mercoledì 6 dicembre 2017

La storia e la visione

recensione di Gabriella Valera Gruber
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, Lecce, 2017)


«A coloro che parleranno lingue non ancora conosciute».

È la dedica in epigrafe a Romanzo per la mano sinistra di Giancarlo Micheli. Il lettore che ha seguito Micheli fra prosa, poesia e saggistica si è ormai abituato alle sue straordinarie visioni che abbracciano il mondo e percorrono diversi continenti; ai vasti scenari in cui si rappresentano storie coerentemente focalizzate su alcuni personaggi che emergono dallo sfondo di un’umanità molteplice e in movimento: quasi un contrappunto fra la presenza e l’anonimato.
Storie in cui il tempo della Storia si dilata in un futuro che è rigenerazione perenne.
Recita il prologo di Il fine del mondo (Giuliano Landolfi Editore, 2016):

Mentre il momento a lungo presagito si compiva nel regno del visibile dinanzi alla spiaggia di Aiyetoro, pochi chilometri a nord del delta del Niger, i pensieri di Mark e Sophie si componevano in univoca armonia
di percezioni e formulavano all’unisono una medesima domanda: Chi sono io?” “Io sono colui che sarà”[1].

E un vichiano ritorno alle origini della specie ravviva desiderio di puro amore, «l’alba dell’umanità».
Nella raccolta di versi La quarta glaciazione (Campanotto, 2012) Micheli elaborava l’idea che l’umanità non abbia ancora attraversato tutti i suoi stadi di trasformazione; la metafora di una nuova èra glaciale annunciava quindi la mutazione da cui potrà sorgere la vera umanità.
Tutta l’opera di Micheli si accende di queste visioni: convinzione, modo di costruire il paesaggio che ci sta di fronte, lungo un cammino che, pur passando attraverso la storia, le sofferenze, le degenerazioni della specie, prosegue fino al luogo che le sarà idoneo, fino alla umanità nuova.
In Romanzo per la mano sinistra il grande sfondo è l’Europa contemporanea. La lingua è complessa, talvolta ‘cercata’ come si cerca una verità, sempre capace di farsi strumento e sostanza di conoscenza, dal momento che, senza nominarle, non possiamo conoscere le cose, le persone, le intime sfumature dell’essere. Voci e registri diversi adeguano il timbro linguistico ai personaggi che vivono le mutazioni antropologiche in atto durante le fasi di passaggio della storia. Né mancano inflessioni dialettali o lessici tecnici e specialistici, quando necessari. Questo impegna il lettore all’immersione nei contesti che abitano lo scenario. I romanzi di Micheli quasi intimidiscono dapprincipio per la ricchezza di cultura contenuta nelle loro pagine, ma si è poi attratti nella complessità dei mondi rappresentati e se ne diviene compartecipi.
Romanzo per la mano sinistra è un’opera dalla mole evidente che l’autore ha spiegato aver richiesto almeno sei anni di impegno per la documentazione e la stesura. Ogni capitolo è introdotto con un titolo scelto da una raccolta di proverbi che Giuseppe Giusti dette alle stampe a metà dell’Ottocento, agli albori quindi delle ricerche storiche sulle origini vive della lingua. Ne risulta una struttura che può essere letta anche come una serie di commenti, per contrasto o per analogia, a ciascun detto popolare. Fin dal titolo viene denotata una posizione fondamentale di significato politico: se le prassi politiche di destra conducono, come l’opera dimostra con studiosa serietà, alla catastrofe, il romanzo prende decisamente la via complementare, senza per questo aderire necessariamente alle scelte con cui le sinistre hanno risposto o sono tuttora inclini a controbattere.
La vicenda abbraccia gli eventi storici novecenteschi dal periodo tra le due guerre alle lotte studentesche degli anni Sessanta e Settanta, in virtù dell’artificio delle lettere che il protagonista, il medico psichiatra Stefan Bauer, scrive al figlio Bruno, esponendovi le tribolazioni che coinvolgono lui e la madre, Adele Ascarelli, nella realtà del nazismo, del fascismo e del comunismo: entrambi ebrei erano destinati alla fine nei campi di sterminio.
Nella forma epistolare viene veicolata, tra le generazioni, l’esperienza dell’oltraggio e delle persecuzioni patite.
Non si saprebbe dire se, come anche è stato scritto, vi sia in questo romanzo un afflato epico. Troppo ‘contemporaneo’ il suo snodarsi tra momenti lirici e registrazione quasi asettica, da osservatore che narra (la voce narrante che regge il romanzo sostenuta e quasi sostituita dal momento unificatore dell’attenta osservazione), per ascrivere il romanzo di Micheli a una forma letteraria chiaramente definita.
La straordinaria ampiezza di prospettive impegna a una lettura non ingenua: il racconto intreccia le vicende di figure della politica, della cultura, della psicoanalisi, del cinema, dell’arte figurativa, esponenti della vecchia nobiltà e religiosi, una foltissima compagine di personaggi storicamente reali, i quali però finiscono per comporre, loro, lo scenario fittizio, mentre i personaggi d’invenzione, i due protagonisti ed il loro figlio, oltre ad alcuni altri minori, sono quelli effettivamente reali, che cercano di sfuggire alla rovina. Storia e vite: la trama si fa trascinante, si viene emotivamente coinvolti dalla sorte dei protagonisti e dalle minacce che li sovrastano.
In una pagina toccante Stefan Bauer assiste al primo esperimento con il monossido di carbonio per la soppressione delle lebensunwerte Leben, le «vite inadatte alla vita», secondo la terminologia invalsa tra i medici del Reich, che l’autore cita con rigore filologico.
Sotto il regime nazista la ritualità delle celebrazioni veniva pedissequamente osservata nelle circostanze delle peggiori atrocità, le quali apparivano, cionondimeno, autentiche conquiste di civiltà. Tutto ciò Micheli lo narra senza ostentato sdegno, in un tono pacato ed incisivo, di miglior efficacia nell’avvicinare il lettore ad una reale comprensione di quegli abomini di quanto non sarebbe stato ogni pathos tragico.
Quello stesso lettore era entrato nella storia attraverso una pagina di grande poesia. È la prima lettera di Bruno al figlio:

Nella primavera del 1937 passai le vacanze nel salisburghese ed ebbi modo di fare un’escursione fin lassù, nei pelaghi dell’aria in cui la roccia però affiorava ancora del tutto nuda, intatta dall’opera umana, dove lo spettacolo del volo delle aquile si offre in circostanze davvero maestose e impressionanti, soprattutto nelle giornate limpide, quando una luce tersa e cristallina incide quasi un’aura risplendente attorno alle ali e alle piume dei fieri animali; sui loro contorni ritagliati nell’azzurro apre come una fulgida ferita, tanto che si sia vinti da un orrore intimo e vertiginoso se l’empio occhio della bestia brilla, per un istante, nel tremore del tuo; in un attimo incommensurabile si contempla la sofferenza che dalla sua glaciale pupilla è rigettata su ciò che è altro da sé, annientata, soppressa ben prima che un istinto indifferente e predatorio l’abbia concepita.[2]

Può apparire strano che, a fronte di una storia terribile, piena dell’insipiente ironia di vite perverse tronfie e ingannate, il senso della sintesi tragica si avverta qui, in una pagina introduttiva in cui non c’è la Storia, ma l’infrangersi dei raggi del sole, esplosi dalla fotosfera, e l’incommensurabile sofferenza di occhi umani e animali che si incontrano tremando.
Il respiro epico della natura incontaminata è premonizione, istinto predatorio e fulgida ferita: prima di ogni concepimento, visione di un fine che vorrebbe dirsi Giustizia, ma è controverso da indicibili complicati concepimenti, laddove, recita il titoletto dell’ultimo capitolo, “chi è giusto non può dubitare”.
E non si sa, nel contrappunto fra titolo e testo, se l’Autore creda che la Giustizia, come la Verità, siano lingua possibile in qualche futuro del mondo o la speranza, per trovare la via della giustizia, debba farsi dubbio.
Gabriella Valera Gruber




[1] Giancarlo Micheli, Il fine del mondo, Giuliano Landolfi Editore, 2016, p. 5.
[2] Romanzo per la mano sinistra, D’Aquila non nasce colomba, p.7.



Speranza e ironia

recensione di Sergio Dalla Val

pubblicata in Literary (n.11, 2017)

Alla conclusione della lettura di Romanzo per la mano sinistra, mi sono reso conto che era forse dai tempi in cui mi cimentai con le pagine di Thomas Mann che non m’impegnavo, non m’incuriosivo, non combattevo con un testo letterario come mi è accaduto in questo caso. In effetti, ricercando meglio nella memoria, la stessa impressione la ricevetti da un grande della letteratura italiana, non a caso ignorato dal sistema mediatico, Francesco Saba Sardi. Come in Orellana, Dottor sottile, Gonçalvo o la menzogna, nel Romanzo per la mano sinistra ho sentito emergere una cultura straordinaria, una scrittura impareggiabile, la capacità di attraversare la storia, la politica e le ideologie in modo penetrante, attraverso la forma del romanzo. Del resto, sia nel caso di Saba Sardi che di Micheli, richiamarsi al genere classico del romanzo è limitante: c’è sì una trama – il protagonista, Stefan Bauer, psichiatra moravo, che ha fatto una tranche di analisi con Ferenczi ed incontra Adele Ascarelli, studiosa d’arte napoletana, proveniente da una ricca famiglia di ebrei tessitori; l’amore che sboccia tra i due nei giorni in cui la guerra si va annunciando; il figlio, frutto della loro passione, Bruno, il quale nascerà a conflitto ormai iniziato e, soprattutto, a peregrinazione iniziata, poiché, alle prime ostilità antisemite, la famiglia si vede costretta alla propria personalissima diaspora: in Ucraina, dove Stefan lavora per l’intelligence sovietica, per poi divenire ufficiale medico tedesco tra Berlino e la Parigi occupata, ed ancora infiltrato nella flotta inglese ad Alessandria d’Egitto, nel tentativo di difendere i suoi affetti e la sua tradizione in mezzo all’immenso guazzabuglio che è la vita politica, culturale e sociale europea, prima e durante la guerra –, ma c’è soprattutto, dunque, lo scenario. L’autore ci racconta l’ascesa del fascismo, del nazismo, le vicende belliche, gli interventi contrapposti dei vari servizi segreti; ciò che però supera la forma classica della narrazione consiste nella traversata di due aspetti fondamentali della storia del Novecento: quella delle istanze culturali dell’epoca e, segnatamente, della psicoanalisi. Se storia privata e storia del pianeta s’intrecciano, lo fanno anche perché non sono tanto i fatti a parlare, quanto piuttosto i loro riflessi nei vissuti dei protagonisti, siano essi volgari, arroganti o prepotenti come i vari gerarchi tedeschi – Heydrich, Göring, Himmler, ciascuno in cerca del suo spazio o dei suoi piaceri –, siano i corrispettivi italiani – i Ciano, Vittorio Mussolini, Pavolini –, ma siano anche gli esponenti dell’arte o del cinema, tra i quali gli autori dei film dei cosiddetti “telefoni bianchi” come pure i più engagées. Si ritrova, pertanto, anche il racconto della nascita della Mostra cinematografica di Venezia, le sue collusioni con il regime, le banche e Confindustria. In un capitolo ambientato proprio sul Lido di Venezia, si assiste, ad esempio, ad un colloquio tra Jacques Prévert, Michel Carné, Jean Renoir e Leni Riefenstahl, durante il quale i personaggi citano Bataille nel dibattere questioni di estetica e temi d’attualità, cosicché – e questo è l’elemento di eccezionalità – si avverte che tutta la situazione politica ed economica non può essere compresa se non si tiene conto di tali aspetti, delle prese di posizione, asservite ovvero dissidenti al potere, che caratterizzano la scienza e l’arte del periodo. Toccante e tragico è infatti il racconto delle sperimentazioni condotte nei campi di concentramento, ed il lettore può cogliere a pieno il senso di tali atrocità grazie alla spiegazione, che gli viene fatta, delle correnti filosofiche reazionarie, di Nietzsche o di quei teorici che Galli qualificherebbe nel campo del “nazismo magico”, l’armanismo o l’ariosofia, poteri o saperi più o meno occulti che lavorano sottotraccia la storia ufficiale. Di queste molteplici trame il protagonista si trova orecchiante, partecipe o, in qualche circostanza, perfino travolto, all’interno di una composizione grandiosa. Si è così messi davanti a simultaneità di eventi che risultano significative: in un medesimo capitolo apprendiamo delle riunioni in cui si decidono i destini della Polonia e di ciò che avviene, intanto, tra i cineasti e le loro troupes; oppure, la ribellione della val d’Ossola e i contemporanei incontri tra Churchill e Stalin, o quelli tra il ragionier Cuccia ed altri giovani intraprendenti che già si preparano a spartirsi l’Italia che deve ancor venire. Non vengono neppure sottaciute le lunghe fasi di preparazione alla costruzione della bomba atomica, con vivide e sorprendenti disamine che hanno per protagonisti Oppenheimer, Fermi o von Neumann. In ciò Micheli miscela con maestria una paziente ricerca documentale (ed in alcuni casi produce materiali davvero di grande interesse e finora tenuti in sordina) all’invenzione letteraria, la quale, del resto, non stona ed anzi aggiunge valore cognitivo al testo; ne riesce uno spaccato che illustra in profondità un momento determinante per il resto del Novecento, tant’è che se ne seguono gli sviluppi e le conseguenze durante il dopoguerra, il ruolo svolto in quel frangente dal Partito Comunista, i suoi rapporti con il movimento operaista e gli sforzi di ricondurlo nell’alveo della legalità democratica, tramite un affresco, non meno particolareggiato di quello in cui venivano con ironia sublime denunciate le aberrazioni nazifasciste, dove compaiono stavolta Mario Capanna, Toni Negri, i redattori di “Quaderni rossi”. Ma dicevo che la categoria del romanzo è limitante anche perché più che queste vicende personali e collettive, tipiche del romanzo, la protagonista di queste pagine è la scrittura, la scrittura della ricerca, che, senza giungere alle sperimentazioni dell’avanguardia, è intessuta da una sintassi e da una frastica che va oltre i limiti della grammatica, e, pur mantenendo l’eleganza della lingua italiana (Micheli, toscano di Viareggio, non ha bisogno di andare sull’Arno per lavare i panni sporchi), si avvale della ricchezza di una retorica straordinaria, perché non ordinaria. Gli ossimori, le metafore, le metonimie, fino alle catacresi, non sono esercizi di stile, staccano le vicende dal realismo del fatto per giungere alla fabula, che indica che il racconto è trama e tessuto di scrittura di sogno e dimenticanza, non di fatti.
La psicoanalisi viene toccata e coinvolta principalmente per via delle vicende di Marie Bonaparte, cofondatrice della Société Psychanalytique de Paris e moglie di Giorgio di Grecia, cogliendone perciò i legami con le vicissitudini che travagliarono la penisola ellenica anche e soprattutto dopo la stipulazione dei trattati di Yalta. A completamento del suo ciclo di studi all’Università di Vienna, Stefan Bauer era stato autore di una tesi sulla psicopatologia del potere, sottoposta all’esame persino di Sigmund Freud, un testo che però sarebbe finito poi nelle mani sbagliate: Freud lo legge e lo loda, ma lo passa a Jones, mentre invece Stefan crederà di poterne seguire le tracce fino a Marie Bonaparte. Si tratta di un esempio tipico del modo in cui si articola la presenza del protagonista, affinché egli appaia come la guida del lettore all’interno delle stanze del potere, là dove Hitler se la prende con l’infingardaggine dei suoi generali o Mussolini si sente ora potentissimo, ora tradito. Con una fine tecnica narrativa, che include la funzione dello straniamento (più freudiano - das unheimliche – che brechtiano) e alla quale Micheli ricorre in numerosi passi, espone gli eventi senza esplicitare le identità di chi vi partecipa, le quali vengono svelate solo alla fine del dialogo o del capitolo, a mostrare come non siano i soggetti a tirare le file degli eventi storici, bensì la trama di quelli ad impigliarli secondo il caso, la necessità e le situazioni. Tale tecnica raggiunge il suo apogeo, e pertanto un’ulteriore evoluzione, nell’episodio in cui Bruno Bauer visiterà la riunione dei redattori di “Quaderni rossi”: qua i personaggi da lui incontrati non verranno qualificati che attraverso i loro nomi di battesimo, sebbene il lettore avveduto sarà senz’altro in grado di riconoscerli, ma in maniera più autonoma e significante di quella filtrata dagli schemi del consumo culturale.
Concludo con alcune considerazioni sul titolo dell’opera, nel quale convergono non pochi degli interrogativi che essa pone. Senza dubbio, esso richiama le vicende politiche, quanto alle quali, se un’ironia tragica connota sempre le fazioni reazionarie, pure la sinistra non è risparmiata, ad esempio nella fallace bonomia con la quale Concetto Marchesi avvia i protagonisti a cercare rifugio in Ucraina, laddove proprio da lì cominceranno le loro dure tribolazioni; nondimeno, ritengo di poterlo interpretare anche sullo spunto offerto da un altro episodio, in cui Stefan e Ada visitano, nel corso del soggiorno a Padova, la loggia dei Carraresi e vi vedono un dipinto di Guariento di Arpo, contemporaneo di Giotto nato a Piove di Sacco, dove è raffigurato l’Arcangelo Gabriele che, mentre con la mano destra infilza il demonio, una specie di piccolo animaletto intento a ghermire l’anima di un uomo, con la sinistra tiene una bilancia, la bilancia della psicostasia, quella che dalle concezioni teologiche del tribunale di Osiride, attraverso il pensiero greco e l’iconografia cristiana, è divenuta per noi la bilancia della giustizia. In un mondo sconvolto dall’odio, dalla ferocia, dalla volgarità, da qualsiasi forma di bassezza, in cui conta solo sopravvivere, esiste pur tuttavia qualcuno che porta avanti istanze di giustizia e nutre questo anelito verso l’umanità futura. Ma forse anche questa speranza è ironia.
Sergio Dalla Val

intervista Raciocittàfujiko

intervista a Giancarlo Micheli
a cura di William Piana
per la trasmissione radiofonica


Un eroe del tempo non ancora nostro – epistolario gramsciano 1908-1926

un saggio di Giancarlo Micheli

pubblicato in “Rivista di Studi Italiani” (Anno XXXIV, n.3, dicembre 2016)

e nel volume Envoi Gramsci (Campanotto, Udine, 2017) a cura di Neil Novello


Scrivere dell’epistolario gramsciano adesca a ricomporre – tramite le vicende di vita che furono il materiale diegetico del vasto corpus soggiaciuto, nelle stratigrafie filologiche, a numerose collazioni ed a qualche espunzione – una più generale biografia della nazione, che ambisca a fondamenti narratologici di migliori coerenza e completezza rispetto a quelle nei cui termini Piero Gobetti consegnò, con pur euristica lucidità, una descrizione oramai classica del complesso storico del fascismo, il quale d’altronde ha perseverato a proiettare la propria ombra peculiare, con buona pace del vigente regime globale, sulla società italiana, ben oltre la caduta del Ventennio e fino ai giorni nostri.
Nel novembre del 1926 Gramsci venne arrestato e recluso, in isolamento assoluto, nel carcere di Regina Coeli, sotto l’accusa di tessere trame antipatriottiche in quanto membro della Terza Internazionale. Si era nell’anno in cui il regime mussoliniano compì una svolta decisa in senso repressivo, fatto che ha autorizzato alcuni analisti a suffragare l’interpretazione in base alla quale una prima fase del governo fascista non possedesse i caratteri tipici del totalitarismo, indice di una certa persistente recalcitranza a scrollarne le polveri autoritarie dalle circonvoluzioni cerebrali e dai vezzi della patria psicologia, segnale di un atteggiamento che, pur volendosi astenere da soverchia malizia critica, parrebbe quasi corroborare la tesi secondo cui un’aristotelica temperanza delle libertà democratiche non sia in fondo un male[1]. È in ogni epoca preferibile a chi detiene il potere aiutare il popolo bisognoso ad assolvere il proprio nocivo o inutile passaggio terreno, piuttosto che consentire che esso appronti gli strumenti attraverso i quali creare le figure immanenti della propria autocoscienza.
Negli anni in cui alcuni presentivano la crisi di Wall Street mentre altri ne procuravano i presupposti, gli atti della comunicazione, per mezzo dei quali la conoscenza, umanistica o scientifica, è assurta nel frattempo al ruolo di ancella della sovrana dialettica del dominio sulle risorse cognitive e naturali, avvenivano in qualche modo alla luce del sole, soprattutto se paragonati all’irretimento nelle nebbie narcotiche sprigionate delle ciminiere ideologiche del presente, emananti cortine pseudoplotiniane in molteplici livelli sovrapposti, simili agli epiteli di una cipolla, cosicché allo sfogliarli uno ad uno, secondo metodi induttivi o deduttivi, si producano gli effetti del pianto, e così adiabatici al calore dei sentimenti reali quanto le emozioni di un manager o di un advisor delle multinazionali sono separate da quelle di un bracciante delle monoculture intensive. Oggi, alle soglie del quarto lustro del millennio, le durezze fisiche della detenzione carceraria, assieme a tutta la mitizzazione di esse che ne è passata alle coscienze – si pensi in un eteroclito arco costituzionale che va da Sade a Blanqui, da Nievo a Pertini –, esprimono un arcaismo nel linguaggio del potere, tale da evocare regressioni, più comunemente ascritte alla temperie medioevale ma per le quali un’analisi dettagliata consentirebbe di rinvenire recrudescenze finanche atavistiche. La misura contemporanea della coercizione sta in una ben affinata e più efficace censura dei messaggi a livello connettivo, giacché il sistema di virtuale permutabilità assoluta dei valori semantici e semiologici annulla i luoghi del senso, assorbendo ogni scarto, cui l’esistenza si appiccichi a guisa di etichetta – taggare –, nella falsa narrativa o propaganda di regime. Il profilo sottotraccia, rispetto agli abusi emotivi che il “discorso del padrone” dispensa all’ecumene degli animales laborantes e dei sata insumentia, infarinati con spolveri di teologie messianiche o apocalittiche, sfornati al giusto grado di cottura per la consumazione in carneficine sufficienti a trarre esiziali plusprofitti nel corso della fase suprema della loro caduta tendenziale – i tassi d’interesse pagati dalla Federal Reserve sono prossimi allo zero sin dall’inizio dell’attuale crisi economica, epifenomeno di una più profonda, antropologica e biosistemica, a titolo di dichiarazione fallimentare del modo di produzione capitalistico, quale emerge persino spudoratamente nella fabula della grande impresa universalista di rimediare alle nocività e agli sconvolgimenti climatici, nuove colonne d’Ercole apparse all’orizzonte dell’oceano di lacrime, menzogne e cataboliti che viene svenduto alle future generazioni, sopra le quali vadano a crollare come su una nuova miriade di filistei affinché sia rivelata, alla fine dei tempi, l’identità del colpevole –, il basso profilo riservato all’intellettuale nella contemporanea e mediatica selva oscura consente che assai di rado si sia costretti a braccarlo tra pruni e sterpi con metodi primitivi, segregarlo o anche semplicemente farne una vittima da immolare al gusto artificioso degli appassionati di cronache giudiziarie. [...]

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[1] Scrive Ernesto Ragionieri in Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1976 (IV, p. 2121-2): “Giustino Fortunato, che vide nel fascismo una “rivelazione” delle ataviche tare della società italiana, parlò nel giorno della marcia su Roma della ʻfine della borghesiaʼ. Ma fu proprio Benedetto Croce, ad ammonirlo, secondo la logica di un marxismo ad uso delle classi dominanti, che ʻla violenza è la levatrice della storiaʼ”. Cfr. Giorgio Amendola, La “continuità” dello Stato ed i limiti storici dell’antifascismo italiano, in “Critica marxista”, Quaderno n.7, Roma 1974.

Atti dei convegni Lincei 292 - Attualità del pensiero di Antonio Gramsci

recensione di Giancarlo Micheli


Il testo rende conto all’oceanica maggioranza di quanti, qualsivoglia siano stati gli specifici impedimenti di ciascuno che in potenza la componga, non poterono assistere al convegno di studi, tenutosi nei giorni del 30 e 31 gennaio 2014 presso la sua sede di palazzo Corsini, che l’Accademia dei Lincei volle dedicare all’attualità del lascito cognitivo di Antonio Gramsci, esibendo purtroppo una duplice lacuna relativa agli interventi pronunciati nella circostanza da Carlo Ossola e Edoardo Vesentini. Non siamo in grado di lumeggiare al semplice lettore curioso, né all’attento e filologicamente consapevole, i motivi di tali espunzioni. Sul corpo storico in cui venne organandosi la società di dotti che, durante il Ventennio, subì un rituale smembramento[1], topico della congiuntura politica, la doppia mutilazione è armonicamente ripartita, giacché l’esimio esegeta di Ungaretti avrebbe discusso di temi pertinenti[2] alla Scuola di Scienze Morali, introdotta nella struttura del sodalizio in forza dei decreti esecutivi di Quintino Sella[3], laddove l’insigne matematico si sarebbe dedicato ad illustrare i rapporti del pensiero del nativo di Ales con le scienze naturali, tema di ovvia competenza della Scuola di Scienze Fisiche, la quale costituì l’unica sezione del benemerito istituto dal 1603, anno della fondazione, fino al 1874. Il pregio indubbio che ne fa consigliare caldamente la lettura è la ricca bibliografia che si può ricavare dai tredici interventi superstiti, dai quali emerge la quasi unanime occorrenza, per quel che riguarda i meriti teoretici riconosciuti all’autore dei Quaderni del carcere, dell’elaborazione del concetto di “rivoluzione passiva”[4], strumento euristico particolarmente congeniale ai nostri tempi, in cui i conflitti sociali sono globalmente amministrati tramite il dosaggio di vaghe cognizioni e manifesto ottenebramento operato dall’industria delle comunicazioni di massa. Il volume riuscirà dunque molto istruttivo a coloro che desiderino farsi un’idea propria delle modalità attraverso le quali le forme del dominio ideologico includono nelle proprie prassi e metodologie le personalità intellettuali alle quali, nella residua autorevolezza del sapere scientifico che caratterizza una civiltà ormai capillarmente estetizzata secondo gli scopi del profitto capitalistico, sia consentita la ribalta della genialità entro i ripetitivi palinsesti di una cultura umanistica che non esca dal circolo vizioso di un’onnipotente disperazione. Così, chi sappia non lasciarsi intimidire dalla cospicua mole di erudizioni specialistiche e ben vigilate fraternità interdisciplinari, potrà far tesoro di un bel saggio di Giuseppe Cacciatore sulla centralità in Gramsci del principio di “filologia vivente” e sugli sviluppi del metodo dialettico che esso ha procurato nei lavori di Edward Said[5], volti alla paideia di una “filosofia della prassi” che sia resa servibile alle esigenze di liberazione del presente, quindi di una sagace interpretazione di Giuseppe Vacca delle peculiarità antideterministiche del marxismo gramsciano, di una perspicua analisi di Giorgio Lunghini[6], la quale, infulcrata sui rapporti tra il recluso di Turi e Piero Sraffa, mette in rilievo le acute intuizioni del primo pure sul terreno tecnico dell’economia politica, nonché dei contributi di matrice storiografica proposti da Alberto Burgio, Giuseppe Galasso e Giuseppe Ricuperati, particolarmente apprezzabile quest’ultimo nel ricapitolare le varie fasi della ricezione dell’opera gramsciana presso la comunità degli specialisti italiani. Dall’apporto di Guido Liguori, e in minor misura oltre che secondo un taglio prettamente sociologico da quello di Arnaldo Bagnasco, si apprenderà poi dell’eco che le riflessioni di Gramsci abbiano avuta su scala planetaria: negli Stati Uniti soprattutto, grazie alla International Gramsci Society, ma anche nel comparto dei subaltern studies, esemplati dalle ricerche condotte in India dal gruppo di storici raccolti attorno a Ranajit Guha. Un discorso a parte meriterebbero il testo di Roberto Antonelli, inteso ad isolare gli aspetti “disinteressatamente” letterari dell’autore sardo, o quello in cui Michele Ciliberto indaga gli atteggiamenti di lui verso la tradizione del pensiero politico umanista (Machiavelli e “l’uomo del Guicciardini”), o ancora la disamina, schizzata da Luciano Canfora, della posizione gramsciana rispetto al parlamentarismo quale emerge dal confronto con quelle di alcuni tra i politologi più significativi a cavallo tra Otto e Novecento. Completano il volume un resoconto sullo stato della nuova edizione critica affidata a Gianni Francioni[7] ed una noterella del giurista Pietro Rescigno sull’esperienza del diritto come si evince dagli scritti della celeberrima vittima del regime carcerario fascista.
Qualora, dunque, sulle graticole della moderna scienza borghese le braci della passione per la verità non siano del tutto spente, soffocate da un estremo investimento postfordista, oggi come ieri, potrà soffiare sul fuoco delle metamorfosi cognitive e fisiche – necessarie per superare la preistoria dell’umanità e per far accedere, con piena tutela di diritto, le donne e gli uomini di questo nostro “mondo grande e terribile” in uno nuovo ed infine abitabile – soltanto chi, per dire con Walter Benjamin, parli avendo alle proprie spalle il vento della Storia.



[1] L’Accademia dei Lincei venne commissariata dal regime nel 1933. In seguito alle Leggi razziali si procedette poi all’epurazione dei membri ebrei. Infine, l’anno successivo, essa fu incorporata all’Accademia d’Italia, dalle cui ceneri poté rinascere solo dopo la Liberazione.
[2] Il programma del convegno, riportato di seguito all’indice del volume, menziona, a conclusione della prima giornata di studi, il titolo dell’intervento di Carlo Ossola, Gramsci e il teatro, il contenuto del quale però non compare nel testo stampato.
[3] Il Regno d’Italia provvide ad una rifondazione dell’Accademia, la quale comportò, appunto, anche l’introduzione della Scuola di Studi Morali.
[4] «In effetti, il nesso tra “rivoluzione passiva” di Vincenzo Cuoco, “rivoluzione-restaurazione del Quinet” e guicciardinismo appare già nel Quaderno 8, quando Gramsci si chiede se questi concetti non possano essere utilizzali per definire le “rivoluzioni dell'uomo del Guicciardini”: per esprimere “il fatto storico dell'assenza di una iniziativa popolare unitaria nello svolgimen­to della storia italiana e l'altro fatto che lo svolgimento si è verificato come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico, elementare, di­sorganico delle masse popolari con ‘restaurazioni’ che hanno accolto una qualche parte delle esigenze dal basso, quindi ‘restaurazioni progressive’ o ‘rivoluzioni-restaurazioni’ o anche ‘rivoluzioni passive’”. Appunto: “rivolu­zioni dell'uomo del Guicciardini”, come quella di Cavour, il quale “avrebbe appunto ‘diplomatizzato’ la rivoluzione dell’‘Uomo del Guicciardini’”. Del resto, come specifica subito dopo, Cavour stesso “si avvicinava come tipo al Guicciardini”». Michele Ciliberto, Gramsci e Guicciardini. Per una interpretazione “figurale” dei Quaderni del carcere, in Atti dei convegni Lincei 292 - Attualità del pensiero di Antonio Gramsci, Roma, Bardi, 2016, p. 74. Oltre a Ciliberto, affrontano l’argomento in maniera esplicita Burgio (Giudizi analogici e comparatistica storica nei Quaderni del carcere, in Id., p. 78 e p. 93), Canfora (La riflessione gramsciana sul parlamentarismo tra Otto e Novecento, in Id., p. 111-2 e p. 115), Vacca (Materialismo storico e filosofia della praxis, in Id., p. 142-3), Antonelli (Antonio Gramsci: letteratura e vita nazionale, in Id., p. 157-8), Ricuperati (Gramsci e gli storici, in Id., p. 174 e p. 190) e Bagnasco (Gramsci e la sociologia, in Id., p. 237).

[5] «La pratica umanistica insomma, scrive Said, è una “pratica di di­sturbo”. L'umanista, per usare una formula gramsciana che studiava e analizzava lo stile e il compito del grande intellettuale, “deve tuffarsi nella vita pratica” e mantenere aperte le tensioni tra il piano esteti­co e il piano politico (soprattutto quando questo è dominato da ideologie nazionalistico-identitarie), servendosi del primo per mettere in discussio­ne, riesaminare e resistere al secondo. Non è dunque né una forzatura interpretativa né un “fuori luogo” ideologico, restar convinti che si pos­sa dare un significato e una funzione di critica democratica alla filologia che resta, è bene non dimenticarlo, non solo metodo e tecnica di lettura dei testi, ma anche e fondamentalmente un sapere storico-prospettico.» Giuseppe Vacca, Materialismo storico e filosofia della praxis, in Id., p. 55.
[6] «Lo sviluppo delle forze produttive materiali è uno sviluppo necessario e progressivo; tuttavia il tipo umano formato dallo sviluppo capitalistico delle forze produttive è la negazione di tutto quanto di grande, elevato e signifi­cativo è stato prodotto finora dall'evoluzione dell'umanità. Questa connes­sione inseparabilmente contraddittoria del progresso con una degradazione dell'umanità, questo ottenere il progresso al prezzo di questa umiliazione, è il nocciolo reale della hegeliana “tragedia nell'etico”.» Giorgio Lunghini, Gramsci critico dell’economia politica, in Id., p. 217.
[7] Il piano dell’opera prevede una suddivisione in tre sezioni: Scritti 1910-1926 (7 voll., il secondo dei quali è stato pubblicato nel 2007), Quaderni del carcere 1929-1935 (in 3 voll.: Quaderni di traduzioni , Quaderni miscellaneiQuaderni speciali, dei quali è stato pubblicato il primo nel 2007), Epistolario 1906-1937 (9 voll., dei quali sono stati pubblicati i primi due, rispettivamente nel 2009 e nel 2011). L’editore è l’Istituto dell’Enciclopedia italiana.

“Riviste Realtà”


"Riviste Realtà"
ideata da Giancarlo Micheli

una rassegna, a cadenza mensile, durante la quale saranno presentati la storia e i programmi editoriali di alcune testate culturali.
Lo scopo è quello di riaprire spazi di dibattito democratico, ormai soppressi dal dilagare del narcisismo individualista in vigore, fornire punti di vista diversi sulla realtà, che il potere mediatico deforma in rappresentazioni sempre più fallacemente univoche o vanamente contraddittorie.

video del primo incontro/dibattito
svoltosi presso la Biblioteca G. Marconi di Viareggio (17 novembre 2017)
con Marcello Rossi, Lanfranco Binni e Giancarlo Micheli


venerdì 22 settembre 2017

Una nota critica su Romanzo per la mano sinistra

nota critica di Franco Contorbia, Università di Genova
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli
pubblicata in “Literary” (n.6, 2017)

Romanzo per la mano sinistra è un testo ammirevole per la determinazione, davvero massimalistica in tempi di desolante minimalismo, con la quale l’autore ha deciso di confrontarsi con temi che è riduttivo definire alti. A prima vista, il libro si inscrive coerentemente in una stagione che vede una notevole ripresa della narrativa, anche se ho il sospetto si tratti di una ripresa eminentemente quantitativa. Allo spirito del tempo, in realtà, Micheli giustamente non concede nulla e si muove per sentieri impervi e antifrastici, meritando l’attenzione dei lettori capaci di coglierne il senso vero.
Franco Contorbia


Affresco sul dramma del Novecento

recensione di Anna Longoni, Università di Pavia
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli

Qualche anno fa Cesare Segre, riflettendo, in dialogo con Abraham Yehoshua, sul rapporto tra etica e letteratura, si diceva convinto che, in periodi segnati da una grave crisi di valori, nella valutazione di uno scrittore (o nella definizione di un canone) diventa legittimo ricorrere anche a un criterio morale. Perché ci sono tempi, e i nostri lo sono, in cui alla letteratura si deve chiedere di svolgere una funzione di guida e di denuncia. È certo qualcosa di più di una coincidenza il fatto che in questi ultimi anni scrittori tra loro diversi, e di diverse generazioni, abbiano condiviso l’esigenza di tornare a raccontare il periodo della Seconda Guerra Mondiale – si pensi a libri come Partigiano Inverno di Giacomo Verri, Evelina e le fate di Simona Bandelli, o Mi ricordo di Paola Capriolo –, evidentemente mossi dall’esigenza  di risvegliare le coscienze, di continuare in una testimonianza ancora necessaria, di richiamare il lettore alla difesa di valori che si stanno sempre più perdendo.
Anche Micheli sceglie, con lo stesso proposito, di raccontare l’orrore e la ferocia di quel pezzo di Novecento: la narrazione, racchiusa da una cornice che riporta al passato prossimo degli anni Sessanta-Settanta, si concentra su un decennio di storia italiana ed europea seguendo, a partire dal 1937, le vicende di una coppia di intellettuali ebrei, Stefan e Ada Bauer, di origini morave lui, italiane lei, e del loro figlio Bruno, lungo percorsi che da Vienna li porteranno, inizialmente uniti poi separati, in Italia, Ucraina, Polonia, Germania, Egitto, tra persecuzioni, ricatti, complicità e resistenza. La loro storia, certamente eccezionale ma per alcuni aspetti simile a quella di migliaia di altre persone, permette all’autore di disegnare un grande affresco, una mappa che si stende su molta parte dell’Europa, sulle cui strade si incrociano le idee, i pensieri, le azioni dei più importanti personaggi del tempo, protagonisti della storia politica e militare, ma anche di quella culturale: si incontrano così in queste pagine, tra gli altri, Sigmund e Anna Freud, il matematico polacco Hugo Steinhaus e il fisico ungherese Eugene Wigner, Luchino Visconti e Leni Riefenstahl, Angiolo e Laura Orvieto, Bonaventura Tecchi e Concetto Marchesi …
La ricostruzione storica appare sempre molto precisa e, come nel modello manzoniano – ma per un testo ricco di richiami al mondo classico si potrebbe fare anche il nome di Tacito –, l’invenzione di gesti quotidiani, di particolari privati, di dialoghi, si colloca dentro la documentata ricostruzione degli avvenimenti.
Ritornano nel romanzo episodi già “raccontati” nella tradizione letteraria, per i quali Micheli sa trovare accenti nuovi (da antologia, per esempio, la pagina sul primo esperimento di gassificazione), ma vi sono anche vicende meno rappresentate (come l’assedio di Leopoli). Ciò che però soprattutto colpisce è lo sguardo “grandangolare” con cui Micheli, dopo aver messo a fuoco singoli eventi e personaggi, riesce a legarli in un complesso gioco di relazioni, costruendo un arazzo i cui fili si annodano in una trama complessa. Punto di forza è inoltre la capacità di far emergere nella filigrana del presente i segni del passato, e così, per fare un solo esempio, la vicenda di due donne tedesche prigioniere a Ravensbruck in quanto comuniste, caparbie nell’impegno di danneggiare la catena di produzione del campo, riaffiora nei boicottaggi praticati nelle fabbriche milanesi negli anni Settanta.
Il legame tra il passato e il presente si incarna nel giovane Bruno che, una volta diventato adulto, ripercorre la dolorosa vicenda dei genitori, con l’aiuto delle lettere che il padre gli aveva scritto, nella convinzione che il figlio avrebbe potuto completare il percorso di individuazione di sé solo attraverso il racconto in prima persona di quanto lui e la moglie stavano vivendo. Per Bruno, siamo ormai negli anni della Lotta Armata, l’incontro con la verità si traduce, inizialmente, nella decisione di aderire al terrorismo, per punire i responsabili delle sofferenze dei genitori, ma presto cambierà idea. Abbandonata la P38, sceglierà, proprio come suo padre, la scrittura: il suo obiettivo diventa denunciare i crimini nazisti in un racconto “composto secondo lo spirito della giustizia ed affidato alla buona volontà delle donne e degli uomini a venire, e di cui tu, lettore, tieni adesso, tra le mani e la coscienza, il possibile reperto”.
Questo è anche quanto si prefigge Micheli: Romanzo per la mano sinistra vuole essere un reperto che smuova la coscienza del lettore di oggi, cui spesso la voce narrante si rivolge, chiamandolo in causa, provocandolo, costringendolo ad affrontare grandi questioni. Molti sono i temi affrontati: tra i più importanti la responsabilità dell’individuo nella società di massa, a partire da una riflessione su quei “miti carnefici” di montaliana memoria – il negoziante sotto casa, i vicini, le “brave persone, timorate di Dio” – pronti a trasformarsi in una “massa indistinta di fanatici”. Forte la denuncia contro chi, pur senza compiere il male, si astiene dal bene e si fa così complice della comune infelicità e sventura. Decisa e argomentata la polemica contro il capitalismo. E poi ci sono la questione femminile, i limiti del progresso, il ruolo dell’arte. Non mancano veloci incursioni nell’attualità (come accade col riferimento al neo-direttore di “Repubblica”).
Nel panorama letterario di oggi Romanzo per la mano sinistra appare un’opera decisamente spiazzante: già a partire dal titolo, evidente citazione del Concerto per pianoforte per la mano sinistra scritto da Ravel per Paul Wittgenstein (che aveva perso un braccio durante la Prima Guerra Mondiale), e insieme scoperta indicazione di una precisa prospettiva ideologica da cui l’autore guarda e giudica il mondo. Ma soprattutto perché è un libro impegnativo, che richiede una lettura lenta e meditata: il respiro è quello delle narrazioni ottocentesche; l’andamento, lo sottolinea Ferroni nella quarta di copertina, è quello epico.
Spesso la voce del narratore esterno – che per lo più rivela, anche attraverso il frequente ricorso al discorso indiretto libero, il punto di vista del figlio-testimone – e quella del narratore interno – che prende la parola nelle lettere – si intrecciano e, volutamente, si confondono. Lo stile è accuratissimo. Il modello è la concinnitas ciceroniana: la complessità del reale richiede un periodare fortemente ipotattico, rallentato talora da un alto numero di incisi che costringono l’autore a riprendere, con andamento anaforico, la reggente d’apertura. Il lettore più volte deve tornare indietro, mettere dei pezzi tra parentesi per ritrovare il filo, deve ripercorrere le righe, con pazienza, come quando, per comprendere il reale, si devono rivalutare eventi e pensieri. Ma alla fine tutto, sintassi e riflessione, risulta perfettamente calibrato.
Le parole sono sempre esatte, precise, spesso difficili, perché la complessità può solo essere rappresentata e interpretata da una lingua ricca, capace di dire con precisione e di modulare diversi registri (suggestivo è il contrasto tra lo stile alto della maggior parte delle pagine e l’autenticità popolare dei proverbi e delle espressioni idiomatiche poste in testa ai capitoli): perché, ammonisce lo scrittore in un passaggio del libro, la povertà linguistica è uno degli strumenti utilizzati dal potere per soffocare le coscienze, insieme alla promozione della superficialità, che fa “apparire la sapienza, invece che nello sviluppo del pensiero, piuttosto nell’osservazione immediata e nell’immaginazione accidentale”.
È per combattere l’uno e l’altra che si scrivono, e si leggono, libri come questo.
Anna Longoni