venerdì 13 dicembre 2013

Giancarlo Micheli, La quarta glaciazione, Campanotto 2012

recensione di Giuseppe Panella
a La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012) di Giancarlo Micheli
pubblicata in l’immaginazione (n.277, settembre-ottobre 2013)

All'interno della società attuale, il suo svi­luppo apparentemente invincibile e la sua pervasività sono quelli di sempre. Ovunque, in es­sa, infatti, domina un inverno pesante e ottuso, fatto di corruzione e di miseria, di dolore e di morte, un panorama che non sembrerebbe la­sciare spazio al futuro. L'orizzonte della poesia di Micheli è un presente dilatato all'indietro fino ad inglobare il passato tutto dell'umanità. Si tratta di un panorama freddo, sconvolto, deso­lato quello che lo contraddistingue e dove domina la logica del profitto e dell'alienazione umana e da cui ci si può salvare soltanto attra­verso la lotta, lo scontro frontale con esso, la volontà di non cedere e non assuefarsi ad es­so. La forza che lo rende apparentemente in­vincibile è la morte di ogni speranza nella pos­sibilità di rovesciarlo e cambiarne drasticamen­te le coordinate strutturali. L'arma migliore per contrapporsi all'"inverno dello scontento" che incombe e rende impraticabile l'orizzonte futu­ro dell'esistenza degli uomini, è, allora, il senti­mento d'amore - l'unico sicuramente e global­mente in grado di "cambiare la vita".
 
Come per i Surrealisti che restano pur sem­pre la bussola cui Micheli ama orientare il timo­ne della propria poesia (e gli esergo che apro­no le diverse sezioni che compongono il libro stanno lì a dimostrarlo), "trasformare il mondo" (marxianamente) non avrebbe senso se non fosse la stessa idea di esistenza umana a mu­tare radicalmente e profondamente (come è noto, è proprio questo lo scacco maggiore del­le grandi procedure rivoluzionarie del Nove­cento ormai trascorso). La poesia militante che attraversa con toni tra l'accorato e il sarcastico il libro si coniuga, quasi sempre, con l'evoca­zione della passione d'amore. Il sentimento della rabbia e dell'indignazione per il "dolore del mondo" si trova pur sempre collegato all'evocazione delle persone amate come paren­tesi di felicità e di piacere nell'ambito di un'esi­stenza che sembra, ogni volta, scattare come una trappola per impedire il dispiegarsi della passione e del sogno.
 
I due poli della produzione in versi di Miche­li, dunque, la critica della società del presente e la violenza che esercita sui soggetti che la costituiscono e la via d'uscita da essa rappre­sentata dalla "rivoluzione a due" che avviene nel momento dell'innamoramento e poi della passione amorosa si congiungono sovente nel corso di lunghe esternazioni di tipo paratattico che sembrano scardinare il ritmo consueto del­la scrittura nella tradizione della poesia italiana.
 
L'inanellarsi fitto e deciso delle situazioni descritte e delle passioni provate ha la (proba­bile) funzione di accentuare in senso dimostra­tivo e sovente narrativo quello che potrebbe sembrare il puro e semplice congiungersi delle parole nei momenti più a lungo usati (e spesso inutilmente abusati) della poesia lirica immessi nel loro significato come tradizionalmente vie­ne indicato ed espresso. Per Micheli, allora, più che costruire una nuova "tradizione" della poe­sia a venire si tratta di verificare le basi e di ricostruire dalle fondamenta quella che c'è già. In effetti, nel suo stile di scrittura, non c'è spe­rimentalismo o plurilinguismo ostentati come armi distruttive del retaggio del passato quanto il rifugio in una lingua spesso ripulita da facili neologismi o mimetismi ostentati in senso cor­rivo e, quindi, facilmente consumati. In senso opposto rispetto alla riconduzione del linguag­gio lirico all'andamento prosastico che sembra contraddistinguere molte esperienze della con­temporaneità poetica, Micheli punta alla ricerca di un linguaggio non certo ermetico né "puro" (alla Mallarmé) ma sicuramente terso e libera­to dalle incrostazioni più esacerbate, incitate e infette del consumo linguistico corrente. La sua lingua della poesia è quella di chi vorrebbe ri­mandarla ed esporla come un'etica della vita e ricongiungere, in un solo circolo esistenziale, critica dell'esistente infausto e retrivo e apertu­ra verso l'utopia della libertà amorosa.
 
Nelle cinque sezioni che costituiscono il tes­suto lirico-descrittivo della poesia di Micheli, i diversi momenti che costituiscono il suo pro­getto di lettura del mondo che lo circonda si in­trecciano e si articolano tessendo una tela di ri­mandi morali e di accensioni intime fino a ren­dere il loro ritmo incalzante e continuo come le onde del mare, tante volte evocate nei suoi componimenti, che si infrangono infaticabili su­gli scogli che circondano i porti o la battigia in cui va a morire la spiaggia dalla sabbia innu­merevole sempre rinnovata dal Tempo e sem­pre apparentemente uguale di fronte alle sue sollecitazioni pulsanti.
 
Continue e poderose come la spinta can­dente delle onde marine, le lunghe emanazioni liriche della produzione di Micheli ritrovano una loro possibile sintesi finale nell'"armonia delle labbra e del silenzio" il cui tratto evocativo chiu­de il libro. Le parole della rabbia rimandano al silenzio del sentimento amoroso e si congiun­gono in un cerchio incantato in cui domina l'utopia del mondo senza il Male.
Giuseppe Panella


TrLibri

intervista a Giancarlo Micheli a cura di Demetrio Brandi
per la trasmissione TrLibri di Teleriviera del 15 agosto 2013




La quarta glaciazione (Campanotto, 2012), Giancarlo Micheli

recensione di Alessandro Assiri
a La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012) di Giancarlo Micheli
pubblicata in La stanza delle poche righe (ottobre 2013)

Della raccolta La quarta glaciazione è evidente fin dalla prima lettura l’ampio arco temporale e di esperienza  lungo il quale i testi sono stati scelti, cosicché ne riesce una densa sintesi della cultura dell’autore, fondata in un forte imprinting filosofico che si sostanzia in vigorosa critica dell’eresia ed in una circostanziata disanima di tematiche religiose. In merito a ciò che altri hanno affermato, individuando nella poesia di Micheli i caratteri peculiari allo sperimentalismo, mi sento in disaccordo, soprattutto a motivo delle scelte linguistiche disseminate lungo tutto il libro, contraddistinte da una profondità di struttura che esula, a mio modo di vedere, dai canoni e dagli stilemi della poesia sperimentale, quale potrebbe essere, per intenderci, quella di un Marco Giovenale o di un Alberto Mori. I versi de La quarta glaciazione sono scritti con ponderatezza e riflessività che li designano ad altre appartenenze. Richiamandoci ad un’immagine bretoniana, giacché è palese e talora esplicita la relazione di affinità elettiva con l’avanguardia storica surrealista, nell’abbondante e fecondo corpo di ritmiche e sonorità sedimentate nel volume si avverte uno sviluppo della poièsis in direzione dell’affinamento del mormorio inconscio, il quale è dapprima ascoltato e, man mano che si prosegue verso liriche più recenti, con accresciuta consapevolezza provocato. Quella di Micheli è una poesia fondamentalmente antropocentrica, svolta su di una linea di ricerca di cui io auspicherei la riscoperta; un indirizzo, quello che pone al centro l’uomo contro e a dispetto di ogni vincolo confessionale, che si ritrova anche nella produzione narrativa dell’Autore. Questo tipo di letteratura è quello che non ha ancora rinunciato alla lotta contro il degrado culturale e antropologico procurato dalla divisione del lavoro intellettuale all’interno della civiltà capitalistica, la quale ha condotto il popolo degli scriventi fino alla paradossale condizione di spettri, soggiacenti alla sparizione blanchotiana del soggetto per cui l’io si stempera interamente nel testo, rendendoli virtualmente e materialmente incapaci di dialogo con l’altro tramite le loro pagine, dalle quali il tu è evaporato e dissolto. A testimonianza di quanto in breve esposto, ci piace dunque riportare la lirica conclusiva della raccolta: “Nella chiarezza inconcepita di un’estate/ Estesa oltre il sogno del tempo/ Tu sei il ciclo del sole e le fasi della luna/ L’erba che cresce al suono del pensiero/ L’armonia delle labbra e del silenzio/ La mano che muta in vino le prime acque”.
Alessandro Assiri
 

giovedì 11 luglio 2013

Indie occidentali_RivistaStudiItaliani


recensione di Neil Novello (Università degli Studi di Bologna)
al romanzo “Indie occidentali” (Campanotto, 2008) di Giancarlo Micheli
pubblicata su “Rivista di Studi Italiani” (Anno XXXI, n° 1, Giugno 2013)


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SalonedelLibroTorino_intervista


intervista a Giancarlo Micheli
realizzata al XXVI Salone del Libro di Torino
a cura di Nicola Pagliaro per la Fratini editore

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Fratini editore

PuntoRadio_intervista


intervista a Giancarlo Micheli
per la trasmissione "Questasera" di PuntoRadio (Ottobre 2013)
a cura di Bernardo Cirillo e Gianluca Garrapa





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EtnicaRadio_intervista


intervista a Giancarlo Micheli
a cura di Pablo Francesconi e Isabella Belcari per l’emittente EtnicaRadio (Aprile 2013)





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Reteversilianews_intervista


intervista a Giancarlo Micheli
per la trasmissione televisiva Caffè Versilia di Reteversilianews
a cura di Massimo Mazzolini

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giovedì 18 aprile 2013

Elegia provinciale


recensione al romanzo Elegia provinciale (Baroni, Viareggio 2007) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Literary Nr.11/2008

 Giancarlo Micheli costruisce una trama singolare, sospesa tra storia, mito e misurata invenzione. La figura di Giacomo Puccini viene ricostruita attraverso un racconto che ne esalta l'universo più intimo con le sue contraddizioni e il suo genio; parla della sua famiglia e del legame affettivo con persone carnali che riecheggiano quelle che vivono nelle sue opere.
  Un riflesso nella personalità del Maestro che Micheli riesce a costruire con abilità, introducendo nella narrazione elementi storici frammisti a una costruzione immaginata della trama che evidenzia il gusto dell'autore verso una rivisitazione della memoria che nella pagina diventa la viva matrice dei personaggi; personaggi che non sono i soli protagonisti, posti come sono in uno scenario e in una ambientazione che fedelmente ricalca, anche nell'utilizzo del linguaggio (in diverse parti, un deciso versiliese) la vita del tempo.
  Particolare attenzione pone il Micheli nel tratteggiare figure che attorno al Maestro recitano un ruolo di primo piano e non comprimario, con una acuta ispezione psicologica che concede a loro un ampio respiro di partecipazione e commozione.
  “E pensava che l'amore è la potenza e il negativo del potere (....) cenere al prezzo del desiderio, questo è il potere; e pensava Don Giuseppe, il male.”: la scrittura dell'autore è densa, appassionata seppure nell'apparente distacco e ricorda i moduli narrativi del verismo italiano intinti in una eleganza formale propria del gusto francese.
  Grazie alla capacità del Micheli di offrire al lettore una trama non banale e non agiografica – riferendoci alla figura di Puccini – si assiste alla creazione di un romanzo davvero interessante, da cui viene bandita ogni retorica e si mantiene intatta l'attenzione nel seguire la vicenda di ogni personaggio, ben inserita nel contesto principale.
Elisa Davoglio

il romanzo è stato ripubblicato
per i tipi della collana I Calami dell'editore Fratini

I sognatori diurni

recensione al romanzo La grazia sufficiente (Campanotto, Udine 2010) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Nuova provincia - marzo 2013
 
 A distanza di anni dalla lettura di un celebre libro di Roland Barthes, La grazia sufficiente di Giancarlo Micheli (Campanotto, Udine, 2010) è romanzo rivelato, venuto come qualcosa che accade. Anzi riaccade come «impero dei segni», riaccade non già come mera narrazione sul Giappone, ma senza interferenze con l’idea formale dell’essai barthesiano riaccade come narrazione sospesa (sospeso è quest’haiku narrativo di Micheli) tra due realtà geoculturali, l’Occidente e (con atto d’amore e intelligenza) l’Oriente nipponico.
  Più che per ideale sovrapposizione romanzesca all’Impero di Barthes, La grazia sufficiente, autenticando un déjà–vu critico–memoriale (che è dato puramente confinato nella volontarietà del memorabile), è saliente esemplare nell’identificarsi come romanzo di montaggio. La Grazia è un film narrativo a sequenze alternate ed interepocali, valga a confermarlo l’incipit primo–novecentesco del lavoro d’usciere di Taisho presso il Nagasaki Medical College (dove si tiene un convegno di linguistica) ovvero l’età della civiltà moderna, e l’affondo, della Nagasaki di Taisho vera e propria analessi all’imbocco del moderno, nella stupenda sequenza del naufrago del Tweede Liefde, Baruch Dekker, personaggio collettore tra l’Occidente olandese e l’Oriente, un europeo del Seicento cui l’orizzonte destinale è l’approdo nipponico.
  Ma La grazia sufficiente, nei tre secoli aperti tra le vite di Taisho e Baruch espone un centro, espone l’idea del romanzo. Qui Micheli rivela – per rimanere dalle parti di Barthes – il senso obtusus, ciò che è apertura e disvelamento, ciò che spalanca l’infinito del pensiero. Al riguardo, è utile una premessa. Anzi, di più. È il riferimento ad un centro della letteratura mitteleuropea, al mito abbagliante dell’Azione Parallela, resa celebre da Robert Musil nell’Uomo senza qualità. La grazia sufficiente sembra collocarsi nel novero di quelle opere in cui il progresso della civiltà, la mitologia secolarizzata del Regno Millenario, l’ideale del mondo nuovo e la grandeur, espressa ad esempio dal colonnello Ishiwara nel prodigioso attacco del suo discorso («Il compito di civiltà che spetta alla nostra nazione…»), di per sé esprimono la condizione esemplare dell’idea, idea che nella Grazia è calibrata come mito personale di Taisho e Baruch. Sembra di udire l’eco di parole note ai fanatici dell’Uomo musiliano, parole che potrebbero affiorare dalle labbra del conte Leinsdorf o balenare come credi iperuranî dall’apostolo dell’Azione Parallela, Diotima.
  Un romanzo dell’idea è quindi La grazia sufficiente, un’idea ancipite, poiché alternata tra Taisho e l’ingresso nel «reggimento di fanteria Shimamoto», e Baruch, naufrago, amante della pittura e del teatro, ostaggio a Deshima, idea quindi che si fa Storia maior (Taisho) e storia minor (Baruch), idea che costruisce un universale di pensiero, la Storia di Taisho e la storia di Baruch come modelli riflessi in un’ideale camera a specchi, la verità della vita vissuta. La vita di Baruch, la sua storia di nipponizzazione ontologica passa dalla cultura (e dal lavoro), poiché il capitano olandese si trapianta in Giappone, mentre Taisho vive nella Storia nipponica. Ma Taisho e Baruch, tra la Storia come azione bellica e la storia talvolta edulcorata (pittura, teatro), veicolano entrambi una spiccata inclinazione memoriale. Anzi, il ricordo o la féerie adempie una funzione di schiusura del tempo, vale a dire che la Storia di Taisho (la guerra) è abitata dalla storia (le «visionarie fantasticherie», la madre, il padre…) mentre la storia di Baruch (che è soprattutto la vita con Netsuki e Aikyo) è abitata dalla Storia (il glorioso passato del Liefde).
  Se i tasselli memoriali della Grazia non segnalano presenze di proustismo nel narratore (Micheli narra in terza persona), d’indole proustiana è dunque il personaggio, non già per la mania di memorialità, ma per un certo modo di apparire della memoria come via che rigenera, così in Taisho come in Baruch, via che si rigenera nel memorabile. Ma la storia (maior e minor) e la memoria, il memorabile della vita, nella Grazia sembrano salire a un’acme, poiché condizione inderogabile della sua identità, a un saliente inatteso della narrazione: la violenza. Che è come dire che la Storia (maior e minor) si rivela quel che è: violenza dell’uomo all’uomo. La memoria è quindi un antidoto alla violenza, una droga necessaria a neutralizzare il reale per il sogno, il vero per l’ideale, l’immanente per l’idea trascendente.  
  Non a caso, appena il memorabile scava nella memoria di una recherche autobiografica (in Taisho e in Baruch), la violenza si fa nome della storia. Non vi è quindi confine tra l’orizzonte multiculturale di Baruch e le res gestae di Taisho, la violenza (la faida religiosa nelle visioni, la vita a Deshima per Baruch, la morte del compagno Taro sul campo di battaglia, la morte della madre per Taisho) satura la scena, brutalmente scardinando la tentazione del rivissuto memorabile, e così inchiodando il destino (anche del romanzesco), al vissuto tragico dell’esperienza.
  La grazia sufficiente vira dunque altrove: il memorabile della memoria si fa immemorabilità nella violenza. Ma il destino di vita violenta, di storia violenta per il militare Taisho o per il “forzato” Baruch, tra la libera volontà di combattere con l’esercito giapponese (Taisho) o di esserne prigioniero (Baruch a Deshima), tra la guerra e la «vita in cattività», nella sintesi morale di Baruch matura in un’epopea del rifiuto. All’amico Cornelisz van Nejenroode e al dolore manifestato per la vita di Deshima (intesa irreversibile), Baruch oppone non già la speranza della redenzione, oppone semmai scetticismo riguardo alla «dottrina della predestinazione o della grazia sufficiente», un empito di scetticismo autenticato dall’epica fuga notturna dall’isola dopo avere ritrovato il proprio amore perduto, Netsuki.
  Se Baruch sovverte l’idea di predestinazione (guadagnando alla storia l’aureola perduta della felicità), Taisho prova a sovvertire il destino, «incrollabile nella sua risoluzione di vedere la madre», benché al suo ritorno dalla guerra, Araki (un vicino di casa) confessi al giovane l’avvenuta morte della donna. Ricomporre la tela infranta della vita, per Baruch culmina nella riconquista del tempo perduto (il tempo ritrovato di Netsuki), nella cancellazione della storia come violenza, per Taisho nello sprofondamento al nulla, o meglio in una caduta apocalittica (la coscienza della morte materna) vissuta quale condizione preliminare e unica per ricollocare sé nel mondo, sia anche attraverso la più remota possibilità – che è parsa un’indimenticabile quanto involontaria citazione dell’Atalante di Jean Vigo –, l’esercizio dell’immaginario, rivedere come in sogno una figura di giovane donna (déjà–vu e desiderio), rivedere, nella potenza di un’epifania mentale, di un’ennesima razos visionaria, l’oggetto creaturale di un’allegoria, unica via per ricondurre al tempo dell’essere ciò che ormai non è più: la madre perduta, la vita sognata.
Neil Novello

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mercoledì 10 aprile 2013

Struggle for revolution


recensione al romanzo Indie occidentali (Campanotto, Udine 2008; Premio internazionale “Nuove Lettere” dell’Istituto italiano di cultura di Napoli - XXII edizione) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Erba d’Arno (n.130/1, autunno 2012 - inverno 2013)




   L’empatia tra lo scrittore e il proprio mondo scritto è il primo rilievo esemplare di Indie occidentali (Campanotto, 2008) di Giancarlo Micheli. Scrivendo, Micheli abita il mondo che scrive, lo abita perché al romanzesco affida un compito esemplare, rivelare la realtà attraverso la sua agnizione. Riconoscere la realtà, in Indie occidentali è riconoscere il destino di Aurelio ed Erminia, emigranti italiani tra New York, Chicago e Paterson, creaturalità sospese tra due dimensioni: lo struggle for life e lo struggle for revolution.
   Empatia e agnizione, dunque. E lingua. Micheli è anzitutto un grande scrittore, è un narratore di “prima”, un cesellatore d’incanti linguistici. A rigore, la lingua del narratore stacca verso l’alto del sublimis, la lingua dei personaggi riflette una polifonia propria al basso del piscatorius. Micheli parla la lingua dello scrittore culto, il personaggio, un’altra lingua, la lingua della sua cultura. Non è un caso, è uno studio, è l’onestà. Verrebbe da scrivere, la bellezza interiore di ciò che nel romanzo più immane: lo stile.
   Il marxismo linguistico di Micheli non è però un mero fatto di stile, è la coscienza sociologica di chi guarda alla lingua in prospettiva plastica, vi guarda con l’immedicabile amore con cui si guarda un mondo da un ideale rasoterra. Ecco perché Indie occidentali chiama anzitutto al dovere della responsabilità. È un abitare il proprio mondo, che non specchia una pura visione del mondo, non è un’ideologia, è l’isolarsi nell’accanto della nuda vita sottoproletaria. Al fondo del Maëlstrom, già una figura emerge sovranamente, un tipo del Pasticciaccio gaddiano o di un qualunque Riccetto pasoliniano: è Venanzio. La lingua di questo indimenticabile “borgataro” di New York è tutta la sua complessione antropologica: la nuda vita vivente di musulmänner, di dochodjaga.
   Se Venanzio abita l’ideale fondo dell’inferno, un inferno cui Micheli dà forma di contenuto, Indie occidentali è una spirale, un Maëlstrom per l’appunto rincamminato dal narratore, spira dopo spira, alla ricerca dell’alto. È un romanzo d’inabissamento e riaffioramento: Venanzio, certo, ma anche i protagonisti, Aurelio ed Erminia, il Sor Clemente, la sociologa marxiana Sophonisba, il fidanzato economista Jack. Un romanzo dell’interclasse, un romanzo–universo, un romanzo epigono, epigono – lo si può dire brutalmente – della grande tradizione russa: Dostoevskij, soprattutto Čechov.
   D’apocalisse in apocalisse (l’incendio del bar di Aurelio), di speranza in fuga, l’abbandono di New York è anche la cancellazione tragica dell’american dream, di quel che Baudrillard figurava come la città di chi pensa solo, canta solo, mangia solo, parla solo. È l’America d’America. Dimenticare New York a Chicago. Un segno della svolta tragica in Aurelio ed Erminia è il coatto regresso di classe, lo sprofondamento destinale: dalla middle class newyorkese alla caduta, la vita proletaria, la via all’epopea del ricominciamento. Per Aurelio ed Erminia è perdere il primato per lo scacco, per il narratore è accendere il fuoco del politico. Nasce la fedeltà all’inerme. Tra il tragico creaturale e il politico narratoriale, Indie occidentali svetta. Il romanzo è develato, appare come pretesto a sé:
  
   Lo stato delle cose adesso sussistenti è la virtualizzazione della società, un dilagare panico di moventi individuali tanto artificiosi quanto efficaci, impersonali e disanimati; è il dominio dell’inesistente corroborato nei fatti della vita fino alla verità assoluta ed ubiqua del codice di tutte le disciplinate liturgie, politiche, economiche, esistenziali, psichiche, religiose, relativistiche ciascuna imposta dal consenso di illusori adepti. Questa pur sintetica digressione serva a chiarire il senso della ricerca nel passato attraverso la presente narrazione.
 
   Il romanzo è alla confessione. Anche l’autore di Indie occidentali. Il passato è pretesto (predestinazione), cardine al presente. È fonte di comprensione culturale. L’odissea di Aurelio ed Erminia culmina nelle lotte sindacali a Paterson (Aurelio è operaio e lotta contro il padrone Catholina). Quando lo struggle for life non può che essere struggle for revolution, lì rivela l’impensabile. Il presente storico, il regno del dominio capitale, è solo una pallida corruzione dell’epopea sacrificale dei nostri padri. Indie occidentali diviene. O si rivela quale documento di una traslata autobiografia dell’interiore, la testimonianza del segreto dolore per un mondo, questo umanissimo del romanzo, in cui Micheli sublima con accanita passione un destino mai venuto a noi. Una promessa (forse) mancata, se poi Eugenia, la figlia di Aurelio ed Ermina, è l’ala futura che non tradisce il passato. Anzi recupera in simbolo (la costruzione di un teatro: la rivoluzione di Erminia e Aurelio sarà allegorizzata al Madison Square Garden) proprio la grande lezione del padre e della madre.
Neil Novello




 
 
 
 
 

lunedì 4 febbraio 2013

Le onde del mare, il ghiaccio dell'esistere, il sogno della vita

recensione alla raccolta di versi La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012) di Giancarlo Micheli; pubblicata in Retroguardia 2.0 (Febbraio 2013)

 «XV. Tu che non ti sei piegata / Ai primi freddi della quarta glaciazione / Perché nel mondo interiore non vige legge di consolazione / Della termodinamica non vi si osservano i principi / Né una salomonica distribuzione / Dei delitti e delle pene / Tu che libera ti sei spogliata / Della negazione di questa vita / All'occhio che fiorisce infinito / Contemplando sovrano il mondo in sé / Appari nel disgelo di quest'ora / Fiore di loto dalla neve di Aprile» (p. 160).
 E' uno dei componimenti (il terzultimo) che chiudono questa terza e più complessa raccolta di versi di Giancarlo Micheli. La "quarta glaciazione" cui si fa riferimento è naturalmente quella contrassegnata dal fiume Würm in cui raggiunse il punto termico massimo di avanzamento dei ghiacci. Anche se avvenne nel Pleistocene, all'incirca 12.000 anni fa, è, in realtà, l'ultimo punto di riferimento umano nell'avvicendarsi di epoche calde e fredde nella storia del continente terrestre. E' inutile dire che quella della glaciazione è una metafora molto efficace della condizione umana nell'epoca della globalizzazione e della trasformazione in merce dei sentimenti, degli affetti, delle vite umane e della poesia che essi alimentano. Ma se tutto si limitasse o si riducesse a questo, la poesia contenuta nel volume lirico di Micheli non sarebbe altro che un esercizio sociologico di rabbia e di indignazione forse profetica, non un tentativo di esplorazione poetica delle frontiere superstiti o residue dell'umano. Come lui stesso aveva scritto precedentemente, in una lunga suite poematica intitolata Rivolta in cinque stanze e dedicata all'elenco delle doléances del presente:
 «4. In un arido settembre della quarta glaciazione / I miei libri mi trovano con facilità / Mentre in convivi e in adunanze / Un pullulare di polluzioni / Implica la schizofrenica povertà / Di chi vende prole e giorni ad esperimenti / Educativi in regime di mercato / Che è tutto quello che di libero rimane / Quando i funzionari dei beni culturali conferiscono licenze / Secondo i circoli viziosi della loro paranoia / Sacrosanta per cognizione del dolore dell'altro // Sarà scaltro peraltro a sua insaputa / II medico che fa la piaga pietosa / Per esosa mercede e compatibile / Alla dogmatica delle forme spurie / Quanto potrà essere onesto / Nel seguire la virtù / Profonda a misura del fiume sensibile / E fino al placido estuario della mente / Quando vi reca la cura della verità / Sarà oggi e non sarà domani / Quando avrà la gioia e l'eguaglianza / Di giustizia e di bontà / Umane per desiderio della vita / E consistenza di memoria / Nuova gloria che non affonda infine / Nell'onore di abissi di abiezioni // Pietre reiette di abusati paragoni / Giacciono a fondamento di superflue novità / Mercantili perché a dovere moltiplicata la dominazione / Di vili passioni locupleta gli ipocriti e chi mente / Per contraffatta pietà ed interessata ...» (pp. 104-105).
 La "quarta glaciazione" è, dunque l’"orizzonte degli eventi" della poesia di Micheli.
 All'interno della società attuale, il suo sviluppo apparentemente invincibile e la sua pervasività sono quelli di sempre. Ovunque, in essa, infatti, domina un inverno pesante e ottuso, fatto di corruzione e di miseria, di dolore e di morte, un panorama che non sembrerebbe lasciare spazio al futuro. L'orizzonte della poesia di Micheli è - lo si è già detto - un presente dilatato all'indietro fino ad inglobare il passato tutto dell'umanità. Si tratta di un panorama freddo, sconvolto, desolato quello che lo contraddistingue e dove domina la logica del profitto e dell'alienazione umana e da cui ci si può salvare soltanto attraverso la lotta, lo scontro frontale con esso, la volontà di non cedere e non assuefarsi ad esso. La forza che lo rende apparentemente invincibile è la morte di ogni speranza nella possibilità di rovesciarlo e cambiarne drasticamente le coordinate strutturali. L'arma migliore per contrapporsi all’"inverno dello scontento" che incombe e rende impraticabile l'orizzonte futuro dell'esistenza degli uomini, è, allora, il sentimento d'amore - l'unico sicuramente e globalmente in grado di "cambiare la vita".
 Come per i Surrealisti che restano pur sempre la bussola cui Micheli ama orientare il timone della propria poesia (e gli esergo che aprono le diverse sezioni che compongono il libro stanno lì a dimostrarlo), "trasformare il mondo" (marxianamente) non avrebbe senso se non fosse la stessa idea di esistenza umana a mutare radicalmente e profondamente (come è noto, è proprio questo lo scacco maggiore delle grandi procedure rivoluzionarie del Novecento ormai trascorso). La poesia militante che attraversa con toni tra l'accorato e il sarcastico il libro si coniuga, quasi sempre, con l'evocazione della passione d'amore. Il sentimento della rabbia e dell'indignazione per il "dolore del mondo" si trova pur sempre collegato all'evocazione delle persone amate come parentesi di felicità e di piacere nell'ambito di un'esistenza che sembra, ogni volta, scattare come una trappola per impedirne il dispiegarsi della passione e del sogno.
 «Io e te nasciamo in ogni istante / Quando abbandoniamo del tempo il pregiudizio / E rovesciamo il compito impartito / In tutto quello che è scambiato con l'amore / Al prezzo del pane quotidiano / Che hanno spezzato lungo le nostre schiene / Per venderci una doverosa gravità / Quella che ci confonde di chiarezza quotidiana / Di ossequio alle divinità di ciò che è stato / Le meglio presentabili e dal dubbio più esentate / Perché noi sappiamo anche il cattivo viso / Al di là del bene carnefice e mansueto / Che allestisce il gioco per le vittime predestinate / Noi destiniamo all'eternità la mente e il cuore / Gli elementi del sogno che si avvera / Sappiamo il gioco spietato della meraviglia / Sulle cui ciglia la lacrima è innalzata alla visione / Distinta dell'unità dell'anima nel caso / Dove il tempo si combina al desiderio / E ride ciò che è serio / E il volto è riconosciuto / Umano specchio che nel dio riflette l'animale / Finché all'infinito presente / Coniuga di noi gli occhi e le parole / E la felicità è alla portata del senso e della mano» (pp. 156-157).
 I due poli della produzione in versi di Micheli, dunque, la critica della società del presente e la violenza che esercita sui soggetti che la costituiscono e la via d'uscita da essa rappresentata dalla "rivoluzione a due" che avviene nel momento dell'innamoramento e poi della passione amorosa si congiungono sovente nel corso di lunghe esternazioni di tipo paratattico che sembrano scardinare il ritmo consueto della scrittura nella tradizione della poesia italiana.
 L'inanellarsi fitto e deciso delle situazioni descritte e delle passioni provate ha la (probabile) funzione di accentuare in senso dimostrativo e sovente narrativo quello che potrebbe sembrare il puro e semplice congiungersi delle parole nei momenti più a lungo usati (e spesso inutilmente abusati) della poesia lirica immessi nel loro significato come tradizionalmente viene indicato ed espressi. Per Micheli, allora, più che costruire una nuova "tradizione" della poesia a venire si tratta di verificare le basi e di ricostruire dalle fondamenta quella che c'è già.
 In effetti, nel suo stile di scrittura, non c'è sperimentalismo o plurilinguismo ostentati come armi distruttive del retaggio del passato quanto il rifugio in una lingua spesso ripulita da facili neologismi o mimetismi ostentati in senso corrivo e, quindi, facilmente consumati. In senso opposto rispetto alla riconduzione del linguaggio lirico all'andamento prosastico che sembra contraddistinguere molte esperienze della contemporaneità poetica, Micheli punta alla ricerca di un linguaggio non certo ermetico né "puro" (alla Mallarmé) ma sicuramente terso e liberato dalle incrostazioni più esacerbate, incitate e infette del consumo linguistico corrente.
 La sua lingua della poesia è quella di chi vorrebbe rimandarla ed esporla come un'etica della vita e ricongiungere, in un solo circolo esistenziale, critica dell'esistente infausto e retrivo e apertura verso l'utopia della libertà amorosa.
 Nelle cinque sezioni che costituiscono il tessuto lirico-descrittivo della poesia di Micheli, i diversi momenti che costituiscono il suo progetto di lettura del mondo che lo circonda si intrecciano e si articolano tessendo una tela di rimandi morali e di accensioni intime fino a rendere il loro ritmo incalzante e continuo come le onde del mare, tante volte evocate nei suoi componimenti, che si infrangono infaticabili sugli scogli che circondano i porti o la battigia in cui va a morire la spiaggia dalla sabbia innumerevole sempre rinnovata dal Tempo e sempre apparentemente uguale di fronte alle sue sollecitazioni pulsanti.
 Continue e poderose come la spinta candente delle onde marine, le lunghe emanazioni liriche della produzione di Micheli ritrovano una loro possibile sintesi finale nell’"armonia delle labbra e del silenzio" il cui tratto evocativo chiude il libro. Le parole della rabbia rimandano al silenzio del sentimento amoroso e si congiungono in un cerchio incantato in cui domina l'utopia del mondo senza il Male.
Giuseppe Panella
 

Giancarlo Micheli, La quarta glaciazione, Pasian di Prato (UD), Campanotto, 2012


recensione alla raccolta di versi La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012) di Giancarlo Micheli; pubblicata in: Il Convivio (Anno XIII n. 4 Ottobre - Dicembre 2012 n. 51)
 
 L’opera di Giancarlo Micheli si propone come poesia sperimentale, che mantiene un interesse per il senso, per la poeticità, per il plurilinguismo. Rientra in una poesia estremamente interessante di cui in pochi oggi in Italia hanno dato dei frutti, ovvero una linea sperimentale che mantiene un senso nella poesia, in cui l’esperimento non è solo fine a se stesso. La poesia è dunque un fluire continuo, che si accosta al fluire della vita: «La vita è il balsamo unico / E l’imbalsamazione un balzo nella vita» (Del buio). Il cammino del poeta va alla ricerca della libertà, del secretum e per raggiungere questi obiettivi medita sulla realtà e su se stesso nella consapevolezza che «Nel volere ciò che non si è / consiste la libertà» (Conatus in suo esse perseverandi). La riflessione sulla vita avviene in uno status tra la realtà e la visione, tra la vita stessa, il sonno e la morte. Nella dinamica della raccolta il desiderio di libertà e la sua consapevolezza vengono spesso affiancati alla figura del vento che ha una rilevante occorrenza lemmatica e che si connette non solo con la libertà ma anche con la volubilità delle cose. Questo moto che ha come correlativo oggettivo il vento si ritrova nella prassi poetica attraverso il poema, che è uno degli aspetti modernissimi, e allo stesso tempo classici, di Giancarlo Micheli. Lo sperimentalismo poetico e la poesia modernissima dell’autore divengono classici, difatti nella stessa raccolta si ha la sintesi di come il classico, come lingua o struttura poematica, raggiunge lo status di contemporaneità. Il poeta sta appeso «alle fibre degli sguardi (Amore della prospettiva) e indaga il mistero dell’uomo: «Uomo è tanto bello vederti passare / Confuso alla nube dei tuoi giorni / Ché non so bene chi tu sia / Di che genere o da quale paese  / Tu sei un mistero da custodire / E non una conversazione / Da tenere in una stanza / Tra il tuo discorso e te» (Et consumimur igni). Il fluire poetico è percepibile non solo attraverso libere associazioni di idee e di immagini, ma anche attraverso il plurilinguismo e la mancanza, spesso, di segni interpuntivi che, tuttavia, non rende complessa la lettura ma l’agevola nei meandri della mente del poeta. Si presenta, dunque, un autore in viaggio eterno, alla ricerca di infiniti mondi possibili tra omerismo e le infinite possibilità che ricordano Leopardi: «Ho la mia nave / sulla quale i viaggiatori / prendono il sole nelle mani / tutte le volte che immagini / Le mura di Gerico / O una seconda opera / Lungo il tempo che fanno / Scegliendo ogni volta / La loro legge e il loro amore / In ragione dei quali esistono / Possibili in eterno». La quarta glaciazione di Giancarlo Micheli si presenta come diario mentale in cui al centro abbiamo la parola che ha un valore archetipico in quanto ogni lemma è essenziale. La varietà degli stilemi è un altro aspetto della raccolta come nel caso del poemetto in sequenza di sonetti Res accendent lumina rebus. La ricerca di verità e libertà, nel fluire delle infinite possibilità, rende l’uomo naufrago in «Un cedere del cuore / Nelle paratie del mare interno» (Naufraghi nel tempo), in cui si assiste al dilagare e all’osservazione del poeta.
Giuseppe Manitta
 



La quarta glaciazione


recensione alla raccolta di versi La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012) di Giancarlo Micheli; pubblicata in Literary (n.9, settembre 2012)

 La molteplicità di ‘proposte’ poetiche rende difficile la sintesi, pur nella organicità dei testi raggruppati secondo una precisa struttura. La cifra stilistica tiene unite le escursioni formali, dal verso breve al macroverso d’impianto narrativo: due esempi alle pp. 46-49; e per il titolo cfr. Rivolta in cinque stanze. La scrittura è portatrice di una cultura a volte non denominata, ma certa per la sua peculiarità — supposizione da reperire nella Verklärte Nacht (A. Schönberg) o Lyrische Symphonie (A. von Zemlinsky). L’indagine va quindi operata testo per testo, per le numerose assonanze e analogie. Qui, si direbbe, interviene anche la rima – cfr. i sonetti della sezione Res accendent lumina rebus – con sottigliezze sonore, come la non comune rima siciliana in Psicagogiche rime (sconto | punto). La verifica fa sorgere nuove intuizioni che in Sinfonia vegetale condensano i tratti peculiari della raccolta, non ultimo lo spirito lirico filtrato da un fitto tessuto semantico.

La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012) di Giancarlo Micheli


recensione alla raccolta di versi La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012) di Giancarlo Micheli; pubblicata in: Literary (n.12, dicembre 2012)

 “Ai viventi sia dato di lasciarmi | Ovvero prendermi sul serio”, questo recita l’Epitaffio in effige di Giancarlo Micheli.
 In effetti il corposo volume edito da Campanotto, reso ancor più intenso da un set di caratteri tipografici piuttosto piccolo e dal flusso lessical-creativo-torrenziale dell’autore, risulta come un testo molto arduo all’esser metabolizzato e ancor più compreso, per taluni addirittura potrebbe risultare indigesto, per altri invece apparire come un’autentica miniera sapienziale.
 O lo si ama o lo si odia, del resto alla genialità non si comanda, da sempre.
  Quel che è certo è che affrontare lo spessore semantico di un’opera come La Quarta glaciazione nella cornice interpretativa di una recensione, suona più o meno come tentare di raffigurare le tele di Pieter Bruegel il Vecchio nello spazio di un francobollo.
 Non si può che effettuare incursioni e carotaggi, prelievi ematici a campione, per definire punti su una mappa di cui, a tratti, si stenta ad intravvedere la reale dimensione, nonché a determinare la raffigurazione scaturente dalle linee di congiunzione tra i medesimi punti vivi via via definiti, eventualità possibile in un futuro in cui si fossero accumulate un sufficiente numero di serie statistiche, per approssimazioni e indagini successive, letture e riletture che non tutti sono disposti a concedere, ma che pure si rivelerebbero, nella fattispecie, molto gratificanti.
  Molteplici sono le ragioni di tanta complessità: in primis una stratificazione concettuale che deriva da una variopinta giostra metaforica allestita con arte raffinata ed ironica, puntellata da riferimenti propri di un invidiabile sostrato culturale che mostra attitudini onnivore ed interdisciplinari (nuances mediche, assicurative, contabili ed economiche, fisiche, botaniche, astronomiche, matematiche, informatiche, linguistiche, mitologiche, inerenti l’arte della navigazione ed altre ancora, si distinguono nella costruzione lessicale potentemente aderente al gergo specifico); in secondo luogo una tecnica narrativa spesso frutto di un joyciano flusso di coscienza, apparentemente quasi alla deriva, faticoso da seguire come lo è, dal punto di vista computazionale, un’operazione di decodifica in tempo reale di un flusso di dati crittografati per una cpu non abbastanza performante, eppure affascinante nel momento in cui la sorpresa e la scoperta affiorano finalmente alla nostra comprensione (talvolta un po’ intimorita, tal’altra un po’ bistrattata) e, in ultimo, una punteggiatura quasi assente (soprattutto nell’interpunzione netta del punto, imputato in reiterato stato di contumacia) con l’aggravio del “vizio di forma” della maiuscola ad inizio verso, che un pochino favoriscono il fraintendimento del senso complessivo dell’architrave poetico.
 L’impressione generale è quella di trovarsi al cospetto di una mente multiversa nell’isocrono istante in cui qualcosa coglie la sua attenzione, una mente che indaga le iperboli del ragionamento come i lapilli di un fuoco d’artificio indagano l’oscurità, contemporaneamente a raggiera, che si fa fontana luminosa, tuttavia per lo più razionalmente disillusa, nella caducità del suo splendore che pure non è per nulla vano, in quanto capace di determinare ed acclarare fulgidi e compiuti esempi, nel senso iconografico del termine.
 Tale tipologia cogitativa non in ogni occasione si addice alla brevità tensiva dell’afflato lirico (ma questa, più che una critica, è una considerazione basata su un’aspettativa, una preferenza soggettiva), tuttavia, volendo per divertissement modellizzare la variabilità esplosiva e luminescente di questo pirico pensiero, se fosse un poligono potremmo dire che si tratterebbe senz’altro di un solido archimedeo quale l’icosidodecaedro troncato, oggetto che nello spazio tridimensionale si fatica a comprendere nella sua struttura complessiva, ma che ad uno studio attento, se svolto su una superficie piana, si scopre essere composto da una sorprendente regolarità variabile, quasi fosse il seme di una curva frattale (in effetti si tratta di un solido composto da 62 facce, divise in 12 decagoni, 20 esagoni e 30 quadrati, 180 spigoli e 120 vertici).
 Vale la pena di incamminarsi con umiltà, ed anche un po’ di sofferenza, lungo le calli impervie dell’opera di Giancarlo Micheli, lo spirito dovrebbe essere quello di un geologo spaziale che studia la stratigrafia di un meteorite provenuto da un altrove ignoto.
 Così facendo, destreggiandosi nel periplo di una invadente sensazione di inadeguatezza, si avrà il piacere di urtare gemme ustionanti di risvolti coinvolgenti, dai toni classici e liricamente cristallini, come “Non altro se non dire essere | Nello smorire dell’estate | Dentro la concava brace del cielo | Non altro | Nelle prime chiare sere d’autunno | Quando la luna s’impiglia | Nei tramagli delle nuvole | E attorno è un presentire | Una vaga pesca di incertezze | Come un pencolare di farfalle | Appese ai fili d’erba | Fino alla strada alzaia | Dove il muro dei passi | È scavalcato”, oppure dai colori elettroluminescenti, come nell’originale canzone intitolata Pelaganemonia in cui colpisce quel “Ha lasciato i saloni della regina | Le pareti coperte di muschio | Il palazzo riscaldato dal fuoco di madrepore | Il vento del mare porta la preghiera di Anfitrite | Oscura il cielo col sibilo di silfidi invisibili | Il vento del mare soffia l’ebbrezza nei polmoni”.
 L’anima prima del poeta è quella di un filosofo che si esprima in versi, sua l’attitudine a giungere alla sala in cui si tengono i balli degli epiloghi, motivandone talvolta i singoli gradini che compongono l’itinerario di avvicinamento, mentre altre volte lasciando, un po’ imprudentemente, patire al lettore la “sindrome da vittima del genio di Fermat”, stramba patologia che conduce l’ignaro leggente all’obnubilamento della vista interiore (quella emotiva o razionale a seconda degli stimoli in prevalenza suggeriti), senza compiacimento alcuno, pare, da parte dell’autore, eppure con la consapevolezza vigile di chi sa di parlare agli iniziati, tuttavia ritiene che l’impellenza espositiva e la democrazia evolutiva debbano tendersi la mano ad una mezza via che, sfortunatamente, risulta trovarsi comunque ubicata tra le turrite dimore dei Grifoni e gli spigolosi faraglioni delle temibili Arpie delle Terre di Mezzo.
 Ne è un esempio la lirica Poema del confine, oscura per buona parte e poi liberatoria nell’epilogo, come una vampa di luce improvvisa, pirica meraviglia, quasi giustapposta mannequin aliena al precedente contesto: “Ti ho donato un’arancia più avanti | Oltre Grado perché la qualità | Fosse al fine del nostro compimento | Un luogo che tiene nell’illusione del consistere | Prendila dalla mia mano | Che ha adesso dita liquide | E bagnala nella tua bocca”.
 “Tutto quel che è puro si contamina”, “E quand’anche tutto avesse mai bisogno | Di riscatto o compimento | Durante un transfinire di elementi | Che spoglia la dogliosa gioia di esistere | La vena della vita | È l’oro dell’uomo”, “Sterminiamo memoria | Sulle prode allicciate dal vento”, “È troppo relativo l’uomo | E pure l’artificio vuole | La sua sostanza umana”, sono solo alcuni dei versi che rischiarano le cuspidi di un pensiero complesso, e talvolta contorto, soprattutto quando i riferimenti e gli appigli cognitivi e culturali, ma anche divulgativi ed espositivi, come traversine di legno su una rotaia abbandonata, mancano per reciproca incomprensione o limite, nel sostenere il ponte leggero tra lettore e poeta.
 A questo proposito non si può non ritenere che il lettore debba essere messo in condizione di poter decifrare il senso complessivo di una sequela di matrioske logiche assemblate in maniera invidiabile, magari tramite qualche noticina a piè di pagina (oppure per mezzo di una solida prefazione ad inizio opera, qui assente piuttosto greve, con funzione che avrebbe potuto essere di sestante orientativo circa la collocazione dell’autore e della sua poetica nel panorama letterario contemporaneo), diversamente il suo disappunto, quello del povero lettore anzidetto, potrebbe farlo propendere per un giudizio sommario, e in questo caso, alla distanza, ingiusto.
 Tra il sostenere che “Nel volere ciò che non si è | Consiste la libertà | E la poesia è qualcosa in più | Anche sospendere semplicemente la volontà” ed il costringere il lettore, ma anche il critico esegeta, ad improvvisarsi padrone di doti divinatorie proprie di un aruspice dell’era tecnocratica, si ravvisa esserci una buona lacuna distanziale, che si vorrebbe fosse stata colmata.
 Talvolta il tono è profetico, esoterico, attraente nel misterico alchemico celare nell’evidenza, per cui ciò che resta è una sensazione di fascino atavico ed istintivo, come in Liriope e Narciso in cui “Giocare per mettere a rischio | Non solo se stessi | Unirsi al sottile equilibrio | Di Liriope e Narciso | Venire alla memoria di un altro | Unirsi in viventi corone | Di olimpica pace | Nel disprezzo del drago | E amorevole della sua nidiata | Di carne insidiosa | E riscattabile | Immagina a tua somiglianza | E già tocchi qualcosa | Un profilo di vento orientale | Una limpida luce | Montuosa di azzurra distanza | La durevolissima lenza | Per cui pesca il sole | Dalu buio alla terra | La seduce in eterno | Di apocalisse in danza”.
 L’autore indaga attraverso l’orecchio poetico perché è l’unico modo che conosce per mantenersi in equilibrio, equilibrio precario che va posto a garanzia di una sanità mentale che faticosamente si mantiene viva sotto i colpi di scure di un inestinguibile fuoco intellettivo che inocula dubbi: “Un giorno saprò chi è che mi scruta | Chi mi accerchia e se ha uno scopo | Saprò se sia moltitudine o individuo”, “Giacché le mie fondamenta sono d’aria | E nel fuoco il movimento mi dissolve | Polvere ritornerò e liquida brezza”.
 Feroci sono alcune invettive scagliate contro lo schema che il poeta intravvede nelle cose, siano esse parte di logiche umane o sovrumane (anche la patria viene vista come un concetto inconsistente e beffardo, in mano ai demiurghi sociali), talvolta sfiorando il delirio consapevole (e quindi liricamente efficace nella frammentazione tagliente dei suoi dardi impazziti), come nei passi in cui si urla: “Attendetevi le mutazioni inoltre | Non nel corpo dell’encefalo della cistifellea | L’emozione non sarà quella che è stata | Estesa all’asse dei tempi e del mondo | Sarà l’eone di una primavera | Non per le figlie e i padri | Non in quest’idea di gregge | Che la vostra precessione di vacanti | Sacrifica ed ossecra | Non nell’osso dell’ossimoro | Dato ai cani di provetta sensibilità | Perché lo riportino al buon padrone | O al buon pastore che ne mangia lo sterco | Perché il marciapiede non si sporchi | Non in tutto ciò di caduta | Oltre nel turbine che sibila | Tra il vento e l’elettrone | Niente a paragone del nonnulla | Che si dà ai mancanti da moneta | Per ripagar la pena di esser nati”.
 Il relativismo assoluto e sconcertante dimora un po’ ovunque, nulla ha un senso stabile, tant’è che poi qualche àncora occorre gettarla e lasciare una traccia di opere buone pare divenire un valido antidoto all’oblìo immaginato per il proprio sé un giorno, con ragionevole certezza, scorporato dalle sue vesti materiali: “E pensa se il tuo mancare | Togliesse nel suo abisso | Tutto ciò che è convissuto | a te di luci e ombre | Di immagini persone gesti e cose | E pure il resto che ti ha concepito | Tale mancare ad altri | Che a te non sarebbe | Pensa questo abbaglio | Più nero del buio che pensi | Riempi pertanto il mondo di virtù | Guarisci nel presente che in te nasce | E di ciò che manca non ti curare”.
 Qualche volta il senso di assurdità rasenta lo stucchevole (pare di assistere ad una scena dei Monty Python, non per nulla laureati ad Oxford e Cambridge, pur essendo poi divenuti celebri come comici), senza mai giungervi per la verità, e ci si trova nel piacevole imbarazzo dato dal tentare di decifrare quel che sembra uno scherzo musicale più che altro (pratica che piace molto al nostro, ed in cui eccelle nella metrica rimata, a schemi tradizionali od incrociati, in varie declinazioni), semanticamente parlando, come nei versi: “In complici moltitudini di consumatori | Consumabili finché ne hanno piaceri | Assimilati all’omertà del ministro | Intorno alle guerre sante e a quelle giuste | Fin dove la teoria marginalista | Digerisce la vita dirigibile | E precipita al finale inconsolabile | Dove con un gran rutto | Stacca la testa all’atomo”.
 Anche la religione deve di necessità passare per le forche caudine dell’ironia sagace dell’autore, come in Noumeni da baraccone, complesso passepartout multirefernziale ove il peccato pare quasi esser comandato, predestinato e cablato nel nostro Dna, ma non per questo, infine accettato: “Nello scontato giro dell’anima comune | trova spazio anche l’angustia | dell’infinita declinata serie | degli umani minimi declini. | Come Dio comanda verrò meno, | moltiplicato mi farò da parte, | in innumeri biologici refusi”, “senza esser messo a parte | dei segreti contabili del gioco”, perché “Quelli che contano sull’anima sanno | che avrò di nuovo un numero | e un posto nella satura serie, | in un serio numero da circo circuito | dall’impresario del circolare cosmo”, rappresentano amare constatazioni da cui il poeta si dissocia affermando con fermezza: “Non c’è alcun peccato originale; | la vita è questo vasto | seguito d’originali peccati”.
 Anche la donna è vista come un traguardo evolutivo, nel senso spirituale del termine e in un’ottica estroversa della questione, frammisto ad un mistero insondabile e magnetico, da trattarsi talvolta con spavalderia, forse ad esorcizzare una timidezza di fondo, tal’altra con dolcezza e profondo rispetto, sentimenti che conducono ad alcuni dei versi più eroticamente mistici dell’intera raccolta: “I tuoi capelli bevono nei miei occhi | Tutta la luce che li asseta | Solo dopo sentii la tua voce | Era polvere e anima racchiuse | Nello stampo aperto tra cielo e terra | Nella matrice che poi si disse carne”.
 A tratti l’essenza femminile alimenta un potente erotismo che affiora, seppur con rare comparsate, incidendosi nella memoria, così parlando delle segrete e magiche arti ammaliatrici il poeta dice: “Un’ubriacatura dell’aria che muovete | Assieme ad altre promesse più segrete | Intrico di roveti ardenti | Vortice d’ogni intelligenza vertice | Attorno alle chiavi di volta eterne | Eccentriche dei vostri capezzoli | Nembitornita mirifica Via Lattea | Del vostro corpo astrale contrassegno | Conchiglia inguainata nell’astuccio | Profumato di muscoli brillanti | Fremito panico che riflettete | Nella macchia ialina degli occhi | O giada dal giardino dei cristalli”.
 Altre volta la donna è il complemento ideale ad una via di fuga, come in Desiderio di leggerezza, forse inconsciamente a volersi liberare del fardello indotto dall’emisfero cerebrale sinistro, quello razional-schiavista di sé stesso: “Fuggiamo assieme | in un esilio di sogni | Per avere terra su cui correre | e sulla via pietre miliari | Dove lasciare tracce d’amore | E sgravarsi lungo il viaggio”.
 Non c’è spazio per un dio in quest’opera, a tal punto che il poeta lo dovrà salvare come un agnellino spaurito e precipitato nel torrente in piena delle umane follie: “Allora misi dio nel novero dei giusti | E lo salvai dal mondo”.
 Pare invece sia una donna ed il miracolo derivante dalla saggezza indotta da una generazione che biologicamente si rinnova (invero, evento tutt’altro che rivoluzionario e proprio di tutte le specie viventi) a determinare una sorta di salvezza dell’anima poetica che diversamente brucerebbe nell’eterna insensatezza e nel vuoto implacabile: “Tu che non ti sei piegata | Ai primi freddi della quarta glaciazione | Perché nel mondo interiore non vige legge di consolazione | Della termodinamica non vi si osservano i principi | Né una salomonica distribuzione | Dei delitti e delle pene | tu che sei libera ti sei spogliata | Della negazione di questa vita | All’occhio che fiorisce infinito | Contemplando sovrano il mondo in sé | Appari nel disgelo di quest’ora | Fiore di loto dalla neve di Aprile”.
 Episodicamente poi, compare una felice, e per il poeta di quest’opera inusuale, anima paesaggistica, espressionismo dell’anima memorialistica che piace, e molto, per il garbo nostalgico, dai toni carichi di sentimento, che sa diffondere con un senso di generale rasserenamento, che stralcia le nubi oltre l’orizzonte: “C’è una palma e un albero di cachi | Goccianti in un umidore di voci | appannate sui fantasmi dei vetri | E due bambini che si erano tenuti | Nel tornare di un inverno | Con la pioggia sulle foglie e il si bemolle | Di Mozart dalla radio Granducale | Ed alte stanze e conigli nei giornali | E derisorie fumisterie | C’era un po’ d’amore e un bastone da passeggio | Per quando fosse spiovuto | E fosse ripreso il viaggio”.
 Per evitare deragliamenti incontrollabili, siamo costretti ora ad arrestare l’alluvione di considerazioni che questo volume suggerisce ad alta voce, anzi con voce alta, in quanto tali e tante esse sono, che occorrerebbe una monografia ragionata per stendere un discorso che non paia il salto disorientato di un rana ubriaca in mezzo al vociare del traffico e dei clacson impazziti nell’ora di punta.
 Un volume non privo di difetti (nella relatività di uno iato o frattura soggettiva-relativa creantesi tra percipiente e mittente del messaggio poetico), nel senso della difficoltà interpretativa cui si va incontro durante la lettura e che si può sintetizzare come dipendente sia dai limiti di chi scrive, sia da quelli probabilmente divulgativi, del poeta, in un certo senso perso (intenzionalmente, forse) nel suo universo dilagante a velocità ultraluminale, alla ricerca di anime consonanti e disinteressato, in un certo qual modo ed in taluni tangenziali espressive intraprese, alla plebe incolta (magari non così drasticamente intesa).
 Non si potrà, in questa circostanza, avallare il verso di Giancarlo Micheli in cui afferma che “Il poeta tocca il cuore di tutti | Senza sporcarsi le mani di sangue”, tuttavia resta senza dubbio avverato ed indelebilmente presente il grido di una voce la cui eco si prolungherà nei tempi e nella memoria di chi avrà la pazienza di sgretolare l’edificio enigmistico su cui sono imbastite e si reggono talune liriche: “Cosa vuoi poeta? E cos’hai tra le mani? | Una piccola colomba calibro ventidue | E un grilletto dalla voce tonante”.
 Si tratta, in sintesi, di un volume raro, costruito con maestria, così denso di energia creativa e citazioni e riferimenti colti e stimoli evolutivi, tali da renderlo consigliabile a molti come sfida intellettuale, sfida che sarebbe stata più equilibrata e proficua nei risultati comunicativi, se si fosse speso del tempo nel cercare di ridurre la distanza tra le sfere più inaccessibili del cogitare poetico, spesso dimostrazione matematica a passaggi impliciti e affioramenti spontanei, ed il mondo di chi è affamato di conoscenza e brame disvelatorie sul cosa si celi dietro (o dentro) ad una mente di cui tutto si potrà dire, tranne che non sia di elevata caratura.
 Questa carenza comunicativa è senza dubbio l’occasione mancata, per un marketing di sé stesso, più imponente di tutta l’opera, in effetti non si potrebbero spiegare versi come “E recensori ed esegeti sono gli amici | In dialoghi supposti e rinviati” se non motivandoli con l’influsso negativo operato da una genialità che tende ad isolare, nella solitudine che nasce dall’incomunicabilità di visioni oculari di mondi iperuranici, in quello che sembra un cliché nell’autenticità di ciò che è funzione ricorsiva del vero che si rinnova: “Il mio passo sgomento | Non rallento | Né mi pento | Sono solo capisci ? | Chiunque tu sia | Senti il mio grido?”.
 Un libro come un iceberg antartico in una landa oceanica popolata da sirene dai lunghi capelli di neve e dagli occhi di zaffiro, un libro difficile quanto prezioso, fondato sulla razionalità irrazionale della questione esistenziale, ma con talune fugaci concessioni al sentimento, da rileggersi dopo anni quasi per tradizione, ritrovandovi senza dubbio nuovi ed inattesi risvolti, per ottenere precisa misura del tempo trascorso, così come delle nostre, presumibilmente aumentate, saggezza e sapienza.