venerdì 22 settembre 2017

Una nota critica su Romanzo per la mano sinistra

nota critica di Franco Contorbia, Università di Genova
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli
pubblicata in “Literary” (n.6, 2017)

Romanzo per la mano sinistra è un testo ammirevole per la determinazione, davvero massimalistica in tempi di desolante minimalismo, con la quale l’autore ha deciso di confrontarsi con temi che è riduttivo definire alti. A prima vista, il libro si inscrive coerentemente in una stagione che vede una notevole ripresa della narrativa, anche se ho il sospetto si tratti di una ripresa eminentemente quantitativa. Allo spirito del tempo, in realtà, Micheli giustamente non concede nulla e si muove per sentieri impervi e antifrastici, meritando l’attenzione dei lettori capaci di coglierne il senso vero.
Franco Contorbia


Affresco sul dramma del Novecento

recensione di Anna Longoni, Università di Pavia
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli

Qualche anno fa Cesare Segre, riflettendo, in dialogo con Abraham Yehoshua, sul rapporto tra etica e letteratura, si diceva convinto che, in periodi segnati da una grave crisi di valori, nella valutazione di uno scrittore (o nella definizione di un canone) diventa legittimo ricorrere anche a un criterio morale. Perché ci sono tempi, e i nostri lo sono, in cui alla letteratura si deve chiedere di svolgere una funzione di guida e di denuncia. È certo qualcosa di più di una coincidenza il fatto che in questi ultimi anni scrittori tra loro diversi, e di diverse generazioni, abbiano condiviso l’esigenza di tornare a raccontare il periodo della Seconda Guerra Mondiale – si pensi a libri come Partigiano Inverno di Giacomo Verri, Evelina e le fate di Simona Bandelli, o Mi ricordo di Paola Capriolo –, evidentemente mossi dall’esigenza  di risvegliare le coscienze, di continuare in una testimonianza ancora necessaria, di richiamare il lettore alla difesa di valori che si stanno sempre più perdendo.
Anche Micheli sceglie, con lo stesso proposito, di raccontare l’orrore e la ferocia di quel pezzo di Novecento: la narrazione, racchiusa da una cornice che riporta al passato prossimo degli anni Sessanta-Settanta, si concentra su un decennio di storia italiana ed europea seguendo, a partire dal 1937, le vicende di una coppia di intellettuali ebrei, Stefan e Ada Bauer, di origini morave lui, italiane lei, e del loro figlio Bruno, lungo percorsi che da Vienna li porteranno, inizialmente uniti poi separati, in Italia, Ucraina, Polonia, Germania, Egitto, tra persecuzioni, ricatti, complicità e resistenza. La loro storia, certamente eccezionale ma per alcuni aspetti simile a quella di migliaia di altre persone, permette all’autore di disegnare un grande affresco, una mappa che si stende su molta parte dell’Europa, sulle cui strade si incrociano le idee, i pensieri, le azioni dei più importanti personaggi del tempo, protagonisti della storia politica e militare, ma anche di quella culturale: si incontrano così in queste pagine, tra gli altri, Sigmund e Anna Freud, il matematico polacco Hugo Steinhaus e il fisico ungherese Eugene Wigner, Luchino Visconti e Leni Riefenstahl, Angiolo e Laura Orvieto, Bonaventura Tecchi e Concetto Marchesi …
La ricostruzione storica appare sempre molto precisa e, come nel modello manzoniano – ma per un testo ricco di richiami al mondo classico si potrebbe fare anche il nome di Tacito –, l’invenzione di gesti quotidiani, di particolari privati, di dialoghi, si colloca dentro la documentata ricostruzione degli avvenimenti.
Ritornano nel romanzo episodi già “raccontati” nella tradizione letteraria, per i quali Micheli sa trovare accenti nuovi (da antologia, per esempio, la pagina sul primo esperimento di gassificazione), ma vi sono anche vicende meno rappresentate (come l’assedio di Leopoli). Ciò che però soprattutto colpisce è lo sguardo “grandangolare” con cui Micheli, dopo aver messo a fuoco singoli eventi e personaggi, riesce a legarli in un complesso gioco di relazioni, costruendo un arazzo i cui fili si annodano in una trama complessa. Punto di forza è inoltre la capacità di far emergere nella filigrana del presente i segni del passato, e così, per fare un solo esempio, la vicenda di due donne tedesche prigioniere a Ravensbruck in quanto comuniste, caparbie nell’impegno di danneggiare la catena di produzione del campo, riaffiora nei boicottaggi praticati nelle fabbriche milanesi negli anni Settanta.
Il legame tra il passato e il presente si incarna nel giovane Bruno che, una volta diventato adulto, ripercorre la dolorosa vicenda dei genitori, con l’aiuto delle lettere che il padre gli aveva scritto, nella convinzione che il figlio avrebbe potuto completare il percorso di individuazione di sé solo attraverso il racconto in prima persona di quanto lui e la moglie stavano vivendo. Per Bruno, siamo ormai negli anni della Lotta Armata, l’incontro con la verità si traduce, inizialmente, nella decisione di aderire al terrorismo, per punire i responsabili delle sofferenze dei genitori, ma presto cambierà idea. Abbandonata la P38, sceglierà, proprio come suo padre, la scrittura: il suo obiettivo diventa denunciare i crimini nazisti in un racconto “composto secondo lo spirito della giustizia ed affidato alla buona volontà delle donne e degli uomini a venire, e di cui tu, lettore, tieni adesso, tra le mani e la coscienza, il possibile reperto”.
Questo è anche quanto si prefigge Micheli: Romanzo per la mano sinistra vuole essere un reperto che smuova la coscienza del lettore di oggi, cui spesso la voce narrante si rivolge, chiamandolo in causa, provocandolo, costringendolo ad affrontare grandi questioni. Molti sono i temi affrontati: tra i più importanti la responsabilità dell’individuo nella società di massa, a partire da una riflessione su quei “miti carnefici” di montaliana memoria – il negoziante sotto casa, i vicini, le “brave persone, timorate di Dio” – pronti a trasformarsi in una “massa indistinta di fanatici”. Forte la denuncia contro chi, pur senza compiere il male, si astiene dal bene e si fa così complice della comune infelicità e sventura. Decisa e argomentata la polemica contro il capitalismo. E poi ci sono la questione femminile, i limiti del progresso, il ruolo dell’arte. Non mancano veloci incursioni nell’attualità (come accade col riferimento al neo-direttore di “Repubblica”).
Nel panorama letterario di oggi Romanzo per la mano sinistra appare un’opera decisamente spiazzante: già a partire dal titolo, evidente citazione del Concerto per pianoforte per la mano sinistra scritto da Ravel per Paul Wittgenstein (che aveva perso un braccio durante la Prima Guerra Mondiale), e insieme scoperta indicazione di una precisa prospettiva ideologica da cui l’autore guarda e giudica il mondo. Ma soprattutto perché è un libro impegnativo, che richiede una lettura lenta e meditata: il respiro è quello delle narrazioni ottocentesche; l’andamento, lo sottolinea Ferroni nella quarta di copertina, è quello epico.
Spesso la voce del narratore esterno – che per lo più rivela, anche attraverso il frequente ricorso al discorso indiretto libero, il punto di vista del figlio-testimone – e quella del narratore interno – che prende la parola nelle lettere – si intrecciano e, volutamente, si confondono. Lo stile è accuratissimo. Il modello è la concinnitas ciceroniana: la complessità del reale richiede un periodare fortemente ipotattico, rallentato talora da un alto numero di incisi che costringono l’autore a riprendere, con andamento anaforico, la reggente d’apertura. Il lettore più volte deve tornare indietro, mettere dei pezzi tra parentesi per ritrovare il filo, deve ripercorrere le righe, con pazienza, come quando, per comprendere il reale, si devono rivalutare eventi e pensieri. Ma alla fine tutto, sintassi e riflessione, risulta perfettamente calibrato.
Le parole sono sempre esatte, precise, spesso difficili, perché la complessità può solo essere rappresentata e interpretata da una lingua ricca, capace di dire con precisione e di modulare diversi registri (suggestivo è il contrasto tra lo stile alto della maggior parte delle pagine e l’autenticità popolare dei proverbi e delle espressioni idiomatiche poste in testa ai capitoli): perché, ammonisce lo scrittore in un passaggio del libro, la povertà linguistica è uno degli strumenti utilizzati dal potere per soffocare le coscienze, insieme alla promozione della superficialità, che fa “apparire la sapienza, invece che nello sviluppo del pensiero, piuttosto nell’osservazione immediata e nell’immaginazione accidentale”.
È per combattere l’uno e l’altra che si scrivono, e si leggono, libri come questo.
Anna Longoni

giovedì 21 settembre 2017

Shoah, erranza ebraica, testimonianza

saggio critico di Neil Novello
su Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli

   A un luogo (Vienna), a un anno (il 1937), a una famiglia ebrea (i Bauer), a un topos (la fuga: da Vienna e dalla Storia), lo scrittore viareggino Giancarlo Micheli, nella sua ultima opera narrativa, l'opera-mondo Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017), affida il testimone di un racconto ancorato a un'epoca storica del Novecento, l'apocalittica notte calata sull'Untergang des Abendlandes, il crepuscolo occidentale da cui viene al mondo la tenebra della follia nazista. Stefan e Ada (Adele) Ascarelli, genitori di Bruno Bauer, come peraltro il plot nella parte iniziale del romanzo, vivono entro un quadro di tramonto. Esso è incidentalmente proiettato nella Cappella degli Scrovegni di Padova, visitata dalla coppia, e incarnato nel Giudizio Universale di Giotto. I protagonisti vivono cioè una caduta di matrice storica e riflesso autobiografico. Nondimeno essi dialogano sulla prospettiva aurorale della loro inattesa e nuova vita italiana, anche della vita, rivissuta nel dramma con redenzione di Gioacchino e Anna, genitori di Maria tra i "quadri" della Cappella giottesca, che Adele porta in grembo, Bruno.
   Una tra le grandezze di Micheli, già espressa nel parallelismo Gioacchino-Anna vs Stefan-Adele, risiede proprio nell'accanita applicazione al Kunstwollen (per inciso: Kunstwollen è un termine introdotto nella critica d'arte da Alois Riegl, maestro di Hans Sedlmayr, a sua volta maestro, nella fictio romanzesca, di Adele Ascarelli), un desiderio d'arte espresso nella costruzione del particolare evocante o esprimente un'idea universale (di cui un riverbero è anche Apocalypsis cum figuris di Dürer quale metatesto dell'apocalittica hitleriana). Qui già si comprende, in nuce, la relazione tra la realtà romanzesca e il modello culturale (Giotto, Dürer), anzi emerge con prepotenza che quest'opera-mondo sia concepita dallo scrittore, almeno nella prima parte, sulla dialettica tra il divenire del romanzesco ed exempla culturali di significazione universale, una dialettica predestinante, o per così dire destinale, concretata poi in sistema di riferimento tra i due grandi mondi del romanzo: la storia di Stefan, Ada e Bruno e l'idea di universale divenuta universale: lo scenario apocalittico della Storia.
   Nella sua più evidente presenza narrativa (la famiglia Bauer), Romanzo per la mano sinistra si qualifica allora come un corpo (la famiglia, il loro ebraismo, la loro erranza) vivente dentro a un altro corpo (la Storia). Essa però è anzitutto esposta, per riemergere nel tempo del figlio Bruno, nei lacerti epistolari scritti da Stefan Bauer, il padre. La Storia si qualifica storica per l'appunto nella rilettura, a distanza di anni, da parte di Bruno. Il momento epistolare del Romanzo, quando riguarda la famiglia Bauer non è dunque la traccia scritta di un dialogo al presente (la Storia che si fa storica), è anzitutto l'evocazione, da parte di Bruno, di un mondo perduto rivissuto nel tempo reale del dopo-storia, perduto ma rivissuto quindi nell'ingiallita pagina di missive paterne rimeditate dal figlio alla luce di un'età nuova, un tempo fissato dallo scrittore in una tranche de vie a Robbiano di Mediglia, alla periferia sud-est di Milano. Qui è illuminata una scena a singolo attore, Bruno, l'erede della Storia, in attesa di Heinrich Bütefisch, in tale caso, per Bruno, il simbolo della Storia, destinato a subire un agguato, a morire di una morte violenta. La macchina del plot si immette allora sulla via maestra di un tempo autre, una forma di presente cui è affidata la nemesi storica simbolizzata nel proposito sanguinario di Bruno contro Bütefisch. Ma questa tra il presente (lettura) e il passato (tragedia ebraica dell'Olocausto) è una temporalità disastrata, non lineare, se è vero che Micheli narra per quadri spazio-temporali ovvero il Romanzo è concepito (come altri dello scrittore) seguendo le attrazioni di un modulo, all'apparenza apparentabile al montaggio alternato (nella sua identità letterale): il presente legge il passato perché il passato è scritto per il presente. Un'alternanza in grado però di qualificarsi nella poesia (tragica) di un montaggio per così dire parallelo: il romanziere non guarda alla storia (né alla Storia) come a una sequenza vettoriale (dall'età di Stefan, alla fine degli anni Trenta, all'età di Bruno, gli anni Sessanta-Settanta del Novecento), la ricrea rileggendola - quasi inventando l'obtusus di una terza dimensione del narrabile - nella forma temporale della simultaneità simbolizzata.
   Non potrà dunque stupire il lettore che la Storia a ridosso della Seconda guerra mondiale sia identificata con il nome e l'azione di Hitler (Anschluss, Sudeti, Polonia e poi Norvegia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia etc.), e che l'esercizio del potere nazista accentri la narrazione per convogliarla dapprima nell'alveo della violenza bellica, in seguito nella persecuzione ebraica. Nondimeno Romanzo per la mano sinistra, nel suo discorso volutamente biopolitico spalanca il sipario destinale di vite umane, Stefan e Adele, cavie di una scena della storia in cui la Storia inizia a reagire come un acido corrosivo, una fiamma incenerente la stessa terra su cui ogni uomo (ogni ebreo) vive la vita al tempo delle leggi razziali fasciste, al tempo della tedesca Kristallnacht, al tempo della Shoah. Nella filigrana del romanzo (su cui aleggiano le anime, critiche e inquiete, di Thomas Mann e Sigmund Freud, dioscuri nella tenebra del mondo), la struttura storiografica veicola e dunque esprime il romanzesco, al cui centro le vite di Stefan e Adele sono sempre più risospinte verso il margine estremo di un confine, la vita (residuale) nel passaggio alla deserta terra della non-vita.
   Non sorprenderà sapere, a tale riguardo, che Bruno, oltre a ereditare una parte edulcorata (proprio perché in forma epistolare) della violenza altrimenti sofferta dai genitori, è erede (e dunque testimone) proprio della temporalità terza espressa da Romanzo per la mano sinistra, per l'appunto la narrazione per lettere da parte del padre Stefan. Qui la storia della famiglia appare incardinata alla storia degli ebrei italiani, a sua volta incorporata a una più generale storia del (loro) dolore (dolore persino sognato da Bruno, nella sperimentale prova della camera a gas, nel capitolo Amore fa amore, e crudeltà fa tirannia), lettere che si incaricano, secondo moventi e finalità diverse, di registrare, per un verso i capitoli di un'anabasi nel tragico, per l'altro l'effetto del tragico sull'ultimo testimone generazionale: Bruno e Bruno lettore. A due ideali cervelli o focali narrative bisogna allora associare la voce cardinale del Romanzo, quella egemonica del narratore e quella del personaggio-narratore epistolare Stefan, due vocalità elette a esprimere la dorsale tragica contenuta nell'opera, la caduta nella non-vita incarnata nei Bauer (Stefan, Adele e il neonato Bruno nell'esilio di Leopoli) e la Storia vissuta come ente produttore di inumanità (esemplata, in una tra le sue fisionomie, nelle lacrime della regista tedesca Leni Riefenstahl, presente al massacro nazista di civili nella polacca Gurlitz). L'esperienza di rivivere la storia di famiglia nel brogliaccio epistolare del padre Stefan, per Bruno non figura però la scena di un regresso evasivo-memoriale della mente, è o si traduce (e non solo per il proposito di assassinare, tra realtà e simbolo, Bütefisch) in un progetto di fissazione culturale, la concezione di un «racconto che fosse composto secondo lo spirito della giustizia ed affidato alla buona volontà delle donne e degli uomini a venire, e di cui tu, lettore, tieni adesso, tra le mani e la coscienza, il possibile reperto»:

   Se un sentimento di riconoscenza era maturato in lui nei confronti della madre e del padre - e lo era, in virtù della tenacia con cui entrambi avevano cercato di non privarlo del conforto della loro presenza, fisica e spirituale, sebbene le avversità fossero state loro ostacolo, infine, insuperabile -, allora Bruno si sentì chiamato ad estinguere le scaturigini stesse del male che ai genitori aveva dispensato sofferenze tanto atroci da sommergerli nel flutto dei senza nome né storia; doveva strappare dalla terra dell'anima umana le radici dell'odioso desiderio di morte e di declino, l'atavica e vergognosa sete di sangue.    

   Non è la vendetta del sangue a esorcizzare illusoriamente la Storia né però il libero ricordo come masochistico innesco del dolore, neanche la catarsi dal male (per attraversamento del male) esprime in Bruno il culturale desiderio di letteratura vissuto come momento di guarigione personale. Il suo è invece il sogno dell'altro, l'idea cioè di affidare alla letteratura (la memoria in desiderio di essere trasformata in memoriale) il compito di eleggere sé come testimone del tragico, testimone di futura memoria. Sé, ad esempio, come memoria vivente di un tratto destinale, dalle Lebensunwertes Leben, il programma di eutanasia nazista, l'eliminazione di vite indegne di essere vissute, all'apocalittico "cammino" ebraico verso la Endlösung, la Soluzione Finale, sé infine come testimone di quell'epica età in cui Stefan, Adele (con Bruno bambino) lavorano per l'NKVD in azione di spionaggio, mentre la Wehrmacht già cannoneggia Leopoli, la città ospitante quella particolare fase della loro terribile erranza europea.
   Il romanzo appare così nella veste di possibile pretesto. Non per caso - e lo scrive senza reticenza lo stesso Micheli - il romanzo è anche, o meglio è da leggere come il «possibile reperto», la traccia di qualcosa di più grande, cioè testimoniare, da parte di Bruno, tutto l'accaduto al mondo, rivisitando la straziante avventura dei genitori nel fuoco della follia nazista. Nel Romanzo per la mano sinistra, l'esibizione tecnica del montaggio alternato (anni Trenta vs anni Sessanta-Settanta) si rigenera dunque in una forma parallela (la poesia tragica di Bruno lettore delle lettere paterne), e tale germinazione esprimerebbe, se possibile, una lingua-finesse propria alla struttura romanzesca. Essa parla infatti la lingua dello straniamento - nello specchio-lettere che ha davanti, Bruno non vede sé ma quel che è diventato -, cioè si identifica come effetto di un contrappunto tra la più feroce tragedia del Novecento (non solo la guerra, anche gli addentellati: l'eutanasia, i Lager) e la sua eredità umana (Bruno), pertanto il romanzo proietta sul lettore l'inquieta ombra del dialogo tra la Shoah e la rimeditazione maturata nello slancio testimoniale di Bruno, sopravvissuto al tempo del dolore e della morte.
   Il diario epistolare paterno, archetipo scritto della biografia di famiglia, costituisce dunque l'asse portante di un lavoro testimoniale e persino euristico cui Bruno, archeologo del sapere e archivista della propria autobiografia, va associando, nella sua statutaria identità di testimone, altro e spurio materiale letterario «proteso nell'intento di redigere una personale testimonianza» provvista di «senso letterario», di «significato filosofico», insomma un brogliaccio di «materiali eterogenei» composto persino di «diari di vittime e di carnefici dell'olocausto», di «romanzi e saggi». L'idea del romanzo come pretesto, ripensato come «possibile reperto» di uno sviluppo impensato, è tale perché Bruno sa di avere nella mente e nel cuore l'organismo vivente, vissuto in parte e in parte scritto, di una memoria unica, unica perché resa tale dalla sua presenza. Bruno è dunque idealmente all'opera come un nuovo Raul Hilberg, l'edificatore di quella strepitosa quanto angosciante opera che è Destruction of the European Jews oppure, per altre vie, come quell'esemplare testimone, ma con la macchina da presa a filmare la memoria dei sopravvissuti, che è stato Claude Lanzmann in Shoah. Rileggere le lettere paterne non è però soltanto l'atto di ricostruire ex post la propria autobiografia infantile (lo è in parte, per l'interposizione paterna), è soprattutto l'atto di veicolarla nel nome del padre Stefan e della madre Adele, alfine di ricordarsi (e ricordare) la più terribile pagina del Novecento in un tempo - tra i Sessanta e i Settanta - in cui non più la memoria è la teleologia ultima, ma qualcosa di più catartico: la memoria (collettiva) della memoria (personale). Qui Romanzo per la mano sinistra assume la cifra metaletteraria non già entro un quadro di sterile sperimentalismo ma qualificandone la potenzialità come via pressoché unica allo scopo di attualizzare la memoria riproponendo la verità sia come storia della testimonianza (Stefan, Adele, Bruno) sia come testimonianza della Storia (Bruno).
   Testimoniare la Storia è allora delineare la forma di una duplice catastrofe. Il suo profilo esteriore, cioè la linea di contorno, è tratteggiata dal destino generale di Stefan, Ada e Bruno negli anni della Seconda guerra mondiale, mentre il territorio interno, da cui si sprigionano il terrore e l'orrore, emana invece da presagi di scacco ferale, tra gli altri il ritorcersi su Stefan Bauer della propria tesi di dottorato, Psicopatologia clinica della criminalità, pietra di scandalo presso le gerarchie naziste, determinante - al tempo del poi vanificato incontro tra Stefan e il Führer - allo scopo di chiarire proprio il significato e il senso del lavoro sulla natura del nazismo, eventualità, questa dell'incontro tra Stefan e Hitler, sfumata per ragioni di causa maggiore, tuttavia paradossale inizio della complicità tra Stefan e il nazismo proprio nel campo in cui più tragico è il tragico: la medicina psichiatrica, l'eugenetica. La caduta di Stefan nel Maëlstrom della bestiale violenza nazista, - scrive Micheli - «costretto ad assecondare i loro piani in forza del ricatto con cui essi si premunirono da eventuali deroghe o defezioni: farne pagare ad Ada e a Bruno le conseguenze» (che pure le pagano, vittime di una retata nazista, dapprima internati nel campo di detenzione di Ravensbrück, dopo il fugace passaggio dalla nascente Auschwitz e un colloquio nientemeno che con il capo della polizia nazista, Reinhard Heydrich), culmina laddove il romanzo metamorfosa in una vera e propria narrazione della crudeltà. Il narratore inaugura infatti un capitolo sull'«esperimento» archetipico delle camere a gas in cui trova la morte un gruppo di minorati mentali, ebefrenici, Down etc., sotto l'impressionato sguardo di Stefan, cui toccherà essere il testimone diretto degli infernali protocollo e pratica dell'eutanasia, sebbene ciò avvenga in «servizio ad un regime che odio con tutte le mie forze» - confessa il padre di Bruno alla princesse Marie Bonaparte - «quelle della ragione non meno che quelle del sentimento».
   Non diversamente terribile è la coatta liaison dangereuse di Ada, ebrea napoletana di nobile censo, con il citato Heydrich, cinicamente ricattata dal gerarca nazista in cambio della salvezza, finché in una scena di non comune genio - di cui tutto il merito è dello scrittore - da introvabili l'uno per l'altra (l'erranza ebraica è ora diventata coatta e al di là di ogni idea di diaspora), Stefan e Ada, dopo essersi perduti si ritrovano a un crocevia di destino. Lo studioso di psicanalisi è sopraffatto da ragioni di lavoro (stavolta legate allo spionaggio) per incontrare Göring (non Hermann, ma il cugino, primo gerarca della psichiatria nazista), Ada invece nel disegno di blandire Heydrich per salvarsi la vita e salvare quella di Bruno. Entrambi, Stefan e Ada, si ritrovano in un celebre locale, lo Haus Vaterland, divenuto per gli amanti luogo della vita e luogo fatale se potranno proprio qui concepire un'avventurosa fuga dalla Germania e riparare, per una seconda occasione, in Italia con il soccorso inatteso dapprima ricevuto da Leni Riefensthal, in seguito da Benito Mussolini e da Galeazzo Ciano, che poi candiderà Stefan per infoltire la «rete spionistica» fascista in Nordafrica!
   Se è formalmente un romanzo storico, Romanzo per la mano sinistra è anche un'inchiesta sull'ebraismo nella storia del Novecento, una storia novecentesca ripercorsa da Micheli - con la nota categoria di Benjamin - contrappelo, poiché la Storia non è soltanto un documento di cultura, è anche un documento di barbarie, anzi il punto di vista della barbarie è tale se lo sguardo sul mondo appartiene a chi tale barbarie incarna - figurando ora in Bruno come testimone - nel proprio destino. Se dunque le vite di Stefan, Ada e Bruno bambino costituiscono la filigrana principale della narrazione, la Storia, di cui la famiglia Bauer è nient'altro che una tra le miriadi di appendici, opera per scrivere la loro vicenda esistenziale. Quando Stefan lavora come spia ad Alessandria e quando poi è impiegato come falso segretario di produzione per Ossessione di Luchino Visconti, in realtà spia per conto del regime fascista (lentamente penetrato nell'ambiente promiscuo e comunista di Ossessione!), l'infiltrato non lavora alla crescita della macchina fascista, anche in questo caso subisce la Storia ma come entità, prassi biopolitica. Maturare l'«idea di odiare allo scopo di rendersi invurnerabile all'odio altrui», per Stefan, che attraversa da ebreo colluso l'inferno nazi-fascista, incuneatosi ormai nei gangli del mondo, significa fare di sé, e di tale orizzonte destinale, l'anticorpo in grado di edificare un argine alla stessa possibilità di essere divorato dallo status quo. Lontana ormai dal suo amato viennese, riconciliata in parte con la madre Ester, Ada potrà donare un significato più profondo e verosimile all'odio vissuto da Stefan, alla stregua di un sentimento per così dire auto-immunizzante, se l'atto di «esplorare le macerie di questo mondo per aprirvi una via di senso verso mete utopiche e favolose» (accusa di Ada all'azione di Stefan) non sia icasticamente proprio l'inizio di una auspicata fine del male, l'esperienza necessaria a salvarsi non dall'apocalisse, ma nell'apocalisse trovare che le «macerie» sono necessarie per ricostruire la vita, ad esempio, nella Resistenza.
   Il declino e la caduta del fascismo, il crepuscolo del nazismo, la presenza degli alleati in Italia, l'alacre lavoro, negli Stati Uniti, per la costruzione della bomba atomica identificano la scena di una svolta epocale, il passaggio in cui la Storia, esaurendosi, metamorfosa in boccio memoriale. Il narratore che neorealisticamente pedina Stefan Bauer gioca una partita diegetica su diverse piattaforme narrative, tuttavia non rivela mai il dispositivo del montaggio alternato - in questo, paragonabile a Grossman nella stupefacente dodecafonia narrativa che è Vita e destino -, cioè non istituzionalizza mai la stratificazione interna alla narrazione - avrebbe scritto Ingarden nella sua Fenomenologia -, ma opera per generare, se così si può dire, un effetto-romanzo di racconti.
   Incardinata a varî rivoli di narrazione, la storicità romanzesca di Stefan appare ambigua, enigmatica come quella di un «angelo» onnisciente e insieme assente dal piano della «Storia». Ubiquo e invisibile, Stefan si configura quasi come sovrastorico esemplare di creatura dentro e fuori gli eventi capitali del proprio tempo. Con l'anima dentro al viaggio, annunciato mortale, di Ester (madre di Ada), Ada e Bruno (intravisti da Stefan a Padova, in un camion militare tedesco), diretti dapprima ad Auschwitz e in un secondo momento a Ravensbrück, e anche fuori, tra la caduta di Mussolini, la nascita della Repubblica Sociale di Salò e il sacro, inviolabile interesse collettivo degli avversatori di fascismo e nazismo, perché esautorato dalla lotta resistenziale, ciò per aver anteposto l'interesse personale, determinato dallo straziato desiderio di salvare la famiglia organizzando un attentato con il rapimento di Karl Friedrich Wolff (comandante delle SS in Italia), da utilizzare per un troppo fantasioso e velleitario scambio.
   A questo ulisside della Seconda guerra mondiale, predestinato a un viaggio senza ritorno nel chiuso del radikal Böse, il destino dona esattamente il suo doppio negativo, la negazione di ogni destino ovvero l'idea di fuga nell'imprevedibile, la preclusione di ogni rovesciamento di rotta, infine inchiodata al modulo fisso del personaggio catabatico. Questa di Stefan è allora una fuga dalla Storia e insieme l'impossibilità tecnica, aggredito e dominato da un Es indomabile, demoniaco, dionisiaco, di costruire una storia, sia pure essa quella dell'immaginaria scena di lui insieme ad Ada e Bruno (nella vita di Stefan «quasi alba invisibile nel tramonto che gli allungava l'ombra sui versanti delle rovine» scrive Micheli), cioè il ritratto che meglio d'altri esprime la figurazione del sognatore cui va associandosi nientemeno che il proposito velleitario, immediatamente stroncato dalla Realpolitik del compagno Umberto Massola, di assassinare addirittura il Duce.
   Il folle rêveur di Romanzo per la mano sinistra, sognatore di una storia personale pensata, in maniera irriflessa, come scenario di un'iniziativa individuale difesa contro le più serie progettualità politiche (la Resistenza, il lavoro antifascista del P.C.d'I, etc.), anarchico di un anarchismo reso irrazionale dalla sinistra presenza di un pòthos che trascina l'anima a imprese pazzesche e sovrumane, diviene il solitario viandante (ebreo errante di un'erranza monomaniacale), il pellegrino posseduto proprio dal dèmone del sogno sognato: andare a Ravensbrück, la città concentrazionaria delle donne, per ricomporre - non si saprà mai come - l'infranto trinomio della famiglia Bauer. Non si saprà, poiché Stefan (vittima, tra l'altro, anche del suo inguaribile donchisciottismo) è catturato da un reparto della Decima Mas per essere trattenuto in un campo di concentramento di Bolzano (alla liberazione, è smistato a Roma), campo, questo bolzanino, in nulla paragonabile a Ravensbrück, luogo di lavoro a oltranza e industriale mortalità, abbandonato da Ada e Bruno, salvi all'apparenza per la fortunata intercessione di forze benefiche facenti capo a Marie Bonaparte.
   Narrare la storia dei Bauer dalla fine della guerra - alla luce di un racconto diffuso nell'aperto - significa leggere Romanzo per la mano sinistra anche come un'autobiografia memoriale non-finita. Morta la madre e morto il padre, storie finalmente divorate dalla Storia, la studiosa di pittura nel quadro dell'ultimissimo sussulto inumano di Himmler a Wewelsburg (asfissiata in una camera a gas come racconta, anni più tardi, la contessa Karolina Lanckorońoska, nel Romanzo figura di acme umanitaria), lo psichiatra nel carcere di Regina Coeli, il racconto sembra aver esaurito il raccontabile e la materia narrativa culminare e anzi adunarsi tutta nel testimone, o meglio nell'erede di una testimonzianza di cui Romanzo per la mano sinistra si incarica di raccogliere una memoria non ancora memorabile. Una memoria non memorabile, e per questo in potenza di divenire memoria vivente, se Bruno Bauer, ancorché orfano, non di Stefan e Ada, ma del danno della storia per la vita, contro di essa scatena la propria volontà di pensiero. Pensare cioè di rincontrarsi con il passato incidendo - almeno una volta soltanto, ma che sia per sempre - sul corpo mobile del presente: quel che è accaduto. Il corpo, si vuole dire, di un solo nemico, la realtà del destino storico e personale su cui la nemesi dell'ideale officiante non è che la metonimia di un redde rationem più universale, nel segreto dell'anima ferita desiderio desiderato di una vertigine pari a tutto il dolore vissuto, il desiderio di scrivere (di ricordare, di testimoniare) affidando così la memoria personale - dopo averla rivissuta nella propria anima - a un prossimo in attesa di ereditarne il nome.
Neil Novello


sabato 16 settembre 2017

Le tragedie del Novecento in un romanzo epico

recensione di Matteo Veronesi
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli
pubblicata su “PaginaTre” (luglio2017)


Sembra che, negli ultimi anni, in varie forme, la narrativa, tanto quella d'arte, quanto, in modo ovviamente meno meditato e più schematico, quella di genere e di consumo, abbia ritrovato e riscoperto (forse anche per reagire al frammentismo, alla dispersione, all'assenza di coordinate e di gerarchie propri dello sguardo postmoderno, per ritrovare un rapporto consapevole con la realtà e con la storia, per tornare, insomma, pur se nei modi e nei limiti che le sono propri, uno strumento di conoscenza) un respiro epico, una volontà di abbracciare vasti panorami e di cogliere l'essenza di una stagione e di un clima sociale e culturale.
È questo l'intento che si intuisce alla base del vasto Romanzo per la mano sinistra di Giancarlo Micheli (Manni, Lecce 2017, pp. 635, euro 30), che ripercorre, dalla genesi del nazifascismo fino alle folgoranti, ed inquietanti, carriere post-belliche di alcuni scienziati ed imprenditori collusi con la dittatura e alle ombre del golpe Borghese e della strategia della tensione (ma non senza accennare alla coeva e speculare oppressione sovietica), le linee di forza e di azione politiche e militari che si sono, nel corso del secolo, tese per imbrigliare e stritolare la libertà e la dignità dell'uomo.
Ma non si deve pensare che il romanzo si risolva in una rappresentazione manichea, patetica o moralistica, o in una semplice e monolitica, per quanto legittima, condanna. Fin dal titolo (che allude forse allo straordinario Concerto per la mano sinistra che Ravel scrisse per Paul Wittgenstein), il romanzo immerge gli eventi in un'atmosfera studiata, straniante, ostentatamente artificiosa, sia nelle situazioni e nei dialoghi (che sembrano mantenere una sorta di quasi teatrale formalità, volutamente inverosimile, anche quando sullo sfondo sono evocati i crudeli ed impassibili inferni del Novecento, come se la vita e la storia fossero una recita in cui ad ognuno è già stata assegnata una parte) che nel registro linguistico e stilistico (sempre elevato, sintatticamente tornito, solcato fino all'estremo da sottilissime venature analitiche ed introspettive e riuscire a mantenere coerentemente tale sostenutezza e tale finezza di stile e di tono per più di seicento pagine rappresenta un'ardua sfida, una perigliosa scommessa).
Come a sottolineare, in quest'assenza di moralismo o di ideologismo troppo marcato, in questo tono quasi distaccato, a tratti ironico (anche se con un tragismo sotteso, sepolto eppure ancora vivo e parlante, per così dire, sotto la superficie levigata dello stile e quella insanguinata e dolorante degli eventi), l'impotenza (peraltro mai esplicitamente dichiarata) della parola letteraria fosco alato che leva il proprio volo sul far del crepuscolo di fronte a quegli orrori, a quei paradossi e a quella ferocia con cui pure accetta di misurarsi.
È interessante, in particolare, il modo in cui, nel romanzo, la sfera estetica si interseca con quella tragica, le meraviglie dell'arte (pur dense di significati e di potenzialità conoscitive, e pur evocate dallo scrittore in una luce affascinata e affascinante) assistono, per così dire, inerti, fatalmente impotenti, agli orrori e ai soprusi, come a sancire la possibilità, la seduzione, ma infine l'illusorietà e il fallimento, di qualsiasi catarsi estetica.
È il caso della figura del pio Gioacchino nella Cappella degli Scrovegni (e nei Vangeli Apocrifi), prima respinto e reietto, poi salvato da un radioso intervento angelico; o dell'Apocalypsis cum figuris del Dürer, accostata alla distopia hitleriana; o dei «nastri di celluloide intrecciati in ghirlande di tempo», dei tuffatori trasfigurati in angeli, in Olympia di Leni Riefenstahl, personificato paradosso, quest'ultima, di un'arte che conserva la propria dignità estetica pur asservendosi al potere, e anzi mettendo al servizio di esso quella stessa dignità che pur resta, paradosso nel paradosso, intatta ed innegabile; della splendida, magica visione, della «auratica ed illusoria sospensione» in cui si avvolge una Ferrara divisa fra il Castello Estense, testimone di tutti gli splendori e di tutte le miserie del potere, e le Muse inquietanti di De Chirico, che sovvertono e deformano e straniano ogni prospettiva temporale e conoscitiva.
Forse proprio la dechirichiana maschera che «tracciava dal proprio invertito punto di vista i contorni degli oggetti in primo piano» può essere simbolo di quest'arte narrativa, che (se vogliamo scomodare i maestri del Novecento) raccoglie la «sfida al labirinto», al groviglio, al gliuommero degli eventi scanditi da un'indecifrabile teodicea, e che traccia o tenta di tracciare una «prospettiva della prospettiva» in cui inquadrare e guardare tempi e spazi e figure, senza però avere la pretesa di una soluzione definitiva e rassicurante.
Eppure, infine, sono pur sempre la voce della memoria, la parola della testimonianza, a scongiurare, almeno temporaneamente, lo spettro sempre ritornante dell'oppressione. Grazie alla testimonianza, «il flusso di capitali si interruppe, le camionette militari refluirono nelle caserme, ed al principe del vecchio ordine l'oratio obliqua s'inceppò tra il palato e il pomo d'Adamo». La parola, anche se a posteriori, e pur se nella sua nudità e nella sua fragilità immedicabili, qualcosa ancora può (quasi come l'oscura e disperata, ma vitale, resistenza delle donne di Ravensbrück) contro il linguaggio sordo e pietroso della violenza.    
Matteo Veronesi


venerdì 15 settembre 2017

Un libro per gli amanti della lettura

recensione di Pino Sassano
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli
pubblicata in “Literary” (n.6, 2017)

All’interno di una fase dell’industria editoriale in cui i libri di grosso spessore, sia in termini di ponderosità materiale sia di contenuto intellettuale, intercettano i lettori soltanto in forza della promozione commerciale di cui i monopoli editoriali detengono l’esclusiva, Romanzo per la mano sinistra di Giancarlo Micheli, pur avendo una forma di libro d’una volta, induce a chiamare a raccolta i lettori veri, che non si preoccupano della pagina fitta né del numero delle pagine, ma che godono, ad esempio, di una fluidità della scrittura che qualcuno potrebbe anche giudicare d’antan rispetto alla sintassi che viene utilizzata attualmente, anche nei casi più accorsati e diffusi. Questo romanzo, al di là della presentazione che ne fa Giulio Ferroni in quarta di copertina, tiene conto di due dimensioni fondamentali che permettono al libraio di proporlo: la densità della storia familiare dei protagonisti – una madre e un padre, le cui vicende si interpolano alle lettere che quest’ultimo scrive all’unico figlio della coppia –, ma soprattutto la Storia del secolo che ci ha avvicinato al nostro presente, con particolare riferimento al periodo della Seconda guerra mondiale. L’opera riguarda dunque il tipo di contatto che ci fu tra chi era animato dei più genuini ideali di liberazione e il potere, durante gli anni in cui si scopriva la complessità dell’esistenza umana, tant’è che nel plot compaiono Sigmund Freud, nonché suoi epigoni ed anticipatori, gerarchi del nazismo e del fascismo, statisti e governanti dell’Occidente e dell’Unione sovietica. Il punto di vista e le visioni del mondo sono sempre aderenti alla psicologia dei pur numerosissimi personaggi, sulla vita dei quali l’autore opera una sorta di dilatazione epica, anche in virtù dell’espediente narrativo di coinvolgerli nelle trame segrete di cui la storiografia traccia i punti di emersione nella coscienza comune. Ecco così che il lettore s’imbatte nella polizia segreta dei primi soviet, in quelle fascista e nazista, ed è invogliato a partecipare alle vicende della famiglia ebraica dei Bauer-Ascarelli, ad apprendere l’eredità che il figlio dei protagonisti ne riceve nell’Italia degli anni Sessanta, quando di nuovo l’aspetto del segreto e della ricerca della verità diverrà il tratto decisivo anche della sua personale esistenza.
Romanzo per la mano sinistra è pertanto un’opera che non ha nulla a che fare con i lettori compulsivi, quelli dei saloni del libro, è invece adatta, e forse addirittura indispensabile, a coloro che amano la lettura, giacché lo stile, le modalità in cui i dialoghi vengono ad intrecciarsi, sono fortemente gradevoli, tali da rilassare nelle anse della frase. Anche la descrizione dei paesaggi è condotta in forma finemente dialettica, la quale trasmette il salubre gusto della poesia, alla faccia del fatto che il volume debba venir considerato di difficile divulgabilità.
Pino Sassano