero sotto ai raggi di un
sole futuro. Dentro ad una grotta, di proporzioni invero umili rispetto alla
montagna (Shan) che la sovrasta, si riescono a scorgere a stento delle figure
umane mentre si sporgono sull’acqua (Shui) di una sorgente scaturita dai
recessi dell’ipogeo. Forse le persone che si intuiscono appena, avviluppate in
fresche ombre, sono intente a risciacquare panni nel limpido flutto, forse
affilano lame sulle pietre che il torrente ha a lungo levigato, questo non si
riesce a distinguerlo con chiarezza. Shan e Shui, montagna e acqua,
costituiscono in effetti il senso primo dell’opera, da cui discende e prende
vita ogni particolare che vi sia rappresentato. E infatti la parola cinese che
noi traduciamo con “pittura di paesaggio” è Shanshui.
La morte
dell’imperatore Huizong, avvenuta nel 1135 in Siberia, dove egli era stato condotto in
prigionìa dagli invasori Jurchen tungusi, segnò la fine della
dinastia e l’inizio di un periodo in cui lo slancio precapitalista che aveva
caratterizzato l’epoca Song fu depresso da una lunga dominazione straniera.
Solo nel 1368, rovesciando la dinastia Yuan insediata dai conquistatori
mongoli, i Ming tornarono ad unificare il territorio dell’impero sotto una
dinastia autoctona. Proprio in quel tempo, in alcuni luoghi della lontana
Europa andavano prendendo corpo fenomeni di evoluzione della società in senso
proto-capitalistico. Nelle Fiandre, che appartenevano ancora al vetusto e
anacronistico regno di Borgogna ma già costituivano uno dei centri nevralgici
del commercio continentale, Jan van Eyck non soltanto introdusse, come Huizong
in Cina, la consuetudine di siglare le opere pittoriche, inibita fino ad allora
dalla committenza pressoché esclusivamente religiosa, ma fece comparire il
paesaggio quale elemento di rilievo nella composizione delle proprie tavole.
Dopo aver abbattuto una delle pareti delle architetture ecclesiastiche desunte
non senza fatica dai modelli classici della basilica romana al fine di
costruirne gli scorci prospettici dove inserire i soggetti delle sue scene,
egli riuscì a far emergere il paesaggio dietro ad archi a tutto sesto soffolti
da capitelli corinzi ma pur sempre soffocato in una minuzie di particolari,
quali ad esempio se ne ravvisano in abbondanza nella Madonna del cancelliere Rolin del Louvre, pur sempre sovrastato
dalla imponente munificenza dei notabili che, in veste di nuovi committenti,
non si facevano scrupolo di figurare a tutto tondo ed in enfatiche proporzioni
al fianco delle immagini sacre.
Fu proprio nei primi
anni dell’epoca Muromachi (1333-1568 d.C.) che in Giappone si verificò una
reviviscenza dello stile pittorico cinese. Gli shogun Ashikaga, risolta la
crisi politica e militare che aveva spaccato in due il paese, messa in dubbio
la legittimità della linea dinastica imperiale e coinvolto tutti i clan feudali
in una lotta senza quartiere, posero la sede del loro governo a Kyoto, nel
quartiere di Muromachi, eponimo dell’epoca che ebbe allora inizio.
Sin dall’VIII sec.
la pittura Shanshui aveva affinato il proprio canone nella polarità dialettica
tra due opposte scuole: Beihua, o pittura settentrionale, e Nanhua, o pittura
meridionale. La scuola Beihua aveva eletto a proprio
capostipite il monaco Chan Shenxiou, il quale nel VII sec. aveva fondato la
setta “gradualista”, che ricercava l’illuminazione attraverso il rispetto della
regola monastica e l’attento studio dei Sutra. Nella composizione essa aveva
privilegiato i soggetti cari alla corte imperiale e sviluppato una tecnica
impeccabile e sofisticata. La scuola Nanhua, o scuola dei letterati
(Wenrenhua), faceva invece capo a Huineng, contemporaneo di Shenxiou e
fondatore della setta del “wu nien”, del “senza pensiero”, che dalla
meditazione dinanzi agli oggetti della natura si proponeva di far sorgere
l’illuminazione improvvisa. Di tale seconda corrente si sentirono i prosecutori
gli artisti di maggior talento dell’epoca Muromachi. Nell’opera del monaco Zen
(traslitterazione della parola cinese Chan, la quale lo è, a sua volta, di
quella sanscrita dhyana, meditazione) Sesshu, di meno di trent’anni posteriore
a quella di Jan van Eyck, la nebbia della reminiscenza, quel brivido creativo e
spirituale nella cui ottica si dissolve l’oggetto della contemplazione, ha
quasi del tutto cancellato ogni elemento accessorio. L’artista coglie l’essenza
del paesaggio con un’espressione tanto libera e astratta quale in occidente si
dovrà attendere per almeno un secolo, riconoscendola forse, prefigurata o
latente, su alcune tele di Albrecht Dürer.
5. Origini
di una ferita
Tra i primi
occidentali ad approdare nelle terre del Giappone si contano, fervidi e zelanti
nel perseguire i loro scopi evangelici, i missionari della Compagnia di Gesù.
Fondata nel 1534 a Parigi, dove alcuni giovani di insigni casati aristocratici
spagnoli e portoghesi avevano condotto studi in teologia presso la prestigiosa
università della Sorbonne, la Compagnia impugnò le armi di una fede
appassionata e persuasissima al fine di evangelizzare i popoli dell’Oriente.
Francesco Saverio, nobile basco di Xavier, appartenente allora al Regno di
Navarra, ricevette il sostegno del Re del Portogallo João III per istruire
dalla colonia di Goa, sulla costa occidentale dell’India, una serie di viaggi
che lo condussero dapprima nella penisola di Malacca e in Indonesia, poi fino a
Kagoshima, nell’isola di Kyushu, la più a sud tra quelle che compongono
l’arcipelago del Giappone, dove giunse nell’agosto del 1549. La letteratura
agiografica sottolinea lo stato di ispirazione mistica pervaso dalla quale il
Padre Santo compì la propria opera di proselitismo, perseguita con dedizione
tale da non risparmiarlo alla morte, che lo colse sotto un’umile tenda, al solo
cospetto dei suoi servitori personali, tali Antonio e Christovao, mentre
attendeva presso la città cinese di Shangchuan, nella provincia meridionale del
Guangdong, di essere raggiunto da una delegazione consolare portoghese, che in
realtà non partì mai da Goa, e di essere condotto da alcuni mercanti nativi, i
quali non fecero a tempo a dar seguito alle loro promesse, fino alla capitale,
dove regnava l’imperatore Jiajing della dinastia Ming. Mentre da Kagoshima
faceva ritorno a Goa, la nave di Francesco Saverio era stata sospinta là da una
tempesta, della cui natura provvidenziale egli restò convinto fino al suo
ultimo giorno. Prima della fine dolorosa e conseguente alla imitatio Christi quale era stata
concepita secondo le regole dell’ordine di Ignacio de Loyola, egli era però
ampiamente riuscito nei propri intenti sull’isola di Kyushu. Si narra che,
soltanto nei primi mesi della sua predicazione, egli riuscisse a guadagnare
alla fede cattolica centinaia di anime. E forse fu ancora su ispirazione divina
se egli seppe ben destreggiarsi nei travagliosi frangenti in cui andava
rompendosi l’equilibrio feudale del medioevo giapponese e fu capace di
comprendere i reali rapporti di potere che legavano la figura dell’Imperatore,
già allora relegata ad assolvere un ruolo esclusivamente simbolico, gli shogun
del clan Ashikaga e i vari daimyo locali. In Giappone il sistema delle missioni
gesuite continuò a funzionare assai bene anche dopo aver perduto la propria
guida spirituale, cosicché esse costituirono una efficace testa di ponte per i
traffici mercantili portoghesi e spagnoli nell’arcipelago e nel resto dell’Asia
sud-orientale. Il messaggio cristiano si diffuse con grande rapidità soprattutto
tra le caste dei contadini, ridotti in stato di totale indigenza dalle guerre
del periodo Sengoku per l’unificazione politica e militare dell’Impero. Dopo
che gli shogun del clan Tokugawa furono riusciti nel loro intento ed ebbero
prevalso sui rivali al prezzo di sanguinose stragi, durante l’opera di
edificazione di uno Stato centralizzato essi dovettero fronteggiare la
resistenza di un’ormai folta popolazione di convertiti alla fede cristiana. Non
furono pochi i martirî, che soprattutto i frati francescani affrontarono
levando al cielo gioiose lodi al Signore – celebre quello del 1597, quando 26
seguaci del Santo di Assisi furono crocifissi sulla collina di Nishizaka, sovrastante
la città di Nagasaki –, le efferatezze furono crudeli e insensate, come nella
repressione della rivolta contadina di Shimabara del 1637. Poco alla volta gli
shogun promulgarono una serie di restrizioni al commercio estero e finirono con
l’espellere tutti i residenti stranieri dal territorio del Paese. Dal 1640 in
poi fu consentito soltanto ad un gruppo di olandesi della Vereenidge
Oostindische Compagnie, la Compagnia Olandese delle Indie Orientali, di
risiedere su un’isola artificiale nella baia di Nagasaki, l’isola di Dejima.
Gli olandesi godettero di tale trattamento di favore poiché erano gli acerrimi
rivali degli spagnoli nei traffici commerciali in Oriente, loro nemici giurati
a motivo della confessione nazionale calvinista e in seguito alle cruente
guerre di indipendenza che le Province Unite avevano sostenuto contro i sovrani
Asburgo di Spagna. Nell’arcipelago giapponese la repressione del cristianesimo
proseguì ancora a lungo, e gli shogun si avvalsero dell’alleanza del clero
buddista. Nel 1664 fu emanato un decreto in cui si prescriveva a tutti i
sudditi dell’Impero l’obbligo di registrarsi presso un tempio buddista.
6. Pittura
di paesaggio e impatto dell’espansione mercantilista
Le traumatiche
vicissitudini dell’epoca Muromachi e della prima parte di quella Tokugawa
(1603-1867) lasciarono nell’arte del Giappone una traccia ben più tenue di
quella che i preti della dominazione dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla
natura non hanno mancato in ogni epoca di caldeggiare con la loro ipocrita
tiepidità.
L’abitazione
tradizionale giapponese è costituita in moduli abitativi i cui volumi possono
essere variati, a sentimento, riposizionando pannelli scorrevoli, sopra i quali
era antica usanza dipingere scene di paesaggio. Sopra uno di tali pannelli,
appartenente alla serie nota come Namban-byobu (“Paraventi dei barbari del sud”),
un artista ignoto del XVII secolo raffigurò una delegazione di Gesuiti
portoghesi mentre viene ricevuta al momento dello sbarco sulle rive dell’isola
di Kyushu. I padri missionari vi appaiono, non senza cura di dettagli, smarriti
in un dedalo di bracci di mare e banchi di sabbia, frastornati e sospesi in un
paesaggio di tanto imaginosa astrazione da galleggiarvi come sui lembi di una
nube aurea, al di là dei quali, con sconcerto, essi non vedono occhieggiare i
simboli del loro dio audace e vendicativo.
Sotto il governo dei
Tokugawa, con l’avvento delle pesanti restrizioni al commercio estero, la
pittura di paesaggio allentò i legami con i modelli storici cinesi.
Sull’esempio della Accademia di Hanlin, le cui origini risalivano alla dinastia
Tang e che al principio del XII secolo proprio Huizong aveva rifondato e
condotto ai fasti che le avevano meritato il nome esaltante e significativo di
“foresta dei pennelli”, su tale esempio illustre, nel Giappone della metà del
XV sec, nel cuore del periodo Ashikaga, era nata una scuola pittorica di corte,
la scuola Kano. Essa aveva enfatizzato l’attenzione per
l’elemento decorativo e,
trascurando la ricerca interiore
dei seguaci della pittura Zen e della
Wenrenhua, si era volta ad una figurazione
naturalistica magniloquente, quale esigeva il gusto orgoglioso dei nuovi
potenti.
Fu l’ascesa di una
classe sociale borghese, quella dei chonin, che dettero nerbo al commercio e si
giovarono del declino economico dell’aristocrazia feudale, vessata dai gravami
imposti dal governo di Edo, fu tale ascesa a creare il terreno fertile per il
sorgere di una nuova sensibilità artistica. Il processo di riproduzione a
stampa era stato praticato in Cina già dal IX secolo. Allora, migliaia di
immagini del Buddha Amida venivano impresse su torchi lignei e distribuite ad
un pubblico vasto, anche tra i ceti più umili, giacché il semplice possesso di
tali oggetti devozionali valeva quale ottimo viatico per conquistare, oltre la
morte, il Paradiso della Terra Pura. Nel Giappone del XVII secolo, invece, la
stampa xilografica ebbe una diffusione di tutt’altro genere. L’arte ukiyo-e, la
“pittura del mondo fluttuante”, si strutturò secondo un sistema organizzativo
del tutto nuovo, precorrendo addirittura le tecniche e la divisione del lavoro
caratteristiche dell’editoria moderna. Un ricco imprenditore, esperto del gusto
dei destinatari delle opere a stampa, commissionava agli artisti i disegni, i
cui soggetti erano scelti nelle case di piacere dove la nascente borghesia
amava consumare i frutti di prosperosi guadagni o tra le bellezze
paesaggistiche dei luoghi dove i membri dell’aristocrazia feudale facevano
tappa nel recarsi presso la capitale a rendere obbligatorio omaggio allo
shogun. Un intagliatore ricavava poi dal disegno la matrice lignea per la
stampa. Uno stampatore, infine, realizzava un numero di copie adeguato a
soddisfare le richieste degli acquirenti. Benché tale sistema risulti
palesemente segnato dalle insorgenti logiche del profitto, nell’opera dei
maestri che sospinsero il genere della stampa artistica fino ad un livello di
assoluta eccellenza vediamo riemergere quel brivido che si propaga sin dalle
origini, da quando l’arte aveva preso a indagare il
mistero della presenza
umana nella natura del mondo. Tale
brivido estetico, che si lascia
percepire nella sensibilità artistica di tutte le epoche, ha per sua natura una
sostanza etica e cognitiva. E non è forse possibile riconoscere persino una
sfumata lezione confuciana in uno degli episodi della serie di incisioni nota
come Le cinquantatre stazioni posta del
Tokaido, dove Ichiryusai Hiroshige raffigurò alcuni portatori seminudi che,
sotto una pioggia dirotta, trasportano un palanchino lungo uno scivoloso
declivio? Non sorge forse spontanea la speranza che, in vetta a quel colle
impervio, il signore che gli affaticati portatori conducono andrà a compiere un
qualche atto virtuoso che ripaghi la
loro ostinata solerzia ben al di là di quanto possa una pattuita equivalenza di
valori di scambio? In ciò che si intuisce al di là della grigia cortina dei
rovesci di pioggia non riecheggia forse un’esortazione luminosa dove l’essere è
congiunto all’espressione e il pensiero all’azione? Non può forse udire
ciascuno, pronunciata da se stesso e a se stesso con voce finalmente umana, la
massima di Kong Zi: “Il signore porta alla luce il bello degli uomini, non il
male. Non è compito del giusto diffondere o preservare la civiltà con la
violenza e l’ignoranza”?
La pittura ukiyo-e che, dal tempo del suo quasi mitico fondatore Iwasa Matabei, ebbe tanti maestri capaci di far risuonare in essa una musica di forme e colori essenzialmente umani, quali Kitagawa Utamaro (1753-1806) o Katsushika Hokusai (1760-1849), fu disprezzata con tenacia dai potenti del Giappone quale arte profana e irriverente. All’inizio dell’epoca Meiji (1868-1912), dopo la riapertura dei traffici commerciali imposta dalle potenze imperialiste, essa giunse in Europa sulle carte da imballaggio che avvolgevano principalmente prodotti di lusso. In virtù di un caso che non dovrebbe apparirci sorprendente né arbitrario, giacché manifesta un’astuzia della ragione che senza remore o ottundimenti dovremmo aver infine appreso ad amare, artisti di genio quali Edouard Manet, Edgar Degas, Henri Toulouse-Lautrec e Vincent Van Gogh vennero così a conoscere la pittura ukiyo-e e ne trassero ispirazione per alimentare la rivolta contro l’arte accademica ottocentesca, per dare vita ad una nuova stagione universale di sapienza e di bellezza.
Giancarlo
Micheli