Da cosa è nato lo
stimolo per scrivere Romanzo per la mano
sinistra?
Senza dubbio, dal mio
personale punto di vista soggettivo, il desiderio di scrivere questo romanzo è
nato da una molteplicità complessa di motivazioni, alle quali non è stato
estraneo il fatto biografico di esser divenuto padre. Misi, infatti, mano al
primo dei venti quadernetti del manoscritto sul finire dell’inverno del 2011,
pochi mesi prima della nascita di mio figlio Ernesto. Tra i materiali diegetici
di cui il testo si compone, hanno un ruolo portante nell’architettonica
dell’opera le lettere che il protagonista, Stefan Bauer, ebreo moravo
perseguitato per un intreccio di circostanze che rivelano aspetti focali nel
rapporto tra carattere e destino, indirizza al figlio Bruno, il quale le
leggerà a distanza di anni, quando, una volta adulto, raccoglierà dal padre il
testimone di eroe della storia. Cionondimeno, nell’opera letteraria epica,
quale credo Romanzo per la mano sinistra
possa dirsi, il punto di vista soggettivo, foss’anche quello dell’autore e
delle sue maschere testuali, conta quanto quello di ogni donna, uomo o bambino
che abiti il nostro insidiato pianeta.
Da un punto di vista
più generale, d’altronde, l’opera letteraria non solo giustifica se stessa come
totalità coerente di voci e discorsi (plurivocità e pluridiscorsività,
illustrate negli studi del grande teorico del romanzo Michail Bachtin) che, in
ordine ai nessi intrinseci tra di essi stabiliti, costituiscono le leggi
specifiche della composizione, ma chiama a sé l’autore, il luogo
dell’enunciazione, lo postula in una posizione variabile e di volta in volta modulata
lungo lo sviluppo diegetico: in un certo senso l’opera crea, dunque, l’autore
o, quantomeno, l’autore quale appare a chi legge. L’opera letteraria, come la
vedo io, organizza la percezione del lettore per dischiuderla ad un’esperienza
evolutiva, la pone in grado di emanciparsi dai meccanismi costitutivi della
personalità qual è irretita nei rapporti sociali di produzione, prefigura, dunque,
la liberazione dall’universo concentrazionario dell’individualismo dove
ciascuno sconta la vita come pena comminata dalle leggi dell’economia
capitalistica, indica, al di là di ogni prassi costrittiva o anche larvatamente
parenetica, il cammino verso la coscienza di specie. A chi, oggi, abbia la
fortuna di imbattersi in essa, la narrazione che risponda a questo compito
gioverà con la medesima consapevolezza che i lettori eruditi nella lingua
persiana già nel dodicesimo secolo potevano attingere, laddove si fossero
soffermati a meditare i versi di Omar Khayyam: “Dietro un velo avviene il tuo e
il mio parlare/ E quando il velo cade né tu né io ci siamo”. Scrivere oggi un romanzo – intendo uno vero,
non una scimmiottatura tayloristica, a livello di psicologia individuale o di
psicologia di gruppi ristretti, della divisione del lavoro invalsa nella nostra
Waste Land, quella che organizza la distribuzione dei beni d’uso affinché i
ratei di profitto incrementino gli scarti di produzione tanto da congestionarne
lo smaltimento nella polluzione globale di una cronica crisi energetica –
significa partire da questo primo velo, per proseguire a far cadere tutti
quelli che la libera creatività è in grado di opporre alla catastrofe reale.
Le sue parole paiono
‘civettare’ con i postulati del ‘vecchio’ materialismo dialettico. Non le pare
un tipo di approccio alla letteratura ormai ‘suranné’?
Ritengo sia invece tanto
profondamente attuale da esserlo stato in ogni epoca, tra quelle di cui la
coscienza umana ha fatta l’esperienza. Il materialismo dialettico è un canone
di studi molto più serio e composito di quella polvere calcinata (i roghi dei
libri nazisti sarebbero nient’altro che prodromi o sintomi premonitori della
liquidazione delle coscienze alla quale il vigente regime globale assolve con zelo
impersonale) cui le prassi politiche, durante l’intera fase matura del
capitalismo, ne hanno ridotto la struttura, cosicché l’ideologia del
capitalismo, a tal segno infantile ed estremistica da integrare nel proprio
discorso di padroni di giorno in giorno più miserabili tutti i cataboliti
logici delle false interpretazioni invalse, potesse specchiarvi, non senza
profusione di godimento narcisistico, la propria ur-tragica finis humanitatis. Accanto ai capolavori
di Marx – sull’abbrivio dei quali, attraverso l’economicismo staliniano ed
altre nefandezze, la tecnocrazia finanziaria si è oggi resa in grado di
schedare, sulla base provvisoria dei profili di reddito e consumo ancorché covi
il sogno incubatorio di poterli presto determinare a priori tramite huxleyane
profilassi genetiche, il promettente individuo il quale, messosi in viaggio
agli albori della macchina a vapore con tutta l’onesta ingenuità di un Adam
Smith o di un John Stuart Mill, evaso poi per terra e per mare con l’innocenza
di un Melville o con la fatale forasticità di un Rimbaud, acconsente infine alla
cinica unanimità dei delusi di questo mondo e si unisce a loro in un patto più
inesorabile di quello che lo Stato totalitario, in passato, abbia potuto
esigere in forza dei propri dilettanteschi strumenti di repressione –, accanto
ai fondamentali testi del genio di Treviri, sarebbe giovevole tenere in pronta
consultazione, se non quali livres de chévet, l’opera di Engels, le analisi
epistemologiche di Svechnikov sulla causalità, nonché, e direi soprattutto,
alcuni classici del pensiero storicistico marxista, quali Das Prinzip Hoffnung di Ernst Bloch – già anche il meno ponderoso Thomas Müntzer als Theologe der Revolution
concilierebbe meglio la veglia e il sonno di chi desideri raccapezzarsi nel presente
– ed ancora il tetragono Die Zerstörung
der Vernunft di György Lukács. Lo stesso Freud, il cui insegnamento le è
senz’altro caro, sosteneva che “bisogna lavorare, quale che sia lo stato di
salute in cui ci si trova”; a fortiori il lavoro di un poeta e di un romanziere
necessita di impegno continuo e tenace, tant’è che, sforzandomi di tenere il
passo del cuore nel periplo di entrambi gli emisferi cerebrali, proprio nelle
settimane che hanno visto la pubblicazione di Romanzo per la mano sinistra mi è capitato di leggere questo
fondamentale volume lukacsiano. Nella Distruzione
della ragione il filosofo ungherese risponde allo sconcerto, liberalmente
retorico, di chi si interroghi su come sia potuto accadere che una civiltà
tanto ricca ed evoluta da aver dato agli annali della cultura Goethe e Thomas
Mann, Rilke e Brecht, abbia degenerato fino alla barbarie della Endlösung.
Quello che egli fece ricorrendo ai procedimenti ermeneutici argomentativi io
credo di averlo tentato nella sintesi poetica della narrazione, spostando però
– badi bene che tutte queste riflessioni sono compiute post festum, e che io
non mi sono certo messo a scrivere nell’intento estrinseco di risolvere un
problema teorico – l’obiettivo verso il presente, cosicché, credo, il lettore alacre
ed attivo ritrarrà, al termine della lettura, una cognizione più chiara di
quali lasciti, persino insospettabili, del ‘secolo breve’ agiscano a
condizionare la vita odierna, nel cui limbo di impotenza l’industria della
comunicazione di massa vorrebbe irretirlo come in un Lager di eternità
virtuale.
Cosa racconta Romanzo
per la mano sinistra, il suo ultimo lavoro?
Il romanzo unisce la fiction al racconto di episodi
ricostruiti su base documentale e prende l’avvio dalla forma epistolare: si
tratta delle lettere che il protagonista maschile, Stefan Bauer, medico
psichiatra, ebreo moravo nato nel primo decennio del Novecento, indirizza al
figlio, Bruno, dai luoghi di detenzione in cui fu internato durante la Seconda
Guerra Mondiale, in quanto libertario e antifascista. La narrazione svela,
progressivamente, le vicende dei protagonisti (oltre a Stefan, la sua compagna,
Adele Ascarelli, storica dell’arte, ebrea napoletana, madre di Bruno),
seguendole lungo l’itinerario della loro fuga in molti luoghi dell’Europa e del
Vicino Oriente, ed intrecciandole alle vicissitudini storiche del periodo
bellico, delle quali si adombrano i retroscena nella continuità del potere,
cosicché ne risulti illustrata la grande trasformazione dalla propaganda di
Stato al regime mediatico globale. Attraverso il discorso libero indiretto ed
anche in prima voce, compaiono nel plot
i gerarchi della Endlösung ed i
personaggi cruciali della tragedia patriottica da cui nacque la Repubblica
italiana, nonché gli scienziati di ogni nazionalità che prodigarono il proprio
ingegno affinché il conflitto avesse termine con la reale esibizione
dell’ecatombe atomica. Nei capitoli conclusivi, il giovane Bruno Bauer prenderà
parte alla rivolta proletaria e studentesca nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta,
forte della consapevolezza che sia necessario resistere all’ordine vigente, da
lui acquisita anche, forse soprattutto, grazie alla meditazione delle memorie
paterne.
Quindi il tema architettonico del
romanzo, credo di capire, consiste nell’indagine dei rapporti tra le
generazioni?
Sì, poiché sono convinto che
l’idea dell’inutilità dell’opera d’arte sia mistificatoria, storicamente
determinata dallo sviluppo della società umana qual è stato fino ad oggi, dato
che allude capziosamente all’obbligatorietà di un disinteresse per vagheggiare
una purezza dello spirito, proprio ciò che gli istinti organizzati dai rapporti
di produzione bandiscono e perseguitano tramite un’ipocrita pletora di
conformismi e stereotipie. È dunque un ‘concetto civetta’ – non me ne voglia se
mi lascio permeare dal suo lessico – della schizofrenia del capitalismo di cui
Deleuze e Guattari parlarono già negli anni Settanta del secolo scorso. Oggi, l’opera
d’arte letteraria, che all’aurora della modernità si diceva ‘liberale’, è invece
utile a chi la scrive e a chi la legge, come l’opera figurativa o astratta lo è
a chi la compone, la osserva o la intuisce; sempre più sarà così nel futuro, laddove
la specie sopravviva alla propria lunga gestazione. È quello per cui noi
lavoriamo, ricercando con pazienza la serenità che armonizza il sogno e la
ragione.
In conclusione, cosa si augura
dunque di ottenere da questo romanzo?
Mi auguro che il paziente lettore, il quale sceglierà di lasciarsi
coinvolgere dalle sue vicende così come farebbe con una questione privata, o
meglio ancora l’altro, che vorrà sentirsene parte come di una storia più
universale ed infine umana, giunga a conoscere gli effetti che la guerra ha
lasciato nell’animo del figlio dei protagonisti, quando questi vivrà, durante
gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, l’epopea di uno degli ultimi
tentativi di rinascita spirituale e collettiva che la nostra civiltà ha
conosciuto, e non meno giustizia, prudenza, fortezza e temperanza spero gli
vengano in dono dal fatto di aver contemplato le virtù che l’eroe dimostrerà di
aver praticate.
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