mercoledì 14 ottobre 2015

GLI ANNI DI ANDRÉ MALRAUX

IL TEMPO CHE IL COLONIALISMO HA FATTO

articolo di Giancarlo Micheli pubblicato su Il Ponte - rivista di economia e cultura fondata da Piero Calamandrei (anno LXXI, n.10 - Ottobre 2015)

L’attuale esodo di umanità afflitta che dall’Africa, reduce infelice degli stupri etnici ed economici della foia colonialista, assedia nel presente la “fortezza Europa”[1] con la calamitosa minaccia le cui proporzioni, in altre epoche, non si sarebbe esitato a definire bibliche, dà la stura ad un succedaneo profluvio di opinioni da parte di una compatta ed eteroclita falange di commentatori, ai quali le vecchie e le nuove assiologie della dominazione ideologica garantiscano facoltà di vendere cara, se non la propria pelle, almeno l’aria che ne scaturisce come da vesciche gonfiate, nient’affatto dal ruach giudaico o dal ki taoista, bensì dal gas convogliato in condotte transcontinentali o transoceaniche, le quali disegnano la geografia del mondo contemporaneo, ne tracciano le mappe delle psicologie sociali – lo rammenti il lettore, e valuti se non sia il caso di osservare, secondo la consuetudine invalsa relativamente a funerali di Stato ed altri solenni lutti civili, un minuto di silenzio, ogniqualvolta venga comminato di assistere al sadico spettacolo di uno zelante chiacchiericcio, tutto votato al redditizio scopo di divagare con compita o esuberante sicumera. Far cadere un velo di silenzio su tale ridda di discorde vanità, quand’anche possa non apparir pietoso, è un atto salutare al benessere dello spirito, il quale consiste nella ricerca della verità, unita alla bellezza ovunque sia possibile.
Ora, al pari di quanto sarebbe consigliabile a chiunque sappia cosa fare della democrazia, mi conterrò entro limiti specifici, così da affrontare il tema sotto l’unica prospettiva che ritengo umanamente necessaria, quella della poesia. Del fatto che il colonialismo occidentale, nelle sue varie tipologie nazionalistiche, sia stato caratterizzato da un originario impulso predatorio delle risorse dei popoli colonizzati e dei relativi territori ebbe precoce consapevolezza un poeta le cui scelte politiche ed esistenziali sarebbero poi state così tenacemente implicate nelle contraddizioni del suo tempo quanto agli effimeri simulacri della persuasione sopra le ribalte mediatiche oggi in vigore non sarà più concesso. Al principio degli anni Venti del secolo scorso, appena ventiduenne, André Malraux lasciò la nativa Parigi per l’Indocina, con l’intento di appropriarsi di qualche fregio delle sculture khmer da rivendere ai collezionisti. Trovò quel che faceva al caso suo presso il tempio di Banteaï Srei ma, colto in flagrante dalle autorità di polizia, venne condannato per saccheggio di beni archeologici. Scontata la pena, decise di far ritorno a Saigon per fondarvi, forte dei consensi guadagnati in patria in seguito al dibattito giudiziario, un quotidiano, L’Indochine enchainée, dalle cui colonne si fece feroce critico dell’amministrazione coloniale e fiero assertore dei diritti degli autoctoni. Nel decennio che seguì all’eclatante iniziazione ai fastigi della celebrità egli inanellò l’ispirata trilogia orientale, il cui ultimo gioiello, La condition humaine, gli valse un ormai non insperato premio Goncourt e la conseguente consacrazione, sullo scorcio dell’annus horribilis che era iniziato con l’incendio del Reichstag e la Machtergreifung. Ai tre romanzi aggiunse un breve racconto in forma epistolare, La tentation de l’Occident, pubblicato nel 1926 dall’editore Grasset, dove esprimeva, grazie agli strumenti dell’intuizione lirica, una consapevolezza della concezione orientale del mondo che sarebbe vano pretendere dagli odierni tecnocrati del capitalismo globale. Il personaggio del giovane intellettuale cinese Ling, in viaggio di istruzione in Europa, vi scriveva al proprio alter-ego e corrispondente, il francese A.D., impegnato in uno speculare tour da Canton a Shanghai: “l’idea stessa dell’esistenza individuale era così debole presso di noi che, fino ai tempi della Rivoluzione, i genitori erano puniti assieme ai loro figli per i reati che questi avevano commessi a loro insaputa. Le forme successive di un’anima non hanno tra loro altro rapporto che quello che hanno la nuvola e le piante che la sua pioggia fa crescere”[2]. E di quella civiltà millenaria, i cui fondamenti Ling ribadiva riposare non già sul concetto di individuo quanto piuttosto  su quello di identità collettiva, poiché “affinare in se stessi la sensibilità della propria razza, andare incessantemente, esprimendola, verso un piacere superiore, ecco la vita di quelli tra di noi che voi chiamereste maestri”[3], di tale antica cultura il giovane Malraux presagiva il vicino dissolvimento, non a causa della volontà di sopruso peculiare al barbaro mondo giudaico-cristiano, non della forza aggressiva delle sue personalità molteplici, tutte responsabili di corroborare con le rispettive azioni la grandezza di un unico Dio che ciascuna finge a propria immagine, bensì in forza di un’autentica decadenza antropologica, della degenerazione, in atto tanto ad Oriente quanto ad Occidente, nell’universalista società di massa di cui ogni membro, parassita dell’organismo umano, mai avrebbe tollerata la sublime sensibilità del saggio taoista o confuciano, se ne sarebbe al contrario ritratto con tanto ribrezzo da scatenare su di sé un flagello di fuoco quale l’Onnipotente su Sodoma e Gomorra pur di non lasciarsi contaminare da una così aliena perfezione. Del resto, il tòpos della lotta dell’uomo con la morte ed il Leitmotiv del suicidio, eminenti riflessi condizionati della psiche borghese, ritornano in maniera ossessiva lungo tutti i romanzi della giovinezza malrauxiana: nell’avventuriero Perken divorato dalla cancrena dentro al dedalo antropofago della foresta annamita, nell’oppiomane Gisors, indimenticabile martire di un profetico connubio di marxismo e confucianesimo, dal fornello della cui pipa una nube densa e grigia aleggia sul massacro dei marciapiede di Shanghai, mentre attorno si spande lo stesso tanfo di carbone e zolfo che oggi opprime le città litoranee della Cina industriale, le avviluppa di compatte caligini in breccia alle quali alcune avveniristiche pagode s’immergono nel cielo violetto dell’oriente come in un sogno invertito.
Alla metà degli anni Trenta, colui che si era cimentato con tempestività ed efficacia nell’arte di esprimere “il discorso dell’altro nella lingua altrui”[4], aveva accumulata sufficiente esperienza della vita sotto l’accezione borghese da aver chiaro che l’Armata Rossa fosse l’unico baluardo in grado di arginare l’onda lutulenta del militarismo nazista, in cresta alla quale sussultava il vecchio e lordo cuore d’Europa. S’ingaggiò pertanto nel movimento degli scrittori internazionalisti, fautori dell’amicizia franco-sovietica. In una temperie spirituale che ormai presagiva gli imminenti inabissamenti della civiltà, dinanzi alla platea di menti scelte convenute alla Mutualité per ascoltare il suo infine autorevole resoconto sullo stato della letteratura e della società sovietica, egli dichiarò:

Io non credo a qualche misteriosa bellezza platonica che attraverso i tempi alcuni artisti privilegiati arrivano ad attingere, ma ad un rapporto che si stabilisce tra le sensibilità e i bisogni che esse hanno di essere espresse e, in tal modo, giustificate. Questo problema sta al centro di tutto il pensiero artistico occidentale e si può dire che l’arte della civilizzazione borghese gira più o meno attorno ad esso.[5]
Due mesi prima, intervenendo presso il Congresso degli scrittori sovietici tenutosi a Mosca nell’agosto del 1934, aveva detto che “l’arte non è una sottomissione, è una conquista”, “la conquista dei sentimenti e dei mezzi per esprimerli”[6], sentenze il cui fascino oggettivo arricchì l’antico genere aforistico in virtù del contesto di passioni palingenetiche che la Storia avrebbe presto riannesse al proprio corso, per somministrarle, appena oggi, in dosi stimolanti premature nostalgie. I timori che, fin dai primi decenni del diciannovesimo secolo, un liberale perspicace ebbe la schiettezza di paventare riguardo all’equivalenza tra democrazia e dittatura della maggioranza quale si sarebbe instaurata nel regime capitalistico[7], andarono avverandosi sotto molte condizioni aggravanti, cosicché non era affatto peregrina la tesi di chi, un secolo dopo, riscontrasse come l’unica libertà concretamente concessa all’individuo fosse quella di opprimere se stesso secondo le personali inclinazioni e l’indole genericamente persecutoria di leggi e consuetudini. Al rientro in patria, pertanto, Malraux volle essere caustico e schietto nell’estrapolare dal recente discorso moscovita un’immagine suggeritagli dalle riflessioni su una vedette della nascente società dello spettacolo, passibile già allora di un culto pressoché ecumenico, e la volse così all’uditorio dei connazionali:

Esiste presso di noi un’arte totalitaria, c’è davvero un artista che, se fosse in questa sala, potrebbe come qualsiasi artista sovietico a Mosca, dire: “Voi mi conoscete, e mi ammirate tutti, ciascuno alla sua maniera”, è Charlot. L’accordo degli uomini dinanzi ad un’opera d’arte non si compie più in Occidente che nel comico e noi non ritroveremo comunione reale altro che per ridere di noi stessi.[8]
Il carattere di colui che, a pochi mesi di distanza dall’annessione hitleriana della Renania, si accinse ad un secondo esordio, tra i clamori adesso decisamente marziali del teatro di guerra spagnolo dove andò a girare il film tratto dal suo romanzo L’Espoir, una sorta di precursore istant movie sull’eroismo internazionalista, lo destinava ad azioni tempestive ed intrepide, sovente contraddittorie e persino ambigue, tant’è che, ancor prima di volare a Madrid al comando di una squadriglia di bombardieri ottenuti su diretta intercessione del Ministro francese dell’Aviazione, i quali avrebbero dato un esiguo contributo alle deboli forze aeree del governo di Largo Caballero ma fornito il profilmico degli apparecchi che la sceneggiatura prescriveva, egli era ritornato sul tema dell’arte novissima, nella circostanza del Congresso londinese dell’Association internationale des écrivains pour la défense de la culture, stavolta per chiarire, in un registro altrimenti ponderato e loico, i nessi teorici di lei con i pregiudizi della tecnica e la psicologia delle masse:

 L’eredità culturale non è l’insieme delle opere che gli uomini debbono rispettare, ma di quelle che possono aiutarli a vivere. […] Ora, l’arte delle masse è sempre un’arte di verità. Poco a poco le masse hanno cessato di andare all’arte, di incontrarla sulle pareti delle cattedrali; ma oggi si riscontra che, se le masse non vanno all’arte, la fatalità della tecnica fa sì che l’arte vada alle masse. Ciò è vero sia nei paesi democratici sia in quelli fascisti o comunisti, sebbene non allo stesso modo. Da trent’anni a questa parte ogni arte ha inventato i suoi strumenti di riproduzione: radio, cinema, fotografia. Il destino dell’arte va dal capolavoro unico, insostituibile, macchiato dalla sua riproduzione, non solo al capolavoro riprodotto ma all’opera realizzata per la propria riproduzione a tal punto che il suo originale non esiste più: il film. Ed è il film che incontra la totalità di una civilizzazione, quello comico con Chaplin nei paesi capitalisti, tragico con Eisenstein nei paesi comunisti, e presto guerriero nei paesi fascisti.[9]
Poco oltre, nel testo che sarebbe stato pubblicato sulla rivista Commune a Settembre, quando l’insurrezione di Barcellona e l’afflusso dei primi rivoluzionari internazionalisti segnavano un apice del movimento rivoluzionario continentale, Malraux precisava i criteri dirimenti del proprio antifascismo:

Io non dico che un’azione di governo non possa esercitarsi nel senso degli elementi negativi o miserabili delle masse, ma dico che l’artista non fa opera d’arte che quando ha incontrato, lui, l’elemento positivo e creatore d’esaltazione. Come tutte le trasformazioni capitali, quella della nostra civilizzazione inquieta l’artista perché essa gli domanda delle scoperte totali, perché lo costringe al genio. Ma io credo che la folla possa essere feconda per l’artista, perché l’artista non riceve da essa che la propria potenza di comunione. […] Una civilizzazione è davanti al passato come l’artista davanti le sue opere d’arte che l’hanno preceduto. Egli si aggrappa a questa o a quell’opera dei grandi, al museo o in biblioteca, nella misura in cui essa gli permette di meglio realizzare la propria opera. Gli oggetti che vengono considerati belli cambiano, ma gli uomini e gli artisti chiamano sempre bellezza tutto ciò che permette loro di esprimersi meglio, di superare se stessi. L’uomo non è sottomesso alla sua eredità, è la sua eredità che gli è sottomessa.[10]
L’umanesimo attualista propugnato in tale passo giustificò nella cognizione di chi lo ebbe enunciato la scelta che ai più parve un sorprendente voltafaccia, a molti un tradimento in piena regola, allorché, al termine della guerra, una volta operata la spartizione tra i due blocchi ideologicamente contrapposti del capitalismo di Stato e del capitalismo tout court, egli venne folgorato dalla rivelazione del nazionalistico paracleto che gli si manifestò sotto le sembianze del generale de Gaulle, allo sfondo delle cui masse patriottiche del Rassemblement du Peuple Français sovrimpose dapprima la propria silhouette in occasione di comizi e raduni, per poi essere investito dei ruoli governamentali di Ministro dell’Informazione ed infine della Cultura, a più riprese fino al 1969, longevo nell’impegno di replicare iniziative audaci e di forte impatto mediatico, sulla medesima stregua di quanto inaugurato nell’anteguerra, sin dal 1931, quando aveva ideato, ad esempio, un’esposizione di sculture gotico-buddiste e, recatosi personalmente in Pakistan a reperirvi esemplari del sincretismo artistico sorto presso quei popoli soggetti alle conquiste di Alessandro il Grande e poi di Mahmud di Ghazni, l’aveva quindi fatta allestire presso la galleria della Nouvelle Revue Française, sotto l’egida, allora, di Gaston Gallimard, editore storico della sinistra borghese.
L’arte sorgiva, quella che nasce dalle sensazioni che accompagnano il compimento di una convalescenza e l’inizio di una guarigione, insegna alle donne e agli uomini a vivere meglio. Nell’autunno del 1972, quando lo psichiatra Louis Bertagna, che l’aveva in cura da prima degli scioperi del maggio 1968 e della sconfitta di de Gaulle nel referendum dell’anno successivo, suggerì a Malraux un periodo di degenza alla Salpetrière, egli combatté, in ventinove giorni, un nuovo corpo a corpo con il tema decisivo della propria poetica. Ciò che scoprì lo conosciamo oggi da Le miroir des limbes, l’opera nella quale l’ortodossia dell’esegesi malrauxiana ha fondati motivi di ravvisare l’estremo capolavoro. Nelle prime pagine egli avvertì imperativo il bisogno di ritornare ad un soggetto già trattato negli anni della prigionia, ne Les Noyers de l’Altenburg, dove aveva narrato la devastazione causata dall’uso dei gas, il bromuro di xilile nella fattispecie, sperimentato dall’esercito tedesco durante le Grande Guerra contro le trincee russe sulla Vistola. Nel panorama desolato che era apparso al protagonista una volta dissoltasi la lugubre nube, come il riverbero degli ultimi raggi nel crepuscolo aveva brillato ancora il mito epico della fraternità, mentre i soldati alsaziani rientravano alle loro linee con sulle spalle i nemici sopravvissuti, incespicando tra i corpi delle vittime e la vegetazione putrefatta o pietrificata.

L’ultima coscienza non ha niente in comune con il ricordo dei nostri atti, né con la rivelazione dei nostri segreti. Non si è la propria storia per se stessi. L’Asia ha numerose volte presentito che il problema capitale dell’uomo è scegliere un’“altra cosa”. […] Ciascuno articola il proprio passato per un interlocutore inattingibile: Dio, nella confessione; la posterità, nella letteratura. Non si dà biografia che per gli altri.[11]
In quel denso testo saggistico, contraddistinto dalla mai banale sontuosità peculiare al suo stile, Malraux esplorò i confini metafisici della volontà creativa, affiorando al di là delle nebbie della rappresentazione come la luna dal notturno preludio della propria sterile antichità, dove le immagini dissolvevano l’una nell’altra attraverso gradienti delle sensazioni sempre più tenui e prossimi al torpore definitivo, dal momento che “il cadavere è garante del nulla. Perché questo nulla, contro il niente dell’impensabile, è l’ultima forma della sopravvivenza. […] L’impensabile non è ciò che ci è nascosto. Esso non implica la nostra impotenza, non implica NIENTE”.
Provato dai lutti familiari e dalla malattia, egli dette l’impressione di un vecchio narcisista e millantatore al presidente Nixon, allorché gli era stato indicato quale confidente di Zhou Enlai e dello stesso Mao Zedong sin dai giorni de La comedie humaine e aveva dunque deciso di interpellarlo nel frangente in cui si risolse a patteggiare con il governo cinese, così da produrre le condizioni che avrebbero legato il debito americano alla struttura economica installata in luogo del Celeste Impero, perno della diplomazia finanziaria su cui stridono oggi i critici equilibri dell’imperialismo globale. A dispetto dei segni lasciati nella memoria del trentasettesimo presidente degli Stati Uniti, quasi certamente Malraux avrà comunque ricordate, senza  poterle portare con sé nel silenzio perenne cui sarebbe approdato da lì a poco, le frasi pronunciate da Lev Trotzky in una conversazione di quarant’anni prima:

Gli Americani abbandonano sempre di più la politica della porta aperta in Cina. Saranno spinti a prendere la Cina puramente e semplicemente. […] La Cina colonia americana, la guerra con il Giappone è inevitabile.[12]
Il segretario di Stato Henry Kissinger, sebbene gli riconoscesse sufficiente intuito per aver previsto un inevitabile riavvicinamento tra Cina e Stati Uniti, avrebbe poi rimproverato al poeta del Miroir des limbes un’indole di bugiardo patologico, dedito ad edificare il mito di una personale grandeur piuttosto che a servire gli interessi di una politica razionale[13]; certo è che l’opera di lui ha tracciati sentieri sui quali ancora oggi chi lavora a creare la coscienza di specie e la fraternità tra i popoli si incamminerà per qualche tratto, e se egli guadagnerà una marginale apoteosi, che potranno magari tributargli i seguaci della religione sincretista del caodaismo accogliendone l’icona nel loro pantheon di Tay Ninh assieme a Buddha, Laozi e Victor Hugo, lo stesso non accadrà per i burocrati virtuali che calcano la scena di regime della mendacità tecnicamente organizzata affinché il nulla abbia sovranità sui caratteri e i destini. Suscitando tuttora una plausibile fiducia nei cuori schietti e nelle menti attente, egli ci osserva dallo spartiacque della preistoria umana, prima del quale quanti ebbero voce in capitolo poterono mentire con persuasione, laddove, da lì in poi, essi hanno mentito soltanto per disciplina e conformismo.




[1] Ricorriamo qua, con la debita ironia, ad un’espressione invalsa nella vulgata giornalistica, con l’esplicita intenzione di alludere al contesto storico che ne conobbe, dapprima, l’uso da parte della propaganda nazista durante la Seconda Guerra mondiale.
[2] André Malraux, La tentation de l’Occident, Grasset, Paris 1926; le traduzioni dei testi citati sono a cura dell’autore dell’articolo.
[3] Ibidem.
[4] Michail Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino 1988.
[5] André Malraux, La politique, la culture – discours, article, entretiens 1925-1975 (presentés par Janine Mossuz-Lavau), Gallimard, Paris 1996. Discorso pronunciato a Parigi, il 23 Ottobre 1934, alla riunione di resoconto del Congresso degli scrittori sovietici, pubblicato con il titolo L’Attitude de l’artiste sul numero di Novembre 1934 della rivista Commune.
[6] Ibidem. Discorso pronunciato al Primo Congresso degli scrittori sovietici, tenutosi a Mosca dal 17 al 31 Agosto 1934, pubblicato con il titolo L’Art est une conquête sul numero di Settembre-Ottobre 1934 della rivista Commune.
[7] Alexis de Toqueville, De la démocratie en Amérique, Gosselin, Paris 1835-1840.
[8] André Malraux, La politique, la culture – discours, article, entretiens 1925-1975 (presentés par Janine Mossuz-Lavau), Gallimard, Paris 1996. Discorso pronunciato a Parigi, il 23 Ottobre 1934, alla riunione di resoconto del Congresso degli scrittori sovietici, pubblicato con il titolo L’Attitude de l’artiste sul numero di Novembre 1934 della rivista Commune.
[9] Ibidem. Discorso pronunciato a Londra, il 21 Giugno 1936, al segretariato generale allargato dell’Associazione internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, pubblicato con il titolo Sur l’héritage culturel sul numero di Settembre 1936 della rivista Commune.
[10] Ibidem.
[11] André Malraux, Lazare – le miroir des limbes, Gallimard, Paris 1974.
[12] André Malraux, La politique, la culture – discours, article, entretiens 1925-1975 (presentés par Janine Mossuz-Lavau), Gallimard, Paris 1996. Articolo pubblicato, con il titolo Trotzki, sul quotidiano Marianne del 25 Aprile 1934.
[13] Henry Kissinger, The White House Years, Little, Brown and Company, New York 1979.