mercoledì 18 febbraio 2015

Elegia provinciale (Fratini, Firenze 2013; pp. 297, € 18) di Giancarlo Micheli

recensione di Stefano Busellato a Elegia provinciale (Fratini, Firenze 2013; pp. 297, € 18) di Giancarlo Micheli
pubblicata in l’immaginazione (Anno trentunesimo, n.285, gennaio-febbraio 2015)


«Stile significa un uomo solo circondato da miliardi di uomini»: lo scrisse Charles Bukowski in Portions of a Wine-stained Notebook, in Italia Azzeccare i cavalli vincenti (Feltrinelli, 2009). Nell’odierno contesto della produzione editoriale e letteraria, che pone in mostra innegabilmente una relazione di proporzionalità inversa tra il valore delle opere ed il loro successo commerciale, questo aforisma diviene perfetto per l’opera e la prassi di scrittura di Giancarlo Micheli, uno scrittore, lui, in mezzo a così tanti semplici scriventi. Se il romanzo d’esordio, Elegia provinciale (Baroni, 2007 ed oggi riproposto nei tipi dell’editore fiorentino Fratini), lasciò pensare che un’opera eccellente porti con sé la difficoltà di confermarsi con le successive, Micheli ha dato dimostrazione di essere una voce cui dover prestare attenzione con Indie occidentali (Campanotto, 2008) e La grazia sufficiente (id. 2010). Quali, dunque, le caratteristiche di stile che contraddistinguono la prosa di questo autore e la fanno spiccare nell’attuale contesto letterario – vittima passiva o, di più, consenziente, delle patologie mediatiche vigenti? Nell’attuale temperie, inflazionata di antiromanzi e poverissima di scrittori autentici, il corpus di Micheli si presenta, invece, quale rifondazione del romanzo classico. Alcuni hanno paragonato il suo stile a quello di Gadda: io ritengo sia improprio; più semplicemente, ritrovo nelle sue pagine l’originaria forma manzoniana. Anche Elegia provinciale è un romanzo storico, che racconta la Storia maiuscola dando voce alle minuscole di umiliati ed offesi dostoevskiani, che in questo caso sono i personaggi dell’ambiente rurale ed umilissimo della Torre del Lago di inizio Novecento, dove il maestro Puccini attende alla composizione di Fanciulla del West e si prepara alla spettacolare e consacratoria messa in scena del Metropolitan di New York. Protagonista della vicenda non è infatti il musicista con i suoi celeberrimi fasti artistici conditi dalle piccanti, e non meno rinomate, sue intemperanze erotiche e sentimentali, bensì il tessuto della civiltà contadina che, sotto i colpi di una modernità di cui l’arte pucciniana è esponente, viene sradicata – siamo negli anni che precedettero la Grande Guerra –  dai propri rapporti animici e sensoriali con i cicli della natura.
I caratteri della lingua del narratore sono quelli di un periodare disteso, se non manzoniano, alla Mann, che obbliga il lettore a soffermarsi, a ponderare, a gustare. Le scelte lessicali vivono nell’estrema ricercatezza, non però come arcaismi, ma per mantenere in vita l’infinita ricchezza della lingua italiana. Ora, poiché una lingua non solo è il sostrato del pensiero ma anche lo strumento che permette al pensiero di ampliarsi, approfondirsi, afferrare, ciò che si guadagna alla fine della lettura dei romanzi di Micheli è un accrescimento della facoltà percettiva e intellettiva. Non è un dono da disprezzare. Luigi Meneghello scrisse che «morendo una lingua non muoiono certe alternative per dire le cose, ma muoiono certe cose»: quanto più si impoverisce, ci impoveriamo di linguaggio, tanto più si impoverisce la nostra realtà. In ciò il lavoro di Micheli sulla forma romanzo non solo è utile, ma indispensabile. Riuscendo ad alternare registri distinti per dare voce ai vari personaggi, nella piena consapevolezza linguistica delle loro strutture psicologiche e delle loro specificità sociali, egli realizza quello che Francis Ponge, un altro virtuoso della lingua, diceva essere il segreto dello scrivere bene, vale a dire lo scoprire mondi in questo mondo, panorami di sentimenti e percezioni che altrimenti, senza l’alta letteratura, rimarrebbero perduti. Si legge in uno dei capitoli centrali di Elegia provinciale«Imbruniva la luce del pomeriggio di settembre. Si era levata da ponente la brezza vespertina, a scompigliare le scarne chiome dei tigli, scossi, come in ansia per il sentimento succhiato dalle radici profonde, nelle quali la terra presentiva il desiderio del prossimo freddo. Ogni contorta fibra legnosa si insinuava nelle tenebre, là-bas, nel crogiuolo dell’opera al nero, aniconica alchimia del nutrimento, ignorante della morte ma ad essa non ignota. Là-bas la natura delle cose, non vista, istruisce lo spirito all’impietoso décor del vero». L’ormai comprovata abilità di Micheli nell’esser capace di aprire la ricchezza della realtà nel nostro vivere quotidiano frenetico e ovatatto, lo rende un autore di indubbio rilievo nello scenario contemporaneo, in attesa di un pubblico di buoni lettori, che riconoscono l’importanza della lettura rispetto al mero sfogliare.

Stefano Busellato

Intervista a Giancarlo Micheli per la trasmissione Carta vetrata

Intervista a Giancarlo Micheli, a cura di Alberto Gaffi e Flaminia Naro, per la trasmissione Carta vetrata di Radio Città Futura (13 Dicembre 2014)


Paroleria e stile di un pasticheur

nota stilistica di Neil Novello a Elegia provinciale (Fratini, Firenze 2013) di Giancarlo Micheli
pubblicata su Medeaonline (15 Dicembre 2014)
  

   Consegnando al settimanale «Tempo» l’ultima recensione letteraria su Todo modo di Leonardo Sciascia, contributo finale di un’estesissima serie di scritti critici iniziata nel 1972 e conclusa nel 1975, e che finalmente costituirà il postumo Descrizioni di descrizioni, pubblicato quattro anni più tardi nel 1979, Pier Paolo Pasolini fornisce un chiarimento (sul titolo del volume che raccoglierà le recensioni) introducendo a una materia, il campo della critica letteraria e la definizione della sua identità:

   Ho fatto delle «descrizioni». Ecco tutto quello che so della mia critica in quanto critica. E «descrizioni» di che cosa? Di altre «descrizioni», che altro i libri non sono. L’antropologia l’insegna: c’è il drómenon, il fatto, la cosa occorsa, e il legómenon, la sua descrizione parlata.

   Tra drómenon, cosa o fatto in sé, e legómenon, descrizione in parole della cosa o del fatto, Pasolini ripropone un cardine dell’idea critica, la distinzione tra il “cosa” e il “come” della narrazione, in altre parole distingue la sostanza dalla forma, il contenuto dallo stile. Non il “cosa” del racconto, al contrario il “come” del linguaggio proprio al récit istituisce l’ideale luogo dell’analisi pasoliniana. Con due categorie di Seymour Chatman, si potrebbe proporre la seguente descrizione: non il “cosa” o la storia ma il “come” o il discorso.
   Chi abbia letto Indie occidentali, secondo romanzo di Giancarlo Micheli (Campanotto, 2008), e più ancora La grazia sufficiente (Campanotto, 2010), terza prova narrativa dopo l’esordio di Elegia provinciale (Baroni, 2007, ora Fratini 2013), potrebbe essere indotto in errore se pensasse che la koinè del narratore nell’Elegia, emanazione lavica in paroleria stupendamente culta, ancorché esito di una conquista di lungo corso, è una congenita presenza, uno stato di cose coevo all’esordio letterario. In realtà, essa figura l’espressione di uno stile–Micheli che viene da più lontano, addirittura forse dalle prove narrative antecedenti l’Elegia, a segnalare l’abnormità già cristallizzata di un’occorrenza stilcritica, quella della lingua alta che si fa stile e, a riflesso, dello stile alto in Micheli connotato esemplarmente nel Kunstwollen della stupefacente capacità d’esecuzione linguistica.
   Di ritorno a casa, dopo un turno lavorativo nell’abitazione di Giacomo Puccini, Doria è frastornata dall’incontro con Elvira (moglie di secondo letto del maestro) e Fosca (figlia di Elvira e figliastra di Giacomo), a proposito di una casuale e grave scoperta, il tradimento di Fosca ai danni del marito, Totò Leonardi, tradimento consumato con il poeta e collaboratore del maestro, Guelfo (a Torre del Lago, teatro delle vicende romanzesche, per la stesura della pucciniana Fanciulla del West). Non ecfrastica o esornativa, anzi da annoverare quale operazione del discorso libero indiretto o dell’oratio obliqua, la voce del narratore si rivela occorrenza finanche plastica nella sua indubbia capacità di far rivivere il personaggio:

   La Doria intanto era andata a buttarsi sul letto, prona, il volto annegato nelle piume del cuscino di cui le sue lacrime bagnavano la coltre di canapa. Nella sua testa vorticavano pensieri mozzi, intenti senza risoluzioni; ipnagogiche larve e minacciose figure la offendevano, affioranti dal buio pozzo di un rassegnato sentimento di impotenza. Si rivoltava sopra alle lenzuola, a scatti ossuti, sfibrati e secchi, sarmenti di moti bruciati nel concavo forno delle viscere. Ebbe ancora un pensiero tenero dove si dipingevano ingenue fantasie, nelle quali Giacomo appariva quale numinoso salvatore, indomito cavaliere ebbro di giustizia, in parusìa di elette ed alte dignità, e la prendeva tra le braccia, e la portava via con sé. Poi venne il sonno.

   Ciò che si potrebbe definire il superlinguismo del narratore non è la spia di una forma di verbalismo letterario acuito da intrattenibili pulsioni narcisistiche né appare il develamento di una scrittura egoica irrefrenabile, proprio perché sfrenato si figura il desiderio di dominio sulla lingua attraversata, quasi folgorata da miriadi di clic espressivo–espressionistici. Sarebbe, così fosse, una diagnosi psicolinguistica tutta incentrata nel tentativo di dimostrare che la dittatura del narratore connota, in un febbrile cortocircuito poietico enigmaticamente tutto interno all’autore, la volontà di non emanciparsi da un patologico gigantismo dell’Es linguistico la cui epifania più evidente è per l’appunto uno stilo culto che non può, perché non vuole o perché non sa, rinunciare al rischio più grande, confinare il lettore nel ruolo di comparsa nella dialettica tra destinante e destinatario.
   Il momento definito culto della lingua narratoriale richiede, però, altri sondaggi e più acuminate verifiche ermeneutiche. Tra i rilievi, uno riguarda l’altra realtà del presenzialismo narratoriale. Non più la lingua corrente del narratore, la letteraria lingua italiana, ma la decisione di ordire in filigrana una texture che oltre il superlinguismo (lingua del narratore) riveli una forma di plurilinguismo per così dire eurolinguistico (lingue del narratore), se si vuole una babele in cui confluiscono, sempre sotto la libido dominandi del narratore, espressioni, modi di dire, apoftegmi, adagi, versi poetici, questi ultimi tolti da Lautrèamont, Auden, Shakespeare, Rilke, nelle più svariate lingue: l’inglese,[1] il francese,[2] lo spagnolo,[3] il tedesco.[4] E non solo. Una ricognizione solamente sommaria apporterebbe allo scrutinio lessicale e frastico anche occorrenze linguistiche ibride, anglo–francesi (e franco–inglesi),[5] ispano–inglesi,[6] franco–tedesche,[7] anglo–italo–francesi,[8] e, perché la storia stessa delle lingue occidentali entri a infoltire il vocabolario di Elegia provinciale, punte lessicali di lingua greca (date qui in traslitterazione)[9] e di lingua latina.[10]  
   Un plurilinguismo, si potrà rilevare, tutto interno al lavoro del narratore, anch’esso esornativo all’apparenza, di marca in realtà espressamente sperimentale. Già con Indie occidentali Micheli esprimeva uno stile sublimis proprio alla voce narrante. Nell’Elegia lo stile alto narratoriale (il plurilinguismo trapiantato nel superlinguismo) innesca altresì una lingua ancora diversa, isolata, la lingua dei personaggi (unilinguistica). È lo stile piscatorius o basso, pertanto, l’evidenza linguistica di un’elaborazione scrittoria tesa a identificare il personaggio del popolo o del parlante dialettale attraverso l’utilizzo del vernacolare[11] di Torre del Lago (con inserti dialettali messinesi nella breve citazione del terremoto del 1908),[12] la località viareggina del lucchese dove si consuma l’elegia di provincia, i fatti e i drammi, le storie e i dolori fioriti intorno alla vita di Giacomo Puccini e al suo harem: Doria, il suo bovarismo e il suo suicidio, proprio come la flaubertiana Madame, Giulia, cugina di Doria, l’amica inglese del maestro, Sybil, la moglie di lui Elvira. A Rodolfo, che informa la madre Emilia sull’intercessione del maestro Puccini per un lavoro alla Ansaldo di Genova, nel discorso diretto della koinè vernacolare, la donna risponde:

   “Vergine santa, speramo che vada tutto per il meglio, Rodolfo. Qua ’un si sa più come tira’ avanti”.

   Pensando anche a Doria, innamorata del maestro Puccini e pietra di scandalo perché scopritrice della liaison tra Fosca e Guelfo, più avanti Emilia si lascia andare a sogni diuturni non differenti in confronto alle speranze sofferte per l’altro figlio, Rodolfo:

   “Speramo che Rodolfo abbi il su’ posto. Speramo che la Doria trovi un bravo ragazzo, co’ ’na posizione, uno che la facci sta’ bene”.

   Due frammenti d’inizio romanzo a titolo di esempio (la texture vernacolare riguarda alcuni personaggi che però parlano sempre in dialetto), per una partitura dialettale che investe, secondo una modalità trasversale, classi sociali basse (i Manfredi di Emilia, la madre, i figli, Doria, Salvatore e Rodolfo, la famiglia di Emilio, cognato di Emilia, Maria, la moglie, e i figli: Vittorio e Giulia) e classi sociali alte (i Puccini/Gemignani: Elvira, moglie del maestro, Fosca, la figliastra di Giacomo), con l’eccezione si è detto della lingua di Puccini o di quella magnifica  calcografia del Don Abbondio manzoniano, don Giuseppe, la cui lingua è l’italiano standard. Non esclusi dall’uso dialettale sono anche i personaggi comprimarî (anche nell’uso non dialettale, ad esempio l’amico di famiglia Mario Crespi, il medico di Torre, il dottor Giacchi) come Antonio Bettolacci, ad esempio, figura di intrigante faccendiere del luogo, e altri del bulicame antropologico di Torre del Lago.
   Se il narratore parla quindi una lingua alta, i personaggi popolari (e non) parlano una lingua bassa, la koinè del luogo. E se il narratore sale al sublimis, il personaggio del popolo (e quasi per contaminazione di classe, anche Elvira, Fosca…), tramite il discorso diretto si esprime attraverso una materia linguistica in cui il piscatorius rivela ancora di più la presenza di un narratore vigile, vigile al punto da rivivere – perché possiede una consapevolezza socio–linguistica del personaggio romanzesco –, attraverso la lingua autoctona, la lingua originaria del parlante del luogo. Rivive cioè la matrice dialettale fondando la sua prerogativa essenziale, controbilanciare l’italiano colto del narratore per un universo linguistico ibrido e una partitura lessicografica da romanzo totale, l’Elegia come modello di pastiche.    
   Non bisognerà immaginare però che l’oscillazione ossessiva tra la lingua alta del narratore e la lingua bassa del personaggio definisca il campo di una meccanicità stilistica, l’applicazione di una tecnica che alterna l’oggettività narratoriale della terza persona all’incursione socio–antropologica nel mondo del parlante vernacolare, con il relativo esito linguistico dialettale. Al contrario, l’intero universo stilistico dell’Elegia non è che volontà spregiudicata di lavoro sul prisma–parola, più ancora è insopprimibile desiderio di ricerca, lavoro di trovatore contemporaneo verrebbe da dire, o di spontaneo ma insopprimibile desiderio (e vocazione in Micheli) di allargamento del vocabolario rivelantesi, alla prova del lavoro, più che infinito, dalla sostanza infinibile. Ogni articolazione linguistica, per l’autore si fa quindi stile assoluto nel momento in cui il territorio lessicale è percorso per progressivo allargamento di confine. Micheli procede quindi per continui sconfinamenti, per successive ricollocazioni di sé dinanzi alla parola, parola che sola è il suo vero mito resistente (ed elettivo), poiché il momento poietico di Micheli è un atto di creazione vissuto come una sorta di nevrotizzato desiderio, la volontà di abbattere l’ideale limite oltre il quale continuare a scrivere significa di necessità veder scomparire le parole già scritte allo stesso vertiginoso ritmo con cui germinano, o dovranno venire alla pagina, nella formidabile inventio, nella meravigliosa variatio  dello scrittore viareggino, nuove parole da scrivere, nuove parole per continuare a scrivere.
Neil Novello




   [1] Così la lingua inglese: «middle–class», «seventy’s», «fading», «frame by frame», «golden west», «copyright», «stalked», «peacekeeping motion», «exciting fear», «sudden vision», «wrapped up», «sleepy», «waked up feverish», «local patois of some three hundred words», «shores», «whispering voice», «girl», «miners and thieves», «filled», «whith busy laught», «goes fading», «drowned in the deep layers», «wise appeasement», «hidden nought», «stillness waiting for a waste by armed crowds», «trust», «towards the exit», «businnes», «streets», «lift», «faraway raped», «on a regale leisure», «impassioned», «whispered»,  «local behaviour», «by selfconsciousness drawn», «reception», «trench», «more then businesslike», «on the stormy blowing gust», «in their pecking order», «with three hundred words outspoken», «wireless connected», «worried and troubled shoes», «braving the priest», «vanishing point», «trench», «worried stillness», «standing», «stillness», «vanishing among the trees», «understatement and walking out with seeming leisure», «golden west», «revolver», «paddock», «and to start from the scratch line», «but from themselves impassioned», «following the men».
   [2] Così la lingua francese: «là–bas», «décor», «dans le labyrinthe boueux de la matière», «frissonnantes», «milieu», «déraciné», «allure», «bruit», «promenade», «chez le blême», «avec un clin d’œil», «À l’interieur», «liaison», «tour à tour», «entre elles», «rendez–vous», «à cloche», «assiettes et serviettes», «distingué jeune hommes», «su une blasonnée fauteuil», «tout à coup», «qui frisonne», «pendant heures effacées et paresseuses», «voilettes», «le long du coulant rideau de la rue», «foulard», «saisissant», «charme», «nuancés bouillons, les manches à gigots», «ravi en pursuivant», «tapissée», «chez soi», «effort», «réflechir», «entourage», «chalet», «octroyant», «maître à venir», «trance», «attaché», «fiacre», «foyer», «élite», «decolletés», «suite», «vis à vis», «tout bas», «characters», «à l’heure exquise», «entre loups et chiens», «en patinant merveilleusement, s’élançant qu’impetueusement, r’arrivant si joliement vraiment», «trasaillants», «à quattre pattes», «en plain air», «du coté de la mer», «à raglan», «rêveries», «très blasé et réflexif», «le dernier cri…», «ralentissante tandis qu’il approchait sa cible», «flottant», «vêtue d’une robe charmante», «jouer avec les enfants qui si cachaient derrière les fauteuils et qui souriaient charmants parmi les livres; et sa femme était la muse de ses rêves domestiques», «paletot», «tout en rêvant», «jaillissants», «à cloche», «ballon», «clin d’œil», «brilliants de vitesse», «une goyesque gravure eternée de désespoir», «dans un coinstot anonyme de la chambre», «affreux et rôdeurs», «gaffe», «en redoutable hasard», «dans la morne queue», «frémissante la voix, pareille aux arbres qui frissonnent dans les bosquets d’enfance».
   [3] Così la lingua spagnola: «para abuscar la voluntad divina».
   [4] Così la lingua tedesca: «unheimlichen», «Erfahrungen», «im tiefen Walden», «in stiller Fabrik ölend».
   [5] Così il modello anglo–francese o franco–inglese: «stood in leisure, très blasé», «dreams and rêves», «rafales and raining winds», «like gentleman et dame», «détournante and painful», «distingué gentleman».
   [6] Così il modello ispano–inglese: «rebanho de hierro, hideous snake of iron and misty breath».
   [7] Così il modello franco–tedesco: «liaisons dangereuses und Wahlverwandtschaften».
   [8] Così il modello anglo–italo–francese: «club della Bohème».
   [9] Così la lingua greca: «kairòs», «alètheia», «tèmenos», «ỳbris», «kalòs», «kakòs».
   [10] Così  lingua latina: «ad altiora», «intra moenia», «jubilate!», «gentes», «pater familias», «fabula», «negotia», «natu maior et vir optimus inter fratres», «Ad majorem dei gloriam», «alebant», «foedus», «Pascendi dominici gregis incipiebat», «climax», «voces populi», «socius», «genius loci», «a cornu evangelii», «socius loci», «numen», «ex abrupto», «quidditas», «incipit».
   [11] A rigore, il personaggio di Giacomo Puccini e il personaggio di Don Giuseppe, il parroco di Torre del Lago, utilizzano la lingua italiana, anche nel caso di un interlocutore dialettofono. Ma qui si resta nella “storia” di Torre del Lago. Guardando alla “Storia”, ad esempio all’inserto di diplomazia internazionale riguardante l’incontro tra Giovanni Giolitti, presidente del consiglio del Regno d’Italia, e Alois Aerenthal, il ministro degli esteri di Francesco Giuseppe, il ministro austriaco, con l’ausilio di un interprete, potrà parlare al politico italiano utilizzando la lingua tedesca o, per altri versi, nel viaggio parigino di Puccini (per la prima della Tosca all’Opéra) la memoria di un paio di frammenti in lingua francese pronunciato da un «contadino lorenese», compagno di viaggio del maestro.   
[12] Così: «U picciriddu havvi fattu i soi bisonni ne li mutanni. Addumanna a l’infermeri si potimmi jiri a u ciumi ppi si lavari».


Due citazioni di "Indie occidentali"

Due citazioni di Indie occidentali (Campanotto, Udine 2008) di Giancarlo Micheli
a cura di Flaminio Di Biagi (Loyola University)

“In campo letterario si è colmata qualche lacuna, sia con best-seller (Vita di Melania Mazzucco o Pane amaro di Elena Gianini), sia con romanzi poco distribuiti ma ben più significativi (I quattro camminanti di Rodolfo Di Biasio, oppure l’ottimo Indie occidentali di Giancarlo Micheli).”
da Flaminio Di Biagi, Italoamericani (Le Mani, Recco 2014; nota 55, p. 146)

“Tra gli autori la cui narrativa ha toccato retrospettivamente il tema dell’emigrazione sono almeno da menzionare Silvana Grasso, Enrico Franceschini (Voglio l’America), Alessandro Baricco (Novecento), Mariolina Venezia, Sergio Campailla (Romanzo americano, 1994), Gaetano Cappelli, Mimmo Gangemi. In Il cameriere di Borges (Fabio Bussotti, 2012), tra i migliori gialli italiani degli ultimi anni, c’è un retrogusto italiano d’Argentina. Più autori si soffermano sugli Stati Uniti, luogo che evidentemente consente di mescolare il passato e il moderno, il magico e il futuribile; per questo abbondano i personaggi italo-americani. Tra i testi più compiuti c’è Lettere a Manhattan (1997) di Manlio Cancogni, definito un’elegia di Little Italy: narra di una curiosa quanto inutile crociata per conservare la lingua italiana tra gli italoamericani in un quartiere che scompare; e c’è Indie occidentali (2008) di Giancarlo Micheli, linguisticamente interessante, di forte impatto morale e che offre una buona ricostruzione di realtà di Little Italy come la comunità operaia e libertaria di Paterson nel New Jersey, dove molti italiani lavoravano nelle industrie tessili.”

da AAVV, Dizionario enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo (SER, Roma 2014; p.1137)