venerdì 1 aprile 2016

Global warming, febbre agonica della tecnocrazia liberista

articolo di Giancarlo Micheli
pubblicato nella rivista Il Ponte - rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei (Anno LXXII, n.3 - marzo 2016)



A pensar bene – prassi che non si può sostenere senza mendacità sia stata la passione predominante in ogni individuo che sia vissuto ed in ciascuna epoca della storia –, l’assillo che il regime economico globale pone oggi a se stesso in merito agli sconvolgimenti climatici ed alle componenti antropiche della loro genesi dichiara, nei fatti, il fallimento del capitalismo. Gli apparati che distribuiscono opinione e scienza impetrano, con la querula ipocrisia che è loro congeniale, l’attuazione di principî di pianificazione economica, alieni alla natura del modo di produzione che seduce e mobilita la specie da alcuni secoli a questa parte; ne risulta una dilacerante contraddizione intestina per questo organismo surrettizio, il quale pur tuttavia si dibatte nelle lacrime e nel sangue viventi, quasi fosse l’unico degno di fede di tutti i corpi che avvelena e gli intelletti che corrompe. Ciò significa forse che la dialettica materialista compia effettivamente il proprio corso storico necessario? Che il capitalismo, all’evenienza degli attriti in intrinseche contraddizioni, riformi se stesso in direzione di una progressiva Aufhebung delle proprie verità durevolmente parziali? Rispondere affermativamente equivarrebbe ad anteporre gli ottativi di un cuore malato alla consapevolezza della mente la quale conservi la capacità di diagnosticare l’infermità del primo e quella che gliene deriva per effetto collaterale. La dominazione ideologica è, appunto, il Moloch che si nutre di ogni palpito e secrezione dell’ingegno umano, la digerisce nelle proprie viscere nocivamente salubri, per eternarsi in una natura fittizia, prevaricatrice della reale ed autentica. Colui che ravvisasse la pertinenza alla generale temperie cognitiva, quale si manifesta nelle attuali forme mediatiche di indottrinamento, di ciò che Karl Marx dichiarava a proposito del rappresentante del socialismo piccolo-borghese, Joseph Proudhon, in una lettera pubblicata all’indomani della morte di lui, avrebbe la buona sorte di fiutare un indizio sui luoghi retorici ove sia andato a parare il culto della personalità, tanto in voga presso le dittature novecentesche, una volta che esso sia stato assimilato dai processi metabolici del vigente sistema tecnocratico, la cui prerogativa non è più quella che ebbe all’aurora della critica marxiana, di estrarre plusvalore nelle condizioni sociali di produzione, bensì quella pervasiva di postulare la specie come riserva massiva destinata alla maggior gloria del medesimo scopo, quando il pluslavoro è comminato ai produttori finanche nel tempo che venne dapprima percepito feriale e definito, tramite un doloso solecismo, libero:

Proudhon ebbe una naturale inclinazione per la dialettica. Ma poiché non comprese mai la dialettica scientifica, egli non andò mai oltre il sofisma. Esso è infatti congenito al suo punto di vista piccolo-borghese. Come lo storico Raumer, il piccolo borghese è fatto di da una parte e di d’altra parte. È così per quel che attiene ai suoi interessi economici e, pertanto, alle sue opinioni politiche, religiose, scientifiche e artistiche. Allo stesso modo nella sua morale, IN TUTTO. Egli è una contraddizione vivente. Se, come Proudhon, egli è inoltre un uomo d’ingegno, imparerà presto a giocare con le proprie contraddizioni e a svilupparle in accordo alle circostanze in eclatanti, pretenziosi, ora scandalosi ora brillanti paradossi. Il ciarlatanismo nella scienza e il compromesso in politica sono inseparabili sotto un tale punto di vista. Esiste una sola ragione di governo, la vanità del soggetto, e la sola questione per lui, come per tutte le persone vanitose, è il successo del momento, lo scalpore del momento.[1]

Il governo dei poteri economici sull’economia planetaria, cui offrono supporto e convalida in guisa di apparati ideologici non solo le istituzioni statali ma soprattutto gli stessi cartelli industriali e finanziari che impongono ad esse agende e protocolli, assume nei confronti delle criticità, quali si manifestano nello sviluppo della propria sovrana dinamica, il punto di vista dell’uomo-massa, così da ingenerare il corto circuito per cui l’opinione piccolo-borghese (da intendere nell’accezione marxiana di cui sopra) divenga il valore cognitivo al passo con i tempi, il quale identifica i dogmi della fede con i postulati della scienza, con buona pace del secolo liberale che elaborò come astrazioni il principio di falsificabilità ed altri sottili criteri ermeneutici.
Nel 1988 le Nazioni Unite fondarono lo Intergovernmental Panel on Climate Change, i cui compiti statutari furono definiti dal triplice scopo di appurare quali siano i fondamenti scientifici dei mutamenti climatici, di valutarne l’impatto sui sistemi naturali ed umani, nonché di suggerire, infine, le strategie adatte a mitigarlo. Questo comitato di tecnici riflette le convinzioni maggioritarie nella comunità scientifica in merito ai cruciali dilemmi di loro competenza. Il contenimento delle emissioni dei cosiddetti gas ad effetto serra rilasciati nell’atmosfera in seguito al consumo dei combustibili fossili, che alimentano tutt’oggi la produzione energetica su scala globale in una proporzione stimata pari a circa l’80% della complessiva, è la raccomandazione che fu precocemente inoltrata alle autorità politiche, ma è chiaro come la luce del sole, oltre che incontrovertibile, il fatto che gli strumenti legislativi o giudiziari di cui esse dispongono abbiano una forza di indirizzo assai limitata nell’àmbito di un sistema pervasivo, che regola sul profitto le proprie basi assiologiche, giungendo ad ipostatizzare, alla stregua di tangibili manne dal cielo od altri viepiù succulenti appannaggi fatali, i favolosi ratei delle rendite finanziarie che, grazie all’impiego di sistemi di intelligenza artificiale, maturano, di attimo in attimo e finanche adesso, durante intervalli di tempo virtualmente infinitesimi. Esigere dall’attuale regime economico una qualsivoglia capacità di pianificazione a lungo termine equivale alla pretesa che gli animali da preda adattino il loro metabolismo perché acquisisca all’istante le medesime prerogative di quello di mansueti vegetariani. Ecco pertanto che, dopo un solo decennio dalla lodevole creazione dell’ente sovranazionale, tragedia dell’impotenza nella narrazione del capitalismo, sùbito la storia fu replicata come farsa nella stipulazione del Protocollo di Kyoto, tra i comma del quale, tutti di dimostrata inefficacia a sovvertire l’epocale tendenza apocalittica, non mancò il patetico meccanismo dello Emissions trading, la garanzia allo scambio di crediti di emissione tra gli Stati contraenti, cosicché si arrivò presto al revival della credenza nei beneficî della legge della domanda e dell’offerta, già cara ai fisiocratici ed agli economisti classici e tale da fare aggio, al presente, sull’ingenuità dei migliori selvaggi e l’ipocrisia dei peggiori speculatori che si avvalsero pure di quell’opportunità diplomatica per perseguire le politiche di decentramento produttivo verso i paesi cosiddetti emergenti, le quali ultime costituirono gli autentici punti di viraggio dell’attuale crisi sistemica, benché la si dissimulasse dapprincipio sotto le fragorose e tutt’altro che ineffettive esplosioni di bolle finanziarie. D’altronde, deve ancora nascere il genio diegetico capitalista in grado di persuadere le vittime della recente ondata di caldo, che colpì nel Maggio scorso l’India e con particolare recrudescenza l’Uttar Pradesh, in merito al fatto che gli equilibri geostrategici dell’imperialismo siano profondamente mutati rispetto ad un secolo e mezzo fa, quando le nocività del modo di produzione taylorista intraprendevano in sordina le prassi che oggi comminano, ante festum, la condanna ad un destino progressivamente penoso per le incolpevoli generazioni a venire; deve ancora essere partorito dai ventricoli della scienza e della tecnica della comunicazione il portentoso aedo che sappia rincuorarle e mostri loro, dati alla mano, quanto poco sia verosimile che si ripetano oggi  flagelli – per non trascegliere che un esempio paradigmatico – della misura di quello che, al deflagrare della Guerra Civile negli Stati Uniti, indusse i proprietari coloniali inglesi a convertire la tradizionale coltura del riso in piantagioni di cotone e juta, proficue a rifornire gli eserciti in lotta, tant’è che la susseguente carestia procurò nel solo Stato dell’Orissa un milione di morti, pari ad un terzo della popolazione totale. Pur tuttavia, in tale attesa, il capitalismo sa dimostrarsi inaspettatamente paziente e, quand’anche un simile messianico paracleto tardi a dar segno di sé, esso esibisce la calma dei forti, sembra dar quasi ad intendere di poterne persino fare a meno.
Negli Stati Uniti, patria del Primo Emendamento, non hanno fatto difetto nel frattempo investimenti intesi a conferire a scienziati dissidenti la facoltà di confutare le tesi egemoni in tema di mutamenti climatici. Ciò condusse presto a fruttuosi scandali mediatici, allorché si poté arguire che gli apostati risultassero in maniera sistematica sul registro dei pagamenti delle multinazionali petrolifere, la ragguardevolezza dei cui interessi rimane tale da non destare meraviglia nell’animo del common man laddove questi li sorprenda in flagrante bisogno di rappresentanza, ma è nondimeno sufficiente a dare succedanea soddisfazione all’offeso senso della giustizia di lui allorché egli constati come la legge, sebbene non sia davvero eguale per tutti, faccia egualmente il proprio corso anche contro lobbies agguerritissime, sicché per qualche settimana almeno quell’individuo qualunque si senta promosso ad uomo del destino in qualità di consumatore dell’informazione relativamente più vorace. Né la diatriba poté esaurirsi con vari salomonici arbitrati, giacché non latitarono esponenti della fazione scettica e negazionista, quali il geologo e meteorologo Reid Bryson, il quale avvertì il dovere di porre all’attenzione dell’opinione pubblica il commento secondo cui ci siano “molti soldi da guadagnare in questo settore e se vuoi essere un eminente scienziato devi avere molti studenti specializzandi e molte borse di studio”[2], le quali verrebbero assegnate con difficoltà a chi non si conformi alle posizioni dominanti, oppure il fisico dell’atmosfera Richard Lindzen, autore dell’affermazione, ardua da confutare in specie qualora spetti farlo al succitato common man, stando alla quale “il motivo per cui noi (gli Stati Uniti) sappiamo sistemare le cose (i mutamenti climatici) molto meglio del Bangladesh è perché siamo più ricchi”, nonché delle domande, tanto retoriche quanto gravide di futuro: “Non riterreste sensato assicurarsi di essere solidi e ricchi quanto più possibile? E che anche i poveri del mondo siano solidi e ricchi quanto più possibile?”[3].
È palese quale concetto corrisponda al significante povero nella contestuale cognizione del novello Prospero, cosicché egli sciorini un nitido esempio di contradictio in terminis con la disinvoltura che è odierno decoro misconoscere a guisa di autorevolezza: altro non sono che i gruppi di interesse extralegale della borghesia cosmopolita che nelle molteplici regioni del pianeta hanno acquisito, mai senza nequizia e corruttela, il diritto di rappresentanza degli umili ed offesi, sullo sfruttamento dei quali si ergono come sulla parte di loro proprietà di un generale cumulo di macerie. Evidente risulta, d’altronde, di che genere sia l’unica risposta che si debba dare dinanzi a tale recrudescente lubricità senile dell’imperialismo: esproprio diretto dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori, ed ancor più da parte delle masse proletarie e sottoproletarie dell’ecumene, spauracchio al cui cospetto tutti i saggi od inconsapevoli lacchè del sistema di avvilimento ed incretinimento in vigore oggi, che vorrebbero proseguire a deliziarsi alienando la verità in ossequio ai piani messianici del variopinto folclore religioso che è servito loro da provvidenza, tremano al pari di Isacco sotto alla lama paterna.
Non la raccapricciante inquadratura del sangue che assassini integralisti versano dalle giugulari delle vittime inermi è il nefando e l’osceno all’interno del profilmico del totalitarismo mediatico, bensì l’immagine della rivoluzione.
Rimane, dunque, necessario venga il mattino in cui le donne e gli uomini si alzeranno per conquistare la vita felice e giusta in questo mondo.
Intanto, non nel mero proposito di dirimere la querelle, il quale sarebbe vano nella prospettiva del profitto capitalistico, furono commissionate numerose indagini per classificare le tesi scientifiche riguardo agli sconvolgimenti climatici e sintetizzarle in prospetti statistici sulla cui base pure l’uomo della strada potesse farsi la propria idea. Quanto alle azioni mediante le quali partecipare alla soluzione del problema, costui attese e ricevette doni insperati, dal momento che ogni eventuale sacrificio personale, quand’anche servisse mai a qualcosa, gli sarebbe stato richiesto in forme indirette e per così dire subdole, mentre nel resto della sua vita passabilmente miserabile non lo si sarebbe onerato di particolari coercizioni, tanto da permettere si cullasse nel sogno del benessere e di succedanee comodità. Nel novero di codeste, egli poté contare l’allettante occasione di mettere in fila la propria vanità assieme a tutte le altre, di esprimerla sui più innovativi social networks, in libertà così permutabile e trasparente da costellare lo spazio virtuale di impliciti consensi all’ordine impersonale degli stati dell’arte loro, tramite procedure non dissimili a quelle cui si piegarono con disciplina qualificati uomini di scienza quando dovettero confessare, ovvero tacere, le proprie cognizioni in merito ad imminenti catastrofi antropologiche. Non gli furono, inoltre, risparmiati messaggi pubblicitari volti a finanziare progetti filantropici in paesi colpiti da desertificazioni o inondazioni, dai quali non senza orgoglio si sentì chiamato in causa, fiero in fin dei conti di poter elargire di tasca propria quel minimo obolo che bastasse a calmierare il pungolo della coscienza morale, assai compunto e quasi trafitto da compassione, abbastanza perché non avvertisse stimoli sediziosi a rivendicare che prendessero direttamente a cuore la faccenda le multinazionali da cui lui o qualcuno tra i suoi conoscenti, anche stimati, ricevette il salario e le quali avevano depredate per decenni le risorse di quelle terre afflitte, dove i bambini muoiono ancora di fame.
“Il fatto è che in una società fondata sulla miseria, i prodotti più miserabili hanno la fatale prerogativa di servire all’uso della maggioranza”[4] scriveva Karl Marx nel 1847, prendendo a bersaglio ancora una volta Pierre-Joseph Proudhon, al cui recente Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère contrappose il proprio  Misère de la philosophie, giusto negli anni nei quali si cominciò a registrare la temperatura del pianeta e a redigere pionieristiche diagnosi delle sue febbri climatiche. Se anche maggiori cataclismi non venissero a suffragare le meglio aggiornate che seguirono da oltre centocinquant’anni a questa parte – asserzione che chiunque si troverebbe in difficoltà a pronunciare in termini apodittici malgrado lo si sollecitasse con laute ricompense –, quelli finora patiti bastano a rivelare l’istinto di morte che sta alla base della civiltà quale viene tecnicamente organizzata nel sistema oggi in vigore. Perché sia possibile invertire la china avanti che precipiti fino alle  imminenti crisi dove la specie preconizza il destino dell’estinzione, è necessaria, oggi, una rivoluzione mondiale e internazionalista. Solo una forza superiore alla violenza di cui il regime si avvale sarà in grado di rovesciarlo e dare un avvenire reale alle future generazioni, la forza della poesia che “trasforma il mondo” e “cambia la vita”.




[1] Lettera di Karl Marx a Johann Baptist Schweitzer del 24 Gennaio 1865, pubblicata in Der Social-Demokrat, n.16-17-18 del 1-3 e 5 Febbraio 1865.
[2] Hooey Denier Deniers, Debra Saunders in Real Clear Politics, 24 Giugno 2007.
[3] How dangerous is Global Warming?, dialogo in Los Angeles Times, 17 Giugno 2001.
[4] Misère de la philosophie. Réponse à la philosophie de la misère de M. Proudhon, C.G. Vogler, Brüssel / A. Frank, Paris, 1847. Ed. it. in Karl Marx-Friedrich Engels, Opere VI, a cura di Fausto Codino, Editori Riuniti, Roma 1973.




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UNA BIOGRAFIA DELLA NAZIONE MESSA IN SCENA NEL TEATRO DEL CAPITALE

articolo di Giancarlo Micheli
pubblicato nella rivista Cultura e Prospettive (n.29; Ottobre-Dicembre 2015)


 Ad avvicinarne i simulacri nei quali, durante ogni presente che il fiume della Storia abbia lambito, rinnova le proprie falsificabili testimonianze, non si rimane mai esenti dalla disagevole precognizione del luogo dove minaccia di estinguerci, nonché del tempo su cui incombe, presago di malaugurio, risolutamente nefasto, a tal segno da sedurre a giudizi frettolosi. Quale mai sarà tale demone che so già sfuggito nel momento in cui dissimulo di seguirlo sulla falsariga della scrittura, ovvero fingo di precederlo nella sempre poco accorta speranza di trarlo in qualche trappola nella quale, del tutto verosimilmente, sarà lui a far cadere me? Poiché, da quasi trent’anni a questa parte, gioco con lui a mosca cieca, comincio da qua a prenderlo per le corna e ne disvelo d’acchito l’identità: ebbene sì, si tratta proprio del demone della politica, forma spettrale del discorso che ha date epifanie di sé, a vantaggio e scapito di contemporanei e posteri, in Areopaghi, Senati, Chambres des deputés, Reichstage, Diete e Dume, si è annidata nei capoversi di monografie e pamphlets, papiri, palinsesti e nuovi media, si è persino lasciata vivisezionare sulle tavole anatomiche positiviste, sulle quali si volle diagnosticarne la precoce morte, una volta che la si fosse inghiottita nelle mostruose e predittive fauci della scienza borghese. Ora, affinché la politica possa afferire ad un senso che additi a chi viva una via alternativa al vicolo senza uscita dove il nuovo ordine pseudo-religioso dell’economia capitalista la reclude tenacemente entro i propri ottenebranti formati spettacolari, pateticamente superomistici e postindustriali, saranno necessari paesaggi dove le donne e gli uomini possano tornare ad incontrarsi in carne ed ossa, e saranno necessarie nuove calpestabili utopie, giacché sulle sedi delle adunanze mediatiche oggi in voga – siano esse congegnate per riprodurre, a virtuali costi di realizzo, le immagini di folle rabbiose o festanti, ovvero per irretire coscienze di ora in ora meglio debilitate in informatici giochi di società sussidiari della vita – non crescerà più l’erba, né si avrà memoria di quella falciata per far loro spazio. Pertanto, non è senza mesta umiltà che ci accingiamo ad eleggere tale luogo dell’utopia in queste pagine, consapevoli che esso avrà un suo senso proprio solo quando ve ne escano, mai viste prima né immaginate, dimore e fabbriche, città intere e campagne popolose, e persino terre selvagge, incontaminate fino a prova contraria. Di una cosa soltanto si può essere certi, che tutto ciò che di nuovo vi sarà presagito, tutto ciò che non è ancora stato, proviene dal ventre di ciò che un tempo fu o avrebbe potuto essere. È cieco al futuro lo sguardo che non ha memoria.
 Nell’autunno del 1914, a tre mesi dalla nefasta conflagrazione bellica dei conflitti capitalistici che già dava esaustiva prova di efficienza nella riconversione della manodopera dai campi e dalle officine fino alle trincee d’Europa avide di strage, il direttore dell’«Avanti!», trentenne predappiano di belle speranze e precocemente assurto alle somme ed abusive dignità della rappresentanza politica della classe lavoratrice italiana, firmò sulla terza pagina del quotidiano un celebre articolo dal titolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. Con libertà di giudizio di cui avrebbe forniti in seguito esempi ancor meglio spregiudicati e perniciosi, costui aprì così una breccia nel muro delle mozioni contrarie all’intervento in guerra, fino ad allora largamente maggioritarie all’interno del Partito Socialista. Neppure la più seduttivamente machiavellica applicazione di una cinica logica razionale può oggi, ad un secolo di distanza da quel massacro, controvertire il fatto che da esso sia venuto, alla classe lavoratrice e all’umanità tutta, altro che male; se non assoluto, male virulento, che non esime dal proprio contagio le generazioni a venire. Sarebbe errore forse non meno nocivo quello di valutare soltanto a mente fredda il tragico regresso antropologico e cognitivo descritto lungo la parabola storica che condusse il proletariato italiano dalla stagione radiosa dei Consigli di fabbrica, quando fu capace di assumere il controllo tecnico della produzione in autonomia, fino alle odierne serrate tombali dell’industria metallurgica di Stato, nei cui malsani sepolcri i lavoratori non hanno sapienza se non per andare ad incontrarvi la morte, simbolo e suggello di abrogata soggettività. Bisognava pensarci per tempo e mai senza sentimento, prima che l’anonima società della comunicazione di massa affiggesse in tutti i cervelli le ecumeniche etichette del proprio inconfutabile paradigma, nei cui formali protocolli di esercizio ogni concreta antitesi dialettica viene ormai accolta, integrata e, troppo presto, resa innocua, in guisa di legittimo corollario del pervasivo teorema della vanità vigente. Vediamo, dunque, di raccontare una delle miriadi di storie, ciascuna delle quali lascia una propria traccia, negligibile o eclatante, secondo le quali si compì tale apocalisse dell’individuo nella specie, quella che colse un ventitreenne Antonio Gramsci, «venuto dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l’eredità malata dell’anacronismo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino»[1], come avrebbe scritto di lui qualche anno più tardi Piero Gobetti, lo colse impreparato a resistere allo sciagurato fascino dell’astro nascente della politica italiana, tant’è che sul numero del 31 Ottobre 1914 de Il Grido del popolo aveva scritto: «Non un abbracciamento generale vuole quindi il Mussolini, non una fusione di tutti i partiti in una unanimità nazionale, che allora la sua posizione sarebbe antisocialista... Né la posizione mussoliniana esclude che il proletariato possa, dopo un fallimento o una dimostrata impotenza della classe dirigente, sbarazzarsi di que­sta e impadronirsi delle cose pubbliche»[2]. Costui, invece, non soltanto fu abile a dissipare presto le illusioni del giovane intellettuale sardo, allora alle prese con il proprio “garzonato universitario”, ma corse a raccogliere, come tristemente risaputo, attorno ai suoi Fasci di combattimento il blocco della borghesia industriale e agraria, in vista dell’instaurazione di una dittatura di cui non diremo mai bene, né mai vorremmo che alcuno fosse tanto ottuso da dirne, giacché fu male più durevole e forse ancor peggiore del primo: la guerra imperialista, alla quale, in schiacciante maggioranza, gli esponenti della cultura italiana avevano dato l’avallo, fornendo precoce prova di obbedienza. Tale conflitto, che ad un’analisi storica che si appellasse all’onestà del cuore e dell’intelletto potrebbe facilmente riconoscersi tuttora in corso per quanto affatto contingente e meno che mai eterno, volgeva al suo terzo anno quando dalla Russia iniziarono a filtrare, fino alla metalmeccanica capitale sabauda, frammentarie notizie degli incipienti moti rivoluzionari. Nel mese di Agosto del 1917 il proletariato torinese scese in piazza per protestare contro l’organizzazione militare imposta nelle fabbriche e contro la carestia. L’esercito sparò sulla folla. Alla fine dell’insurrezione si contarono decine di morti e centinaia di feriti. Seguì, immediata, la decapitazione del comitato socialista locale, i cui dirigenti furono tradotti in carcere, cosicché Gramsci, per la prima volta, vi ricevette incarichi di primo piano. Quando, nell’autunno successivo, il sol dell’avvenire parve essere sorto, infine, sulla repubblica dei Soviet, egli ebbe perfino l’onore di firmare, sull’«Avanti!», un editoriale dal titolo La rivoluzione contro il “Capitale”, davvero non poco ardito laddove, al di là della polisemia di indubbia efficacia e sottigliezza giornalistiche, vi si faceva riferimento proprio alla celebre opera marxiana, testo rivelato quanto poco noto alla coeva cultura proletaria. Se è incontrovertibile che, allora, il pensiero del treviriano fosse disponibile agli italici intelletti soltanto attraverso le pur volonterose glosse di Antonio Labriola o le meno innocue volgarizzazione di Achille Loria, non sarebbe equanime voler rimproverare al fondatore dell’«Ordine Nuovo» di aver scritto senza cognizione di causa, in preda a giovanili furori palingenetici, laddove vi sosteneva che «i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono “marxisti”, ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore, di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche»[3]. Sul concetto di continuazione poneva, infatti, l’accento in quell’articolo, sulla necessità intrinseca dell’idea, quale ricco processo di adeguamento alla dinamica strutturale della realtà di cui si fa interprete, andava dritto al nocciolo della lezione marxiana, alla prassi filosofica rivoluzionaria, alla dialettica evolutiva della coscienza di specie. Come in quel testo elzeviristico la tesi era espressa in riferimento all’ecatombe concretissima cui l’interesse capitalistico dannava la vita sotto il proprio giogo di ferrea insensatezza ed aurea viltà, non era mancata, alcuni mesi prima, dopo la spietata repressione della rivolta torinese, l’arsi del medesimo discorso: una circostanziata critica delle forme aurorali della società dello spettacolo, nei cui sinistri barlumi di filistea infingardaggine già si forgiava la macchina di sterminio delle intelligenze estetiche ed etiche, l’ordigno progettato per esplodere nelle coscienze, cosicché i frantumi fossero in grado di tollerare la violenza ed i soprusi che ad una intera sarà sempre troppo dispendioso far patire, come la realtà presente ne dà a ciascuna inderogabile conferma. Così Gramsci, nelle cronache teatrali dell’«Avanti!» del 3 Ottobre 1917, dipingeva il pubblico borghese del teatro Alfieri, calcando il pennello sugli effetti deflagranti delle ideologie comunicative ai quali esso veniva debuttando nel ruolo di oggetto di un ben spregevole svezzamento:

Eppure questi spettatori non sono dei grezzi ammassi di carne e ossa fasciati di epidermide. Si commuovono, hanno la pos­sibilità di commuoversi. Negli intervalli, aggruppati nella breve saletta dei fumatori, ammutoliscono, impietriscono, si schiacciano contro le pareti per lasciar che un giovane passeggi, con gli occhiali neri, in divisa, barcollante al brac­cio di un amico, incerto delle relazioni di spazio, come lo è ancora chi è sprofondato nel buio da poco, con le pu­pille abbruciate da uno scoppio di gas esplodenti, da un soffio di gas velenosi. Un velo di malinconia impallidisce questi spettatori, essi possono sentire l'umanità, possono comprendere il dolore, possono atteggiare il volto alla se­rietà, possono sentirsi velare gli occhi di cupa tristezza. Ep­pure, quando il velario si apre, e le ridicole caricature di uomini e di donne del palcoscenico riprendono a mettere in azione la loro macchina, i volti si distendono alla gaiezza ebete, e l'atmosfera di bestialità si aggrava e appesantisce. Le scempiaggini si rincorrono, si ammucchiano in im­mondezzai colossali, traboccanti goffamente. La gagliofferia ha il sopravvento assoluto sulla intelligenza, dilaga negli applausi, si approfondisce in risatine di compiacimento: con­tinua a perseguitarci nei vapori putridi della sera, nelle nebbiosità dell'autunno che si avvicina.[4]

Non è tempo che si getti al vento quello impiegato ad una ancorché breve ricognizione delle recensioni teatrali gramsciane nel lasso che intercorse tra la firma dell’armistizio di Compiègne, ove fu sancita la virtuale sospensione del conflitto intercapitalistico, e l’inverno del 1920, quando il ghilarzese, dopo aver profuse energie per dare sostegno intellettuale all’esperimento di autorganizzazione operaia nelle fabbriche della Fiat, dovette constatarne il fallimento dinanzi alla coesa reazione padronale. Il tono generale di questo gruppo di testi si rivela essere non lontano dal sarcasmo né esente da cabrate sino alle quote dell’invettiva, sebbene si distacchi in maniera sempre sensibilissima dai canovacci classicheggianti delle deprecatio temporum che hanno costituito proficua catena nella storia della cultura patria, con il durevole effetto di lasciare il tempo che avessero, di volta in volta, trovato o, forse meglio, perduto. Da mesi le potenze dell’Intesa sostenevano nell’opera controrivoluzionaria le Armate bianche dei generali Judenič, Denikin, Kolčak; i focolai insurrezionali, che ad imitazione dell’esempio sovietico si erano sparsi un po’ ovunque nell’Europa centro-orientale devastata dalla guerra, suscitavano viva apprensione presso le centrali del vapore ideologico capitalista, suonavano la sanguinaria squilla della repressione e chiamavano di nuovo le forze a raccolta. Proprio nei giorni in cui, nel dicembre del 1918, le ragioni dell’ordine trovavano docili esecutori persino nelle file della socialdemocrazia tedesca, i cui sgherri, con prussiano senso di responsabilità, si accingevano a schiacciare la Repubblica dei Consigli degli operai e dei soldati sorta improvvidamente nello stesso seno della gloriosa Berlino, Gramsci, nel dare notizia di una rappresentazione allestita al teatro Carignano che non era in alcun modo riuscita ad affascinarlo, scrisse una pagina assai illuminante sui nessi strategici tra psicologie e costumi sociali così come vengono indossati, ancora oggi, sulla ribalta dell’incubo spettacolare messo all’incanto affinché ogni devoto consumatore possa sostituirlo, ad un prezzo che gli paia modico, alla propria esistenza di individuo nella specie, che il regime di circolazione forzata delle merci e dei simulacri gli rende impossibile e gli vieta.

Le commedie e i drammi che si scrivono in Italia sono una casistica della vita sessua­le che si svolge nell'ambito della legge umana e che è peren­nemente insidiata dalle leggi della natura, cioè dai capricci, dalle emozioni, dalla mancanza di controllo su se stessi. Poi­ché il costume italiano è essenzialmente sessuale, poiché la sessualità è l'argomento che più interessa lo spirito degli italiani, è  naturale che gli scrittori di teatro non concepisca­no altra vita che la sessuale. Ciò significa che gli scrittori italiani di teatro non hanno fantasia, non riescono a supera­re fantasticamente la mediocrissima umanità della quale fan­no parte, mediocrissima umanità che inspira la sua vita spi­rituale al popolarissimo proverbio: «Chi non ha altro bene, va a letto con la moglie»; e non avendo fantasia, non riu­scendo a concepire bene più grande di quello che i sensi go­dono nell'alcova, gli scrittori italiani di teatro non sono ar­tisti e il teatro italiano non è un fatto estetico, ma un fatto meramente pratico, d'ordine commerciale.
Ma il teatro italiano aveva finora visto la vita sessuale in due sole forme: quella più crassamente sguaiata che si pro­pone di solleticare e di provocare la frenesia erotica, e quella romantico-sentimentale che dipende dall'aforisma: «Dopo la voluttà, ogni animale è triste». Perché il teatro italiano si perfezionasse, era necessario che il fenomeno sessuale assu­messe una terza forma (il tre è numero perfetto nella mito­logia cristiana e nel simbolo massonico, che tanta importanza hanno avuto nell'informare il costume italiano) e questa fu escogitata dal gruppo degli innovatori: Pirandello, Chiarelli, Antonelli. Nei loro lavori i personaggi assumono in confronto della vita sessuale una posizione critica, assolutamente intel­lettuale, di introspezione.
In certo senso c'è un superamento, sebbene esso possa solo paragonarsi al gesto che fa il cane dopo aver rosicchiato un osso: è un inizio di risanamento del costume, di evasione dalla fogna miasmatica dei sensi.
[…] an­che nella mediocrità intellettuale è necessario stabilire delle gerarchie di valori. La commedia è stata tuttavia applaudita: il pubblico non è uscito dal marasma spirituale del sesso, e le commedie di questo genere, la cui statura non supera la sua statura media, lo soddisfano doppiamente: perché il sesso ci predomina e perché banalmente si sorride della vita sessuale: nella banalità pubblico e autore si compenetrano, identifican­dosi.[5]
                                                                   
Sorge qua, spontanea si sarebbe tentati a dire, un’amara considerazione riguardo al destino di pervertimento del senso cui l’opera dell’ingegno critico, la quale in Gramsci fu viva e vegeta, incorre sovente allorché la si riceva nelle pratiche sepolcrali che, dall’homo sapiens agli animalia laborantia e da questi ai sata insumentia, aggregano la specie lungo il decorso storico dove va dissolvendo, verso l’entropia assoluta della permutabilità impersonale di ogni messaggio o enunciato, verso l’immenso cenotafio a cielo aperto nel quale il nulla, in tempo reale, si connette infine con nulla. Ed ecco che, proprio adesso, l’avello ecumenico si scoverchia e ne sortono miriadi di aspiranti autori nazional-popolari, esperti di tecnica poliziottesca e di crimini sessuali, riflessi nel vaniloquente specchio della civiltà contemporanea in maniera tanto fedele da provarne estasi che paiono loro incrollabilmente autentiche, lusingati di differire gli uni dagli altri per meno di un’inezia della quale, peraltro, non avrebbero fantasia né cognizione sufficienti per confessare la natura neppure qualora li si sottoponesse alle torture più crudeli. Gli elementi salubri e lungimiranti dell’insegnamento gramsciano, l’invito alla ricerca artistica dei caratteri umani là dove ne emergono, da profondità di senso e sentimento, le contraddizioni dei rapporti sociali e produttivi, la cura e lo studio filologico della lingua quale organismo dialettico, sono stati dunque ritorti contro la vita stessa, la quale, invece di prendere slancio verso un’evoluzione consistente alla creatività letteraria e spirituale, viene ormai imposta ai modelli narrativi a guisa di inviolabile codice di comportamenti automatici, al pari di un dogma che non ammette replica giacché è ovunque uniformemente replicato.
Cosa può mai essere, se non la repressione delle facoltà spirituali, quella che avvince alle coscienze quali sono, a tutt’oggi, evolute nei nessi della Storia, finché non assurgessero alla vigente religione, i cui vieti sacerdoti godono della eccellente prerogativa di dilettarsi del misfatto che ripetono ad inesausta prova di impotenza? In questo la vita attuale è assai legittima erede del positivismo, attraverso le conferme aberranti delle apocalittiche profilassi naziste e la pervasiva guerra omnium contra omnes che si è liberalmente organizzata nelle tecniche della comunicazione di massa, fino ai social networks e agli odierni strumenti di controllo di cui dispone, in florida copia, il regime mediatico globale. Per tenersi a galla in questa valle di lacrime, delle quali la maggior parte non è stata neppure versata, giacché ne è mancato il tempo, per trovare una terra emersa dove fare tutto nuovo, occorre sostenersi alle ali dello spirito, le quali, d’altronde, si mostrano, nelle loro forme immanenti, così logore ed invecchiate da riuscire a stento a reggere se stesse.
A dispetto  delle ricezioni foriere di non succedanea nocività delle quali si è detto, il pensiero del ghilarzese è stato seme da cui sono scaturiti significativi germogli nel tronco sano della cultura europea e mondiale. Valgano a titolo di corroborazione, tra le numerose che si potrebbero citare, le tesi che Michel Foucault sviluppò nel corso degli anni Settanta del secolo passato, altro momento di effervescenza delle metamorfosi capitalistiche. Nel saggio del 1976 La volonté de savoir, l’autore della monumentale Histoire de la folie à l’âge classique, avanzò l’ipotesi secondo la quale, a partire dal Settecento dei lumi a petrolio della classe borghese, la censura dei comportamenti sessuali e del linguaggio inerente, nonché il correlativo controllo sociale che se ne educe, si attuino attraverso la proliferazione dei discorsi sulla sessualità, rigidamente composti entro un canone ove si stabilisce la gamma delle varietà perverse convalidate. E, a pensar bene, tutto un tecnico delirio di conversazioni, più o meno blasée e compiaciute, durante le quali, con l’infarinatura psicoanalitica che tende a divenire patrimonio dell’uso colloquiale e non senza prurigine adattata a circostanze ed interlocutori, si cucinano i padri reduci da matrimoni infelici come seri candidati alla seconda chance della sodomia, sulla base esemplare di modelli illustri quali potrebbe fornire, per dire, un Thomas Mann, oppure tutte le madri, altrettanto soggette a sempre più comuni défaillances coniugali, come legittime aspiranti all’amore saffico, sulla stregua, per intendersi, di una Marguerite Yourcenar o di una Gertrude Stein, tutto ciò non getta forse l’ombra di una precognita estinzione sulla scena di un teatro i cui fantasmatici personaggi vanno sostituendosi ai soggetti umani fino alla presente universalista vacuità? Tali caricature della vita che destavano lo sdegno dell’intellettuale sardo allorché le riconosceva effigiate persino nelle commedie dell’eccellente caposcuola Luigi Pirandello, del cui Il giuoco delle parti, rappresentato al Carignano nel Febbraio del 1919, scriveva che «il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di dialogo, puro sforzo letterario di verbalismo pseudofilosofico. L'incomprensione reciproca delle marionette sceniche si è proiettata nel teatro: pieno dominio di monadi senza porte e senza finestre, incomunicabili e incoercibili, l’autore, il personaggio e il pubblico»[6], tali caricature sono ormai in auge nell’incubo diegetico che la società dello spettacolo ammannisce oggi ai propri membri attivi e passivi, in pegno di esistenze di atto in atto meglio rimosse e virtualizzate. Affinché non lo si prenda per mero espediente espositivo se ribadiamo qua il fatto che si sia scelto di dipanare il fil rouge delle scene teatrali di quegli anni travagliosi perché in esse furono approntate le armi linguistiche che, avvalendosi di altri mezzi ed innovate tecniche, avrebbero esploso i loro colpi fino a sventrare gli spazi architettonici deputati alla rappresentazione, tant’è che da lì a poco le burattinesche esibizioni di Mussolini dal verone rinominato “prua d’Italia”, riprodotte dalla radiofonia di Marconi e dai cinegiornali dell’Istituto Luce, sarebbero bastate a sedurre oceaniche maggioranze ad un’acconcia accondiscendenza dinanzi all’obbrobrio del regime, affinché il nostro intento sia chiaro quanto l’oscura scabrosità della materia richiede, facciamo leva su ciò che, negli stessi mesi dell’acuta requisitoria gramsciana, veniva elaborando la non meno perspicua consapevolezza del diciassettenne Piero Gobetti:

E intanto la critica drammatica continua ad essere sonnac­chiosa ed inutile, quando non è dannosa. È diventata un me­stiere. E, quel che è peggio, influisce molestamente sul gusto del pubblico di media cultura che invece di trovar un aiuto nel critico non sa più raccapezzarsi nel confronto tra la sua impres­sione e il trafiletto teatrale.
Si è dimenticato che la critica teatrale specialmente è un mezzo di elevazione del gusto del pubblico. Quello che è diven­tato un mestiere dovrebbe essere una missione.[7]

Date tali premesse, che l’esordiente teorico dell’idealismo critico sapeva enunciare con precoce concisione già sul foglio che gli servì da palestra intellettuale, riesce comprensibile la ragione per cui, una volta sfumata con la sconfitta degli scioperi del 1920 l’istanza prioritaria acciocché «L’Ordine Nuovo» fosse l’officina di riflessione politica per la riorganizzazione del lavoro su basi di democrazia operaia, allorché il periodico dovette arretrare mutando dalla forma settimanale alla quotidiana e attestandosi in funzioni di resistenza propagandistica, Gramsci decise di affidarne il ruolo di recensore teatrale, il medesimo nel quale aveva profuso così concreto ardore dalle colonne dell’«Avanti!», all’astro nascente del pensiero liberale. A dispetto di ogni pregiudiziale ideologica, più urgente anche rispetto ad eventuali criteri di verifica della coerenza spirituale, pesò l’aspirazione ad inaugurare prassi concrete di trasformazione dell’economia dal suo interno, a riconfigurare i rapporti di produzione dall’àmbito, ristretto seppur non succedaneo, dei mestieri intellettuali, cosicché il lavoro liberamente promesso fosse retribuito in vece di uno servile ed imposto. Perciò, il direttore dell’organo di stampa dell’avanguardia proletaria torinese offrì al giovane Gobetti l’opportunità di sviluppare il proprio progetto di ricerca e gli passò l’ideale testimone, ma non prima di aver proseguito la lotta in prima persona fino a tutto l’anno 1920.
Negli stessi giorni in cui il futuro Duce, infine espulso dal Partito Socialista, si apprestava a tenere a raccolta e battesimo i Fasci di combattimento, alle idi di Marzo del 1919, Gramsci, nell’aborrire la messa in scena di una commedia del futurista Cavacchioli, tra i bersagli abituali delle sue caustiche disamine, intervenne allo scopo di precisare in maniera viepiù esplicita ed inequivoca il carattere tardivo che la patria avanguardia assumeva, all’interno del panorama già sufficientemente passatista della cultura europea, secondo uno schema che si sarebbe replicato con immutato conformismo fino al nostro presente:

Il  teatro   modernissimo   italiano   (Pirandello, di San Secondo, Veneziani...   e   Cavacchioli)   risulta   in parte da un piccolo errore:  questi autori, nello studio della belletristica   inglese,   volendo   arrivare   a   Bernard   Shaw si sono  smarriti  nel  dedalo  delle  avventure  di   Sherlock Holmes. […] Una   fantasia   matematica,   una    fantasia di ingegneri che sanno il fatto loro, una fantasia da curiosi di sapere come la fantasia  era  fatta, i quali pertanto l'hanno recisa per notomizzarla e veder com'era fatta. Divertono, pur annoiando un po' per la pedanteria, della quale sono figli  non degeneri. […] È difficile analizzare le loro commedie, senza dilungarsi sazievolmente; non si può essere severi, perché esse sono una istituzione del gusto, che non ha ancora esaurito il suo ufficio storico.[8]

Mentre a Budapest il movimento internazionalista dei lavoratori parve acquistare nuovo vigore attraverso la pur effimera esperienza della repubblica sovietica, mentre Gramsci si impegnava nell’organizzare gli scioperi in appoggio ai compagni ungheresi durante i quali il proletariato di Torino, istruito dalla carneficina di due anni prima, conseguì il risultato non poco incoraggiante di fraternizzare con i sottoproletari sardi della brigata Sassari inviata a monito di preventiva deterrenza, tanto che le autorità si vedessero poi costrette a rispedirla sull’isola allo scopo di scongiurare temuti sviluppi da un simile embrione di consapevolezza e solidarietà, al recensore dell’«Avanti!» non mancò il tempo per esecrare le velleitarie ambizioni pedagogiche del vellicatorio teatro erotico di un Niccodemi, esaurito nel proprio ipocrita sforzo di «far ridere fisiologicamente a molto buon mercato»[9], o le grettezze nazionalistiche di un Mazzolotti[10], o le subliminali istigazioni alla più corriva ferocia contenute nei drammi di un Monaldi[11], incentrati sui macabri tipi di celebri briganti e sventratori di donne, sul consunto armamentario dei clichés della malavita, il quale conserva, tristemente intatto, il proprio ipnotico appeal sull’infinitamente corruttibile gusto contemporaneo.
Nell’imminenza del rovesciamento del governo comunista di Béla Kun ad opera della dittatura proto-fascista dell’Ammiraglio Horty, quando nel capoluogo piemontese l’esperimento di democrazia diretta dei consigli di fabbrica muoveva i primi passi, Gramsci trovò l’ispirazione per scrivere una delle pagine più limpide ed istruttive tra le numerose delle sue cronache drammaturgiche, a conclusione della quale rendeva merito al serio e fruttuoso impegno artistico di Emma Gramatica:

Il teatro, come organizzazione pratica di uomini e di strumenti di lavoro, non è sfuggito dalle spire del maelström capitalistico. Ma l'organizzazione pratica del teatro è nel suo insieme un mezzo di espressione arti­stica: non si può turbarla senza turbare e rovinare il pro­cesso espressivo, senza sterilire l'organo « linguistico » della rappresentazione teatrale. L'industrialismo ha determinato le sue necessarie conse­guenze. La compagnia teatrale, come complesso di lavoro retto dai rapporti che intercedevano nell'arte medioevale tra il maestro e i discepoli, si è dissolta: ai vincoli disciplinari generati spontaneamente dal lavoro in comune – lavoro di natura particolare, perché tendente a fini di creazione arti­stica – sono successi i «vincoli» che legano l'intraprenditore ai salariati, i vincoli della forca e dell'impiccato. Le leggi della concorrenza hanno rapidamente condotto a ter­mine l'opera loro disgregatrice: il comico è diventato un individuo, in lotta coi suoi compagni di lavoro, col «mae­stro», divenuto mediatore e coll'industriale del teatro. Sfre­nata la speculazione sordida, essa non ha conosciuto più con­fini. Il carattere stesso peculiare del lavoro da svolgere è diventato reagente corrosivo. Primeggiare nel guadagno va di pari passo col primeggiare nella compagnia, nelle funzioni direttive e autoritarie, nella libertà di scegliere per sé le parti a successo e spiccare, monumento funerario, in un cimitero di fosse comuni. La tecnica teatrale ne è stata scombussolata, la produzione si è adattata «facilmente» alle condizioni nuove; facilmente, nel senso che l'equilibrio è stato raggiunto in un piano infimo, di compagnie, di pubblico, di scrittori di teatro. Si parla di depravazione del gusto, di decadenza dei costumi, di dissoluzione artistica. L'origine di questi fenomeni vistosi è da ricercare unicamente nel mutarsi dei rapporti econo­mici tra l'impresario del teatro, divenuto industriale associato in un trust, il capocomico, divenuto mediatore, e i comici soggiogati alla schiavitù del salario.[12]

Certo che all’epoca attuale, assuefatta alla patologica mendacità che, in virtù di un pervasivo dispiego di mezzi tecnici ben al di là dei limiti delle coscienze, sostituisce ad ogni schietta ed onesta interpretazione dei fenomeni la vulgata del codice schizofrenico ed impersonale imposto alla stregua di valore di verità attraverso un capillare esercizio di violenze fisiche e psichiche, certo che all’epoca attuale giudizi come quelli del ghilarzese potranno pur apparire semplicistici, ma a nostro avviso chiunque non acquisisca consapevolezza delle condizioni di impossibilità in cui il sistema di dominazione economica è giunto a porre l’espressione artistica non ha diritto di accampare pretese in tale àmbito specifico ed intrinseco al carattere umano, al destino della specie e della sua coscienza.
Non voglia il lettore abbandonarci per questo soltanto, giacché il bello della storia deve ancora venire, i.e. l’annus mirabilis 1920, nel cui mese di settembre, in risposta alla serrata padronale, i lavoratori della Fiat occuparono le fabbriche torinesi e furono in grado di proseguire la produzione in autonomia. Fu questo il capolavoro politico non solo di Gramsci ma di tutti gli operai che contribuirono a realizzarlo. Da quella prova di maestria non fu possibile trarre alcuno sviluppo rivoluzionario a causa, principalmente, delle divisioni interne al Partito Socialista, tra “elettoralisti” e “astensionisti”, bordighiani e ordinovisti, ma sbaglierebbe di grosso chi oggi, ignorando quella lezione ormai vecchia d’un secolo, disertasse la prospettiva della conquista dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori per incantarsi dei vari pifferai mediatici che declamano peana di rivolta in modalità più o meno congruenti al rodato sistema della comunicazione spettacolare capitalistica. Qualora si giudicasse senza immunità dall’epidemica intossicazione depressiva grazie al cui espediente il profilmico capitalista accoglie le masse infette da cronico inebetimento nel proprio confortevole lazzaretto, qualora mancasse quel desiderio di guarigione che è scaturigine di ogni arte, il compito sembrerebbe tale da far tremar le vene ai polsi; laddove si considerasse poi che, nelle attuali mutate contingenze, non sarebbe sufficiente avvicendarsi nel controllo dei mezzi di produzione e bensì necessario trasformarli affinché cessino di dispensare nocività e diffondano piuttosto salubre bellezza, allora i cuori batterebbero tanto forte da farsi udire, e non sarebbe segno promettente quello che ci facesse così sentir vivi di nuovo?
Dopo il movimento dell’Aprile, il cosiddetto sciopero delle lancette, represso con la minaccia delle armi, l’avanguardia operaia patì l’assenza di un adeguato sostegno di iniziative analoghe su più vasta scala nazionale; ad Agosto il gruppo ordinovista, fervido promotore dei consigli, fu messo in minoranza nel comitato direttivo locale del Partito Socialista, di cui prese le redini Palmiro Togliatti, l’uomo che la provvidenza stalinista, a propria immagine e somiglianza, avrebbe poi eletto ad un vicario ed italico culto della personalità negli autorevoli panni del Migliore. Cionondimeno, a Settembre la lotta si riaccese. I cedimenti del Partito e della Confederazione Generale del Lavoro dinanzi all’intransigenza della controparte decretarono, e stavolta per sempre, la fine delle aspirazioni rivoluzionarie. Vennero quindi i giorni convulsi durante i quali all’interno della dirigenza socialista maturarono i rapporti tra le fazioni, così da condurre alla scissione di Livorno. Su stimolo della Terza Internazionale – ed è da rimarcare il fatto che Lenin, come già in precedenza nelle occasioni dei moti tedeschi e ungheresi, diramasse le sue autorevoli disposizioni con un ritardo che si può ragionevolmente giudicare possa essere stato decisivo, sempre in posizione attendista rispetto alla evoluzione soggettiva delle forze sociali e politiche – nacque pertanto il Partito Comunista d’Italia, ventuno giorni dopo che “il poeta soldato” aveva firmato l’atto di resa della Reggenza del Carnaro, cosicché tutta la marmaglia manganellatrice contesa al fascismo dai miti dannunziani venisse a disposizione dell’opera repressiva che, non senza bieca tolleranza, lo Stato giolittiano commise alle ringalluzzite squadracce del Mussolini.
In veste di critico teatrale, Piero Gobetti aveva appena esordito, il 9 Gennaio del 1921, nella collaborazione con «L’Ordine Nuovo» di Gramsci:

Un altro carattere generalissimo distingue poi l'elaborazione faticosa di questi giorni. Non c'è neppure un solo grande artista, vivo nei nostri spiriti, che ci abbia saputo commuovere; non c'è una personalità sovranamente potente, che costituisca il cen­tro della nostra letteratura drammatica, intorno a cui le minori figure si coordinino e costituiscano come un raggruppamento. Tutte le attività si esplicano invece liberamente, confusamente: tutti piccoli, si credono invece tutti grandi artisti. Certo sorgerà da queste elaborazioni il nuovo poeta; il quale risolverà i suoi problemi, purché li senta nella religiosità e nella spiritualità dei nuovi miti che si vanno creando e sorgono dalle viscere stesse del popolo e dello spirito dei tempi.
Ma chi va ripetendo oggi i grossi propositi di riforma del teatro, e intende per teatro gli elementi esteriori non artistici che vi si sono andati infiltrando per la corruzione del gusto, è un impostore. Poiché noi rispettiamo chi profondamente e se­riamente lavori, compreso della sua missione d'artista, anche quando all'arte piena non riesca: ma c'ispira solo ribrezzo chi specula sulla decadenza del gusto e appresta, come arte, un po­vero svago che serva di tranquillità serale al pacifico spettatore.[13]

Nel sacrosanto richiamo ai doveri e ai diritti dell’espressione d’arte, lo scrivente non poteva di sicuro avvalersi di sofisticati strumenti semiologici per svolgere la propria funzione critica, tant’è che l’enunciato resta avvinto nelle morfologie e nei concetti della tradizione idealista, alla quale peraltro lo stesso Gramsci si manteneva fedele, se è vero che, in uno degli ultimi pezzi per le cronache dell’«Avanti!», aveva scritto che l’opera drammaturgica è «opera d'arte, cioè di poesia, soggetta a nessuna logicità che non sia quella della fantasia del poeta, che ha in sé la sua legge e soltanto a essa deve obbedire»[14]; tutt’oggi, pare nondimeno arduo ad una coscienza che aspiri a non esser cattiva sostenere che in entrambi i casi l’essenziale fosse sottaciuto. Non può esservi arte senza libertà, e in un mondo qual è il presente, avarissimo di concederne alcuna che non sia fittizia, l’arte è il miracolo di cui può rendersi capace soltanto l’umile umanità, concreta di cuore ed intelletto, non davvero i messianici paracleti gonfiati con gli estrogeni della sovrumana imbecillità imperante, non i servi di scena del grande spettacolo apocalittico in una e trina dimensione.
Gobetti proseguiva l’articolo passando in caustica rassegna lo stuolo dei “novatori” del teatro nazionale suoi contemporanei: il Niccodemi, che vi era definito come colui che «ha raccolta la sua messe di allori sino a di­ventare (miseramente) uomo rappresentativo del suo tempo», la cui parola è quella «del conser­vatore, che è assai peggio che borghese, perché significa l'uomo che ricerca solo il successo e perciò accetta indifferentemente l'idea prevalente, che ha il favore del pubblico», le cui opere erano meri congegni per la «declamazione vuota e volgare, per la guerra, contro i pescicani imboscati, per l'elevamento ordinato (l'imborghesimento) delle classi popolari»; poi, in un sol mazzo, Chiarelli, Antonelli, Cavacchioli, nei cui lavori «non c'è arte perché c'è l'indistinto, il vago, il ricer­cato per mero passatempo, non ridotto ad unità estetica», dei quali «l'eleganza delle sce­ne, la ricchezza degli abbigliamenti dovrebbe nascondere la po­vertà interiore»; delle commedie di soggetto storico-mitologico del Morselli e del Berrini aggiungeva che «neanche la storia e la mitologia possono velare deficienze così profonde e far nascere un carattere dove vi sono soltanto dei fantocci». Concludeva con un capoverso ove concentrava il senso costruttivo del proprio progetto critico:

Noi crediamo che la sola espressione notevole del teatro con­temporaneo sia II piacere dell'onestà del Pirandello, che veramente muove dalla sostanza dello spirito dei tempi, dal bisogno idealistico di nuovi valori, d'una nuova morale, di una nuova logica, da sostituire all'ipocrisia superficiale delle valutazioni del passato che sono diventate convenzione meccanica. Ma men­tre in molte commedie (Cosi è se vi pare, Tutto per bene, Come prima meglio di prima) resta l'intento nel suo spunto iniziale, il motivo critico filosofico presentato nei suoi elementi intellet­tualistici (anche quando reagiscono all'intellettualismo per di­fendere l'intuizionismo o il contingentismo), II piacere dell'o­nestà è perfettamente realizzato come dramma umano, in cui questo bisogno insoddisfatto di più intima moralità, questa ri­cerca critica di sincerità si esprime in passione profonda e viva commozione. Perché questa commedia è nata dal tormento in­teriore dello scrittore e non da un desiderio pratico di successo o di riforma del teatro.
  
Mentre, dunque, l’Italia andò a consumare, nel Maggio del 1921, il rito elettorale attraverso il quale si dette alimento ad improvvidi giochi di potere illusorio, tutti intesi alla sottovalutazione del rischio della deriva autoritaria che avrebbe menato dritto per dritto alla patetica ma sciaguratissima farsa della marcia su Roma, il figlio del droghiere di via XX Settembre attese alla meticolosa cernita degli oggetti estetici con cui il teatro borghese nazionale si dava ornamento di cultura, maturando – lungo il percorso di collaborazione con il giornale di Gramsci, il quale si sarebbe protratto fino all’imminenza degli eventi che instaurarono il Ventennio – le metodologie di studio che lo condussero poi alla redazione del volume saggistico La frusta teatrale, pubblicato per i tipi dell’editore Corbaccio nel 1923 e che, nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto servire da nucleo di riflessione per la poi abortita stesura di una Storia del teatro contemporaneo. Non vi era piccola né meschina l’ambizione di contribuire, con la militanza di critico, ad una profonda trasformazione della cultura contemporanea e delle sue interne relazioni ai nessi sociali e politici. La vis polemica delle prime incursioni gobettiane nei santuari sabaudi di Talia e di Melpomene, procurò subito roventi dissidi con l’establishment in voga, sostanziati nel ritiro della tessera di accredito per assistere alle rappresentazioni della compagnia del commendator Ermete Zacconi, che la direzione del Teatro Balbo comunicò in una lettera al direttore dell’«Ordine Nuovo» spedita il 22 marzo, oppure nella rabbiosa replica con cui il commediografo Alfredo Testoni reagì alla stroncatura della messa in scena del suo La ruota che Gobetti aveva firmata sul numero del 14 Maggio. Interpellatolo tempestivamente per via epistolare, l’oltraggiato autore gli dava del «marmocchio» e del «maleducato», per chiudere infine con il motto, non senza orgogliosa erudizione volto in lingua russa, ove traboccava il suo spirito di drammaturgo professionale: «mi fai schifo!!!». In tale temperie comunicativa, che ricorda non poco l’attuale quanto a spudorate propensioni allo sberleffo e all’intimidazione, fatti salvi i progressi intanto conseguiti nella liberalità del turpiloquio, si dipanò la ricerca esegetica del ventenne intellettuale torinese, e al nostro esame retrospettivo non può apparire poco prodigioso il fatto che essa approdasse purtuttavia a risultati seri e significativi. Bersaglio prediletto degli strali gobettiani è, nei primi testi, la retorica delle tronfie concezioni positiviste, che avevano ridotto la funzione poetico-drammaturgica a mera rappresentazione fotografica e l’interpretazione attoriale ad un vieto studio fisiologico di situazioni contingenti e disarmoniche. Campione di questa scuola si era lasciato riconoscere proprio lo Zacconi, contro il quale la guerriglia intellettuale seguitò spietata e senza esclusione di colpi, tant’è che si sarebbe quasi tentati a leggere una qual certa volontà di infierire psicologicamente sul soggetto delle proprie analisi impietose laddove Gobetti esaltò invece doti mirabili e non degne altro che d’encomio nella primattrice che affiancava il capocomico, la celeberrima Eleonora Duse, la quale, liberatasi alfine dell’ingombrante passato a fianco del lirico superuomo che abitava oggi il favoloso ritiro di Gardone, era tornata a calcare le scene con propositi ed esiti capaci di esaltare percezioni e speranze estetiche del critico al debutto:

Ogni principio di mediazione (in senso critico) è soppresso in quanto la sua recitazione ci appare come una vera esperienza mistica, ed in ogni atto suo si ritrova l'immanenza del divino. […] Noi non accettiamo il mistero, come cosa valida logicamen­te; crediamo che nella chiarezza della mediazione spirituale tut­to il mondo immediato debba avere la sua risoluzione e il suo inveramento. Ma il mistero esiste come fatto sentimentale; que­sta è la trascendenza e il misticismo della personalità della Duse. […] Per trovare un altro esempio del suo fascino infatti bisogna ripen­sare alla predicazione del primo cristianesimo di Gesù e degli apostoli o all'esuberanza del movimento francescano. E, realiz­zata sul teatro, tale potenza spirituale supera tutti gli schemi e sconvolge tutti i giudizi.[15]

Quasi travolto da un’ondata di empatia, il critico pare soggiacere qua all’incantamento della divina, spingendosi a varcare i limiti di prudenza dei procedimenti intuitivi e deduttivi a lui consueti, come a sondare un dionisiaco al di là del campo d’indagine della propria ricerca, forse per rispondere ad un bisogno psicologico di fissarne l’estremità superiore, esigenza la quale non risulterebbe forse eccentrica né enigmatica qualora si ponga mente al clima convulso in cui gli avvenimenti erano vissuti. Dove, al contrario, la tenace aspirazione alla compiutezza espressiva dell’analisi, che nel passo precedente sembra incespicare sugli ostacoli dell’inconscio non rimosso, consegue la forma di una chiarezza rivelatrice è in ciò che si può leggere appena sopra nel medesimo articolo:

C'è nell'attore una personalità di critico d'arte, che rivive l'opera che ha di fronte secondo la sua comprensione, che si sforza di ampliare questa comprensione, di esservi sempre pre­sente. Siffatto attore non impone la sua personalità sino a sop­primere l'opera che ha dinanzi per prendere solo più vibrazioni sue; ma sta ad un punto di vista esterno, ossia non diventa mo­ralmente uno con il personaggio che rivive: legittima posizione che è anzi la sola artisticamente valida perché solo in essa l'at­tore si scorda della sua persona, empiricamente pratica ed uma­na, per cercare essenzialmente una contemplazione critica (con­templazione perché serena; critica perché riflessa, non imme­diata) di quell'opera che, indipendentemente (in un certo sen­so) da ciò che l'autore ha realizzato, egli, attore, realizza. Onde la formula da noi spesso svolta dell'attore come critico-artista.[16]

Ecco, nella puntuale limpidezza di passaggi come quello testé riportato, di cui nella vasta mole delle Cronache è possibile rintracciare altri numerosi esempi, stimiamo consistano gli autentici miracoli compiuti da un giovane di appena vent’anni dinanzi alla materia del suo studio, foggiata in sublimi posture seduttorie da impersonali astuzie psicotecniche che principiavano a proiettare sulle coscienze gli spettri di un culto in procinto di farsi totalizzante; miracoli che ancora oggi serbano integro il loro valore di antidoto contro le pervasive prassi della società dello spettacolo giunta alla suprema trascendenza della sua forma economica immateriale. Gobetti vede pertanto emergere un talento profondamente umano e storicamente vivo in Alda Borelli, rivale della Duse. Dell’attrice di Cava de’ Tirreni afferma che la sua arte «sostituisce la critica alla fede»[17]. Ella risponde alla crisi della civiltà sua contemporanea, durante la quale il tramonto dei miti, idealisti o veristi, pone gli individui di fronte alle conseguenze paradossali dell’isolamento nella nascente società di massa. «Il romanticismo esuberante e finissimo della Duse è diventato nella Borelli atteggiamento di ironia di fronte alle cose»[18]. «All'ipocrisia ciarlatanesca di cui si appagò ancora il pubblico, ammantandola coi nomi commos­samente ridicoli di genio, di ispirazione, di divina ebbrezza, Alda Borelli sostituisce una sensibilità non mai turbata, finissima, uno studio coscienzioso, severo»[19]. Quindi, alle suggestioni di un’arte esoterica va contrapponendosi un modello di vigile pesatura delle istanze irrazionali, al cui calco soltanto, fatto di levità disincantata, sarà dato aderire all’umanità del volto senza che la distorcano gli isterismi sonnambolici in cui la Storia e lo Spirito scoperchiano un duplice e complementare abisso.
Queste le linee teoretiche fondamentali che orientano Gobetti alla vigilia dell’estate del 1921, quando i risultati della terza consultazione elettorale che nel Regno d’Italia si fosse tenuta a suffragio universale riconfermarono il Partito Socialista quale detentore della maggioranza relativa e segnarono una sostanziale sconfitta per il Blocco giolittiano-fascista, tantoché Mussolini si credette autorizzato a giocare la carta del “patto di pacificazione” con i vecchi compagni, il quale, ratificato il 2 Agosto, provocò le fiere rimostranze di molti gerarchi. Balbo e Grandi si recarono addirittura a Gardone, per pregare il vate che vi risiedeva di accondiscendere ad avvicendare lo screditato predappiano alla guida dei Fasci littori. Pare che, poco prima, anche Gramsci, introdotto da un ex-legionario fiumano, tale Mario Giordano, fosse andato a chiedere udienza al pontefice della imaginifica religione superomistica. Questi, con sdegnosa cautela, avrebbe declinata ogni profferta, ben avvertito ed amareggiato di aver già espletati i doveri richiesti ad un’italica anima magna nel profilmico della mediocre politica a sé coeva. Lasciamo immaginare a chi ne senta necessità la sorte che sarebbe toccata all’Italia ed al suo popolo nell’evenienza che il poeta soldato avesse esibito l’ardimento che non gli mancò in precedenti vicissitudini, cosicché, alle tragiche e pur inevitabilmente farsesche insorgenze collusive dell’ideologia piccolo-borghese con gli interessi agrario-industriali, fossero risparmiate le atellane del pantocratore a torso nudo o in camicia nera e degli squallidi comprimari di lui. Persino l’Internazionale comunista, d’altronde, stentava a trarsi fuori da quella scena lagrimevole e nel III Congresso, tenutosi a Mosca tra Giugno e Luglio, indicò la strategia del fronte unico con i socialisti, i quali, appunto, si apprestavano a stipulare il patto di pacificazione. Ricordiamo piuttosto, per soprammercato, come nel Comitato centrale del Partito Comunista d’Italia, qual era stato licenziato dal Congresso di Livorno, figurasse pure quel Nicola Bombacci che, dopo aver potuta vantare l’amicizia personale con Lenin, venne a farsi scudiero della Repubblica sociale nei tempi torbidissimi di Salò, tanto intransigente e leale da seguire il Duce fin nell’estremo viaggio verso Dongo. Tornato presto in auge il Mussolini grazie alle tribunizie smargiassate socialiste che consigliarono gli avversari a ricompattare le file, nel marzo del 1922 all’interno del  Secondo congresso comunista prevalsero le tesi settarie e isolazioniste di Bordiga. Mentre le violenze fasciste si facevano di giorno in giorno impudenti e sfrontate, lo Stato liberale esibì con sprezzatura la ciclica sequela delle crisi ministeriali, da Bonomi a Facta, e da questi a se stesso dopoché, decisosi infine l’amletico Turati a consentire la partecipazione socialista ad un gabinetto presieduto dal Giolitti, lo statista di Mondovì, alla soglia delle settanta primavere, non se la sentì di cederla in saggezza al d’Annunzio e prolungò le vacanze a Vichy. Dal Maggio intanto, anch’egli provato nel morale e nel fisico, Gramsci era a Mosca per assumere incarico nell’esecutivo della Terza internazionale, cosicché il proletariato italiano, dilapidate le energie autorganizzative mature nei mesi remoti dei Consigli, in balia della inerme faziosità della dirigenza comunista e della tragicomica indecisione della socialista, subì la recrudescenza delle offensiva squadristiche. Si resistette ancora valorosamente a Parma, a Sarzana ed altrove, ma il dado era tratto, tant’è che il vate pescarese ebbe un ripensamento e, ristabilitosi con taumaturgica celerità dall’arcano ma rovinoso volo dal balcone gardonese, programmò per il 4 Novembre, anniversario della vittoria, una maestosa adunanza capitolina di ex-combattenti, affinché potesse cogliere in extremis il sommo alloro che solo a lui competeva per inalienabile diritto d’uomo superiore, per non dire eccellente. Resipiscenza tardiva fu la sua, giacché la sera del 27 Ottobre il pubblico che affollava il Teatro Manzoni di Roma, disertando con gli occhi la scena su cui era allestito Il Cigno di Molnar, li inviava all’unisono alla volta del palco dove Benito, al suo fianco Edda e Donna Rachele, attendeva ragguagli sui movimenti delle milizie che si accingevano l’indomani a convergere sulla città eterna.
Dal principio di quel fatidico anno 1922, Gobetti aveva dato vita alla rivista Rivoluzione liberale, la voce più nitida e perspicua tra quante si poterono opporre alla resistibile ascesa del predappiano. Se è pur vero che, rielaborando materiali già pubblicati sulla rivista, nel suo mirabile saggio sulla lotta politica in Italia, pubblicato alla vigilia dell’assassinio di Matteotti, Gobetti scriverà, con penetrante intelligenza, che il fascismo «è stato l’autobiografia della nazione»[20], sebbene egli vi aggiungesse l’amara considerazione secondo la quale «una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, dovrebbe essere guardata e guidata con qualche pre­cauzione»[21], ancorché proseguisse l’acuta disamina osservando che dal nuovo regime «il trasformismo giolittiano è stato ripreso con più decisi espedienti teatrali»[22], laddove sostiene che «il mussolinismo è dunque un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l'abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza»[23], per finire a domandarsi se «dovrà ineluttabilmente l'Italia rimanere condannata dalla sua inferiorità economica a questi costumi anacronistici e cortigia­ni»[24], egli ci lascia qua sospettare di non esser mai stato sfiorato dal dubbio che proprio in tale profluvio di elementi eristico-estetici consistesse la modernità, sia detto con costernata ironia, della dittatura; ma noi, testimoni del culto feticistico dell’impersonalità che, al tempo in cui la compiuta miseria capitalistica si dissimula sotto alle etichette e sotto al vuoto pneumatico di confezioni dell’estrema opulenza, ha sostituito quelli novecenteschi delle personalità fittizie o falsificabili, noi avvertiamo un profondo affetto ed umanissimo per la seria e studiosa intelligenza del torinese quando conclude, dissipando attorno a sé ogni equivoca aura esoterica, che «a questo punto è evidente che una nostra profezia riusci­rebbe troppo interessata e per quel che non nasce dal contesto spetta piuttosto all'iniziativa del lettore»[25].
Con animo che ambisce ad una filologia possibile, operante nell’èra in cui lo stream of consciousness, in cui si espresse un secolo fa la libera fantasia dell’arte letteraria, si è venuto cristallizzando in una lista di comandi eseguibili da compilatori consenzienti alle loro stesse condizioni di impotenza o di impossibilità, filologia la quale ci garantisca nondimeno di discernere tra ciò che non nasce e ciò che non muore, cogliamo dalle cronache teatrali gobettiane dell’ultimo periodo, quello durante il quale, avviata ormai l’impresa della Rivoluzione liberale, diradò l’assiduità dell’impegno e la sua firma o lo pseudonimo di Giuseppe Baretti si alternarono alla meno illustre di Umberto Calosso, vi cogliamo una sostanziale coerenza tanto dei propositi e dei conseguimenti quanto dei limiti e delle manchevolezze. Se non può non destare meraviglia l’erudizione e la fluidità espositiva allorché egli disegna un rapido ma vivido schizzo di storia delle culture nazionali europee senza mai compromettere la limpidità delle deduzioni concettuali con la ricchezza descrittiva delle invarianti specifiche, sebbene veneriamo in lui il coraggio di voler andare a sradicare fin nelle scene del Goldoni le radici delle erbacce che hanno infestato il raccolto della produzione drammaturgica italiana, segno che la sua indagine critica non sottostà a criteri meschini, né vincolati ad obiettivi contingenti, nondimeno notiamo che Gobetti si disfa di tutta l’abituale sagacia quando giunge ad affermazioni troppo brusche e sbrigative che, seppur ne chiarifichino le posizioni ideologiche, lo fanno scapitare nei confronti del nucleo genuino della sua stessa ricerca. Commentando la supposta crisi del teatro italiano come un fatto inesistente, buono soltanto a dar occasione di chiacchiera a pennivendoli a corto d’idee, aveva scritto che «gli impresari sfruttano in quanto altri si lascia sfruttare, ossia in quanto altri non è in grado di compiere questa funzione che essi esercitano»[26], proposizione dalla quale osservava con cinico piglio contemplativo la questione della proprietà dei mezzi di produzione, professando una certa devozione e una certa fede nella borghesia di cui già si era reso il critico intransigente. Parimenti crediamo che egli difettasse per assuefazione alla divisione capitalistica del lavoro intellettuale laddove andò sostenendo che:

Il teatro deve essere giudicato come fatto d'arte di libera creazione, non per le sue qualità teatrali (esteriorità e rapporto col pubblico): dove l'arte è fallita non deve preoccuparsi il critico di indicare le funzioni pratiche dell'opera che ne risulta, o se ne può occupare non più come critico, ma come osservatore di fenomeni sociali. D'altra parte è incontestabile che storicamente il teatro vive di una funzione pubblica, corrisponde a specifiche situazioni sociali: lo spetta­tore vi cerca un suo ideale pratico (di cui l'arte è soltanto un momento). Tra opposte esigenze morali, sentimentali, politiche la libera creazione è costretta, impedita; trionfa attraverso infi­niti sforzi, incompresa, disprezzata.
È chiaro che il tormento di questa creazione si svolge a fatica e niente affatto a suo luogo nel teatro moderno, tra le presenti esigenze di capocomici, impresari, pubblico. Il pubblico do­vrebbe parteciparvi e non può se non è preparato. L'arte è fatta per pochi, per i pochi che possono viverne, soffrirne.[27]

Condividiamo buona parte delle testi sopra affermate, ma il loro tono d’insieme è già improntato a quella disillusione nei riguardi della materia eletta a proprio campo d’indagine che già altri hanno sottolineata[28]. Soprattutto ci rincresce che, pur avendo saputo stigmatizzare i capocomici che andavano allora per la maggiore, uno Zacconi per le maniere ed i vezzi cui addestrava un pubblico infingardo e rotto ai più sciatti espedienti della ciarlataneria, oppure un Gandusio di cui spiegò il successo nel fatto che «egli si presenta al pubblico come qualcosa che interessa in quanto compie una serie di atti che ci si aspettano e suscitano simpatia»[29], Gobetti non riuscì a farsi al contempo osservatore dei fatti sociali abbastanza fine da elaborare, se non retrospettivamente, che su altrettanto vieti ed impudichi canovacci si veniva allestendo la recita triviale dell’ascesa fascista. Compito odierno, per gli intellettuali che vogliano prendere sul serio se stessi e il mondo in cui si trovano a vivere, è di acquisire una tale tempestiva lungimiranza.
La concreta libertà espressiva, sotto la divisione del lavoro capitalistica, è possibile solo in forme preistoriche ed illusorie, le quali, per appannaggio di contraffattiva retorica o esplicito interesse propagandistico, si sono volute e potute magnificare nei miti del genio, della donna o dell’uomo di superiori levature e virtù. Poiché, d’altronde, in regime di “libera iniziativa” un qualsivoglia cretino che abbia da parte il suo bel gruzzolo, in contanti o falso prestigio, riuscirà a far fuoco e fiamme – talora tanto alte e maestose da lasciarsi vedere anche al di là degli orizzonti, in virtù dei ritrovati di tecniche ottiche up-to-date –, laddove il genio, o anche il semplice uomo d’ingegno, vi finirà dritto al rogo, il primo fumo da dissipare attorno ai nostri passi, incamminati sui sentieri a venire, è quello che ce li fa credere liberi durante quest’unica volta – a sentir bene esaltante – cui capita loro di proseguire, quali sensibili esploratori in predicato ed in sospeso tra ciò che è morto e ciò che non è nato. Aggiungendo una parola che non sia mai d’ordine, ché si possa intenderla bensì quale tenace viatico alla liberazione, detta a bassa voce in cognizioni soggettive e consapevoli, scritta in caratteri minuscoli nei nostri viventi desideri: omnia fiant communia.




[1] Piero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Cappelli, Bologna 1924.
[2] Antonio Gramsci, Neutralità attiva ed operante, in “Il Grido del popolo”, 31 ottobre 1914.
[3] Antonio Gramsci, La rivoluzione contro il “Capitale”, in “Avanti!”, 24 novembre 1917.
[4] Antonio Gramsci, Contrasti, in “Avanti!”, 3 Ottobre 1917.
[5] Antonio Gramsci, “La finestra sul mondo” di Veneziani al Carignano, in “Avanti!”, 15 Dicembre 1918.
[6] Antonio Gramsci, “Il giuoco delle parti” di Pirandello al Carignano, in “Avanti!”, 6 Febbraio 1919.
[7] Piero Gobetti, Critica drammatica, in “Energie Nove”, serie I, n.2, 15-30 Novembre 1918, p.23.
[8] Antonio Gramsci, “L’uccello del paradiso” di Cavacchioli al Carignano, in “Avanti!”, 20 marzo 1919.
[9] Antonio Gramsci, “Acidalia” di Niccodemi all’Alfieri, in “Avanti!”, 8 aprile 1919.
[10] Antonio Gramsci, “L’ultimo nemico” di Mazzolotti al Carignano, in “Avanti!”, 20 maggio 1919.
[11] Antonio Gramsci, “Nino er boja” di Monaldi allo Scribe, in “Avanti!”, 2 giugno 1919.
[12] Antonio Gramsci, Emma Gramatica, in “Avanti!”, 1 luglio 1919.
[13] Piero Gobetti, Ultime produzioni, in “L’Ordine Nuovo”, 9 gennaio 1921.
[14] Antonio Gramsci, “Anfissa” di Andreieff al Carignano, in “Avanti!”, 14 novembre 1920.
[15] Piero Gobetti, Eleonora Duse, in “L’Ordine Nuovo”, 9 maggio 1921.
[16] Piero Gobetti, Eleonora Duse, in “L’Ordine Nuovo”, 9 maggio 1921.
[17] Piero Gobetti, Un’attrice: Alda Borelli, in “L’Ordine Nuovo”, 21 aprile 1921.
[18] Ibidem.
[19] Piero Gobetti, Ancora di Alda Borelli, in “L’Ordine Nuovo”, 28 marzo 1921.
[20] Piero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Cappelli, Bologna 1924.
[21] Ibidem.
[22] Ibidem.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem.
[25] Piero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Cappelli, Bologna 1924.
[26] Piero Gobetti, Un problema che non esiste – paradossi sulla crisi del teatro, in “L’Ordine Nuovo”, 14 agosto 1921.
[27] Piero Gobetti, Il teatro sperimentale, in “L’Ordine Nuovo”, 5 marzo 1922.
[28] Cfr. Giorgio Pullini, La critica militante nel teatro italiano del primo novecento, studi offerti a Mario Fubini, Liviana, Padova 1970; Edo Bellingeri, Dall’intellettuale al politico: le “Cronache teatrali” di Gramsci, Edizioni Dedalo, Bari 1975.
[29] Piero Gobetti, Antonio Gandusio, in “L’Ordine Nuovo”, 10 aprile 1922.




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