recensione di Matteo Veronesi
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di
Giancarlo Micheli
pubblicata su “PaginaTre” (luglio2017)
Sembra che, negli ultimi anni, in
varie forme, la narrativa, tanto quella d'arte, quanto, in modo ovviamente meno
meditato e più schematico, quella di genere e di consumo, abbia ritrovato e
riscoperto (forse anche per reagire al frammentismo, alla dispersione,
all'assenza di coordinate e di gerarchie propri dello sguardo postmoderno, per
ritrovare un rapporto consapevole con la realtà e con la storia, per tornare,
insomma, pur se nei modi e nei limiti che le sono propri, uno strumento di
conoscenza) un respiro epico, una volontà di abbracciare vasti panorami e di
cogliere l'essenza di una stagione e di un clima sociale e culturale.
È questo l'intento che si intuisce
alla base del vasto Romanzo per la mano sinistra di Giancarlo Micheli
(Manni, Lecce 2017, pp. 635, euro 30), che ripercorre, dalla genesi del
nazifascismo fino alle folgoranti, ed inquietanti, carriere post-belliche di
alcuni scienziati ed imprenditori collusi con la dittatura e alle ombre del
golpe Borghese e della strategia della tensione (ma non senza accennare alla
coeva e speculare oppressione sovietica), le linee di forza e di azione
politiche e militari che si sono, nel corso del secolo, tese per imbrigliare e
stritolare la libertà e la dignità dell'uomo.
Ma non si deve pensare che il romanzo
si risolva in una rappresentazione manichea, patetica o moralistica, o in una
semplice e monolitica, per quanto legittima, condanna. Fin dal titolo (che
allude forse allo straordinario Concerto per la mano sinistra che Ravel
scrisse per Paul Wittgenstein), il romanzo immerge gli eventi in un'atmosfera
studiata, straniante, ostentatamente artificiosa, sia nelle situazioni e nei
dialoghi (che sembrano mantenere una sorta di quasi teatrale formalità,
volutamente inverosimile, anche quando sullo sfondo sono evocati i crudeli ed
impassibili inferni del Novecento, come se la vita e la storia fossero una
recita in cui ad ognuno è già stata assegnata una parte) che nel registro
linguistico e stilistico (sempre elevato, sintatticamente tornito, solcato fino
all'estremo da sottilissime venature analitiche ed introspettive – e riuscire a mantenere coerentemente tale sostenutezza e
tale finezza di stile e di tono per più di seicento pagine rappresenta un'ardua
sfida, una perigliosa scommessa).
Come a sottolineare, in quest'assenza
di moralismo o di ideologismo troppo marcato, in questo tono quasi distaccato,
a tratti ironico (anche se con un tragismo sotteso, sepolto eppure ancora vivo
e parlante, per così dire, sotto la superficie levigata dello stile e quella
insanguinata e dolorante degli eventi), l'impotenza (peraltro mai esplicitamente
dichiarata) della parola letteraria –
fosco alato che leva il proprio volo sul far del crepuscolo – di fronte a quegli orrori, a quei paradossi e a quella
ferocia con cui pure accetta di misurarsi.
È interessante, in particolare, il
modo in cui, nel romanzo, la sfera estetica si interseca con quella tragica, le
meraviglie dell'arte (pur dense di significati e di potenzialità conoscitive, e
pur evocate dallo scrittore in una luce affascinata e affascinante) assistono,
per così dire, inerti, fatalmente impotenti, agli orrori e ai soprusi, come a
sancire la possibilità, la seduzione, ma infine l'illusorietà e il fallimento,
di qualsiasi catarsi estetica.
È il caso della figura del pio
Gioacchino nella Cappella degli Scrovegni (e nei Vangeli Apocrifi), prima
respinto e reietto, poi salvato da un radioso intervento angelico; o dell'Apocalypsis
cum figuris del Dürer, accostata alla distopia hitleriana; o dei «nastri di
celluloide intrecciati in ghirlande di tempo», dei tuffatori trasfigurati in
angeli, in Olympia di Leni Riefenstahl, personificato paradosso,
quest'ultima, di un'arte che conserva la propria dignità estetica pur
asservendosi al potere, e anzi mettendo al servizio di esso quella stessa
dignità che pur resta, paradosso nel paradosso, intatta ed innegabile; della
splendida, magica visione, della «auratica ed illusoria sospensione» in cui si
avvolge una Ferrara divisa fra il Castello Estense, testimone di tutti gli
splendori e di tutte le miserie del potere, e le Muse inquietanti di De
Chirico, che sovvertono e deformano e straniano ogni prospettiva temporale e
conoscitiva.
Forse proprio la dechirichiana
maschera che «tracciava dal proprio invertito punto di vista i contorni degli
oggetti in primo piano» può essere simbolo di quest'arte narrativa, che (se
vogliamo scomodare i maestri del Novecento) raccoglie la «sfida al labirinto»,
al groviglio, al gliuommero degli eventi scanditi da un'indecifrabile teodicea,
e che traccia o tenta di tracciare una «prospettiva della prospettiva» in cui
inquadrare e guardare tempi e spazi e figure, senza però avere la pretesa di
una soluzione definitiva e rassicurante.
Eppure, infine, sono pur sempre la
voce della memoria, la parola della testimonianza, a scongiurare, almeno
temporaneamente, lo spettro sempre ritornante dell'oppressione. Grazie alla
testimonianza, «il flusso di capitali si interruppe, le camionette militari
refluirono nelle caserme, ed al principe del vecchio ordine l'oratio obliqua
s'inceppò tra il palato e il pomo d'Adamo». La parola, anche se a posteriori,
e pur se nella sua nudità e nella sua fragilità immedicabili, qualcosa ancora
può (quasi come l'oscura e disperata, ma vitale, resistenza delle donne di
Ravensbrück) contro il linguaggio sordo e pietroso della violenza.
Matteo Veronesi
Nessun commento:
Posta un commento