venerdì 2 novembre 2018

Si è uomo soltanto in mezzo ad altri uomini


una recensione di Mimmo Grasso a

Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli

pubblicata in “Tempo d’analisi. Paradigmi junghiani comparati” (Anno VII, n.8, 2018)




Le valutazioni che seguono sono quelle di un lettore che, finalmente, non è capitato in un romanzo in cui si leggono amenità del tipo “si alzò dalla sedia sulla quale stava seduto ed andò ad aprire la porta che stava chiusa” né è un libro destinato a durare un tre mesi, il tempo di far ruotare il magazzino della casa editrice. È, invece, un lavoro che metteremo in bell’ordine nello scaffale, tra Manzoni e Balzac o “La Repubblica” di Platone e il “De umbris idearum” di Bruno. 
Romanzo per la mano sinistra, altresì, per profondità d’analisi - che talvolta provoca apnee nel lettore - si distacca nettamente da altri di argomento analogo al punto da raggiungere l’esemplarità, direi antropologica, dell’umano. I fatti narrati possono, vichianamente, riferirsi a qualsiasi periodo storico, compreso il nostro.  Ad esempio, a Bruno, uno dei protagonisti, càpita da bambino di trasferire nel mondo in cui vive i modelli dell’Iliade, narratagli da una anziana signora che ospita la sua famiglia.
Micheli è agito dal bisogno di verità e la verità, dicono i patafisici, è la più immaginaria delle soluzioni. I due esergo del volume dichiarano, il primo, il bisogno di esprimersi in lingue non ancora conosciute (“non ancora conosciute”, non: “sconosciute”, si sa che esistono ma non si sa dove siano né chi le parlerà); il secondo cita Marx e la sua definizione di libertà come abbandono dei meccanismi di produzione capitalistica. Credo sia evidente che per l’autore le lingue nuove potranno essere parlate da chi riuscirà a liberarsi dalla camicia di forza di relazioni sociali e valori come quelli vissuti nel romanzo e che, in vari modi, ma sempre usando il pretesto della religione, allertano la nostra epoca.
Micheli ci consegna un’opera (intendo il lemma come l’“opus” del muratore) che è un unicum.
Come accade sempre dopo aver finito una lettura, ciascuno cerca i “precedenti”, si compiace di confronti, gioca a “vediamo se è vero”. Io non ho trovato subito modelli per questo romanzo e mi sono scoperto a pensare a Garcìa Marquez per compositio e dispositio degli eventi, sviluppati cinematicamente attraverso storie di storie nel senso che l’autore segue diversi personaggi (quasi li pedina), che qui sono comparse e lì protagonisti. Una metafora abbastanza esplicativa degli intrecci di Micheli potrebbe essere quella delle carte da gioco o di un mandala vivente che, compiuto, dovrà essere distrutto, come è destino dei mandala, dall’atomica. Si potrebbero, cosa che ho fatto, accorpare i momenti che riguardano i personaggi, p.es. Mussolini, e scoprire che la loro sequenza forma, appunto, racconti all’interno del racconto, che il gesto di uno genera conseguenze per la vita di uno sconosciuto.
Il romanzo inizia con i due protagonisti principali mentre visitano la Cappella degli Scrovegni, ciascuno dei cui affreschi può essere una miniatura all’inizio dei capitoli del libro, un momento fotografico rispetto alla cinematica dei fatti narrati. Il passaggio dall’immobilità silente della Cappella al tumultuoso ingresso in medias res del capitolo successivo è un colpo da maestro. 
A lettura ultimata di Romanzo per la mano sinistra, ho registrato una profonda dissonanza cognitiva. Mi sono interrogato sul perché di questo fenomeno e cercherò qui di condividerlo.
Vediamo innanzitutto la trama: Bruno, figlio di Stefan Bauer, ebreo moravo, psichiatra, e di Ada Ascarelli, ebrea napoletana, medita su lettere scritte per lui dal padre. La circostanza che Micheli abbia iniziato il romanzo in occasione della nascita del figlio Ernesto è un’ulteriore - e non secondaria - informazione quasi che l’autore abbia concepito il romanzo come un’eredità spirituale per il figlio. Tali lettere si innestano spesso nella trama narrativa; i coniugi Bauer, costretti a peregrinare attraverso vari luoghi e contesti, finiscono per vivere separati, causa anche un certo donchisciottismo di Stefan, e moriranno entrambi: l’una in un campo di concentramento, l’altro, con destino parallelo, in una prigione. Stefan, brillante combattente e pieno di iniziativa, non muore come un eroe, brillando, sia pure nell’esplosione di una granata, ma con un profilo basso: addetto a mansioni di organizzatore e spia in una casa di produzione cinematografica, scompare, anche come comparsa. Stefan è fondamentalmente anarchico ed idealista, è cooptato come infiltrato ora dai russi ora dai tedeschi ora dai fascisti. Partecipa alla Resistenza e finisce per essere guardato con sospetto da tutte le organizzazioni con le quali ha collaborato allo scopo di far sopravvivere la sua famiglia. Il destinatario delle lettere, Bruno - siamo negli anni ’70 -, impugna la P38 consapevole, tra l’altro, che l’epurazione post-bellica operata dalle potenze orientali ed occidentali è stata solo una questione di facciata e che le dinamiche economiche ed imperialiste che diedero origine alle due guerre mondiali persistono, camuffate, per mantenere inalterato il capitalismo, capace di assumere, per sua natura, tutte le forme mimetiche possibili.  Bruno, in nome di un principio superiore e accogliendo l’eredità epistolare del padre (conoscere la verità) abbandona la lotta armata e, crediamo, sia lui quello il cui destino è “parlare lingue non ancora conosciute”, vale a dire creare nuovi mondi, lontani dai paesaggi dei genitori in cui domina un gelo itterico.
Le lettere, per inciso, stampate in corsivo, rinviano a un genere letterario e a un autore citato alcune volte e che, presumo, Micheli ha amato: Seneca. 
Prima di andare avanti, per dar conto di prospettiva e retrospettiva del romanzo di Micheli, dò una mia testimonianza generata dall’interazione con il libro. 
Mio padre partecipò alla guerra d’Africa e combatté ad El Alamein.  Negli anni ’70, tra me, studente e saltuario frequentatore di gruppi extraparlamentari, e lui, rimasto fascista, i rapporti erano, ovviamente, molto tesi. Negli anni ’80 discutevo con mia moglie di Kennedy, assassinato, come sappiamo, nel 1963. Una cugina ventenne, che assisteva alla discussione, chiese ex abrupto: “Kennedy? Chi era?”. Rimasi basito. Ciò che per me era ieri (venti anni tra la morte di Kennedy e il 1980) per lei non era neanche una nozione scolastica.  Questo episodio mi fece capire mio padre: ciò che io conoscevo solo tramite libri o video, una cosa lontanissima e che non mi riguardava direttamente, per lui era la sua gioventù, passata tra cimici, sabbia, digiuni, gavette sporche e odore di polvere da sparo. Aveva creduto nel fascismo, non so se per fede o per adeguamento (ricordiamo tutti le folle oceaniche che riempivano le piazze) e non se ne distaccava perché per lui la guerra d’Africa era ieri. Per avere una retrospettiva critica avrebbe avuto bisogno di vivere altri cento anni. Parliamo molto dell’era fascista ma dimentichiamo, per fare un altro esempio, che Berlusconi è durato per più di venti anni.
Tutti gli avvenimenti del romanzo di Micheli, dunque, sono avvenuti ieri. E oggi siamo appena ad oggi.
A parte Stefan e Bruno, i personaggi non sono fantasiosi. Ad esempio, la nobile e umanitaria Karolina Lanckoronska, morta a Roma nel 2002. Ada Ascarelli apparteneva alla famiglia del fondatore del “Calcio Napoli”, era laureata in lettere e parlava sei lingue. Anche il marito, Enzo Sereni, era ebreo; entrambi si trasferirono in Israele dove fondarono un kibbuz per aiutare i profughi ebrei a fare ritorno in patria. Suo è il libro “I clandestini del mare” (l’analogia con gli immigrati odierni non è forse casuale). Enzo, come lo Stefan di Romanzo per la mano sinistra, morì per aver voluto partecipare a missioni di guerra contro il nazifascismo.
Per chi non ne sia a conoscenza, informo che il comune di Napoli ha di recente stabilito di dedicare l’attuale Piazzale Tecchio a Giorgio Ascarelli. 
Ma mi accorgo che sto tergiversando. Devo rispondere al me lettore in ordine alle cause della dissonanza di cui parlavo. Perché questo fenomeno? Forse la sua causa è la storia narrata? Il periodo in cui avvengono i fatti? I fatti stessi, tra i quali, di provenienza americana, l’eugenetica massificata? Forse l’atteggiamento ragionieristico degli aguzzini, che Hanna Arendt individuò come quello del diligente burocrate Eichmann? Nessuno dei tre motivi mi sembrano sufficienti a creare quel senso di “straniamento”: in fondo, sono abituato a vedere film e documentari dove le atrocità descritte da Micheli sono rendicontate e non mi sono estranee storie analoghe, anche relative al mondo contemporaneo (p.es. Pappagalli verdi di Gino Strada, mine-giocattolo costruite in Italia).
Ed ecco che la frase di Fichte con la quale ho voluto introdurre queste considerazioni diventa molto ambigua. Il filosofo tedesco intendeva dire che è solo frequentando altri uomini che è possibile sviluppare la propria umanità. Ma, considerando il comportamento umano dalla fondazione di Ebla all’attuale New York, forse è meglio non averci tanto a che fare con gli uomini o, conosciuti, meglio starne lontani.
Mi sono accorto che a mano a mano che andavo avanti (ma spesso ritornando indietro) ponevo in secondo piano la storia e che mi interessavano piuttosto le valenze linguistiche, le particolari costruzioni delle frasi, che mi soffermavo sulle descrizioni di paesaggi i quali, mi accorgevo, grazie allo stile antifrastico di Micheli assumevano subito la funzione di simbolo, plurale perché il gelo polacco non è il gelo tedesco.  Poco sopra ho usato l’espressione “gelo itterico”; l’ho prelevata, senza saperlo, da Micheli. Ecco: la mia dissonanza era dovuta allo stile di questo autore perché per chi si occupa di fatti estetici non è importante ciò che si dice ma come lo si dice.
Innanzitutto il lessico: rutilante, composito, spesso appartato e, improvvisamente, unheimlich (perturbante), che attinge a un armamentario tecnico-retorico di prim’ordine, con neologismi e illuminazioni che appartengono al Micheli poeta. Carattere di questo stile è l’understatement, la minimizzazione degli effetti caleidoscopici del linguaggio usato: nulla viene evidenziato ma cade nel discorso con naturalezza, quasi sottotono, come un rumore di fondo.
Perché, poi, un romanzo per la mano sinistra? Il richiamo a Ravel e Wittgenstein è normale e crea l’equivalenza: “abilità compositive di Ravel e pianistiche di Paul Wittgenstein = abilità di Micheli”. Ma se si ascolta l’esecuzione del concerto tenendo sott’occhio anche la partitura, si noterà che le nuvole di suoni e gli stormi delle note sul pentagramma, la loro disposizione autoreplicante, sono analoghe alle nuvole e agli stormi sia linguistici che situazionali di Micheli.
Ma cerchiamo di cogliere la motivazione profonda del titolo del romanzo.
In un’intervista ad un suo recensore Micheli collega la “mano sinistra” al tantrismo Tantra, come sappiamo, è “trama”, “ordito”. Nel Tantra il sentiero della mano sinistra persegue la perlustrazione ed evoluzione del sé ed è considerato molto pericoloso. Himmler, lupo-alfa delle teorie naziste, era frequentatore ossessivo di tutto ciò che poteva essere riferito alla razza-radice protoindoeuropea e il Tantra è tra questi.  Si ha il sospetto che le mani che massaggiano il suo corpo in un momento del libro appartengano a un maestro di questa disciplina. Destra e sinistra sottintendono, fin da Parmenide e le sue due vie, una modalità polare della mente.
Anche nella cultura ebraica si parla di una via della mano destra e di una della mano sinistra, una dicotomia che rinvia a pratiche di magia bianca e magia nera, le cui radici possono farsi risalire alla Y pitagorica, ben nota a Virgilio, e da lui usata per far scendere Enea negli inferi della memoria e del (non ancora chiamato così) inconscio.
Ora, c’è nel romanzo un passo, un’immagine, un luogo qualsiasi in cui compaiono mano destra e mano sinistra indicanti due diversi mondi, peraltro paralleli, quasi una coincidenza degli opposti?
Si, c’è, e sta proprio all’inizio: sono le mani del Cristo della Cappella degli Scrovegni. Alla destra (nostra sinistra) di Cristo ci sono i santi e i beati, compreso un Giotto-Micheli; a sinistra (nostra destra) sono affrescati, come nello stomaco del Leviatano, il Minosse, i disperati e i dannati. È difficile, a questo punto, non visualizzare il triangolo Cristo-Beati-Dannati deducendo che tutta la storia è nelle mani di Cristo e che lui ne è il demiurgo. Si pongono, qui, anche antiche questioni teologiche. È poi difficile immaginare che alla sinistra del Pantocratore (nostra destra: la specularità è qui importante) non vi sia rappresentata l’Apocalisse: la guerra, l’atomica, la bulimia di vite del nazismo, l’occulto e le sue icone, i suoi vessilli alzati dalle truppe di Himmler e mossi da un vento a 440 hz, la terribile e neurocinetica frequenza usata da Wagner al posto della 432, adiacente all’armonia dell’universo.
La cappella giottesca è il luogo segreto in cui inizia la gestazione del romanzo, una bibbia del secolo breve, i cui episodi funzionano come le storie esemplari affrescate e ne assume il ruolo di ancestre. I proverbi introduttivi di ogni capitolo e che, letti di seguito nell’indice, sono un piccolo “libro dei proverbi”, appaiono come cartigli esplicativi di ogni scena dell’affresco storico, sono le sintesi in forma popolare degli eventi, il modo di pensare di Sancho Panza per il quale il cigno non differisce granché dalla gallina e, anzi, è meno utile di questa.
Romanzo per la mano sinistra agisce all’interno del lettore che è costretto a dialogare con i problemi che pone la lettura costringendolo a porsi la domanda che sempre si è posto e dalla quale è sempre fuggito perché la risposta è pericolosa, proprio come il voler seguire il sentiero della mano sinistra. Proviamoci.
La domanda è “come è potuto succedere tutto questo”?
La prima risposta è che tutto ciò non è successo solo nel ’900 essendo innumerevoli gli episodi e le epoche in cui l’armonia del massacro ha suonato i suoi corni e i suoi tamburi. Lo strano è che tutto ciò è successo in un periodo in cui la tecnica, che qui aprirebbe da sola una discussione, si stava rivolgendo come non mai al proprio apice.
La risposta è “tutto ciò è successo per l’irruzione del sacro”.
Cos’è, allora, il Sacro? Il Sacro non è il “santo”, il “sancito” dopo verifica oggettiva. Il Sacro è l’indifferenziato per la sua polivalenza, per il fatto che non innalza termini di confine ma li abbatte tutti. Il Sacro è furibondo: nemmeno Achille può sfuggirgli. Il Sacro mischia principio razionale di non contraddizione (posso essere fanciullo e barbuto); l’effetto precede la causa e il tempo non ha senso come quello che, avendo senso, si costituisce come storia né avverto quel mutamento dello stato di coscienza che chiamo tempo. Il Sacro è, in sintesi, lo zòon, la vita animale, che afferra nelle sue spire il bìos, la vita intellettiva evolutasi dallo zòon. Ed ecco che, nella dinamica prima-dopo, causa-effetto, ciò che sta a sinistra di Cristo nella Cappella giottesca mi sembra venir prima di quello che sta a destra come, addirittura, fondamento e necessità di Cristo. 
Ma dove avviene precisamente e di solito questa confusione? Nel sogno, il grande schermo dell’inconscio che nasconde le sue regole. Le religioni non difendono il Sacro ma, mediante i templi, i canti, i rituali, si difendono dal Sacro, cercano di impedire il contagio del furibondo e della follia che costituisce l’umano (mentre scrivo queste note lo speaker annunzia una nuova forte tensione tra gli USA e la Russia).  Sarebbe stato interessante se Micheli ci avesse dato una sinossi del libro mai pubblicato dello psichiatra Stefan, “Psicopatologia individuale del nazionalsocialismo”. Ma, poi, ci accorgiamo che questo libro lo stiamo, in effetti, leggendo ed è il Romanzo per la mano sinistra.
Nel Sacro, dicevamo, tutto è confuso per cui l’uomo difendendosi dalla confusione si difende da sé stesso alzando templi o zone franche che non devono essere violati se  non  dagli  iniziati, per impedire  al suo Sacro di uscir fuori dalle porte, creando uno spazio antistante al tempio, “pro-fano”.
Abbiamo, oltre al sogno, esperienza quotidiana del Sacro? Certamente: i bambini come Bruno, cioè i soggetti più vicini alla natura rerum, quelli che organizzano e distruggono continuamente il principio di non contraddizione e di causa ed effetto (gli elementi costitutivi della ragione che ci consentono di intenderci l’un l’altro); o il poeta, puer aeternus che ha scelto come area della propria espressività il terreno di gioco del Sacro ma che ha la capacità di rientrare nei margini che ha dilatato per vedere che c’è oltre il senso comune. Il Sacro è pulsione di morte, istinto che fu osservato da Sabrina Spielrein e che, al solo violarlo, o anche solo pensare di violarlo, pretende l’espiazione fisica.  L’armonia di sfaceli è precisamente quella del Sacro.
Le cose che sto cercando di chiarirmi, spesso togliendomi gli occhiali e facendo riposare il libro sulle ginocchia, sono tutte intercettate da Micheli nell’intrecciarsi dei punti di vista di quasi tutti i protagonisti del ’900 e secondo i criteri delle varie discipline da loro praticate o delle azioni compiute o che intuiamo compiranno.
Come e quando è avvenuta questa irruzione? Come mai Himmler si riduce a convocare due veggenti prigioniere in un campo di concentramento allo scopo di assumere informazioni sulle località dove il Duce è tenuto nascosto e la cui morte sarà ritualmente sacrale?
Qualcosa era già nell’aria al tempo di Hölderlin, il folle, quando dice che sono scomparsi gli antichi dei e non si sa quando verranno i nuovi, se verranno. Il folle Nietzsche ha voluto guardare il fondo dell’abisso e ne è stato riguardato come da una Medusa; Madame Blavatsky, che influenzò anche Yeats per il tramite della di lui  moglie, gira per il mondo (soprattutto oriente) e fonda nel 1875 la Società  Teosofica; nel 1899 Freud pubblica L’interpretazione dei sogni; Gurdjev a inizio secolo  suscita un intenso interesse ed ha molti discepoli; è del 1924 il manifesto del surrealismo (o, ambiguamente, surrealista), il suo tentativo di sintetizzare  Marx e Freud. Crowley imperversa in tutti gli ambienti colti e si incontra con Pessoa, affascinato e incuriosito dall’occulto; il primo studio di Jung riguarda il paranormale. Le scosse sismiche si fanno più intense in Occidente dopo la rivoluzione del 1917, quasi una reazione dialettica e fisiologica all’ateismo dei sovietici. Il nazismo accoglie dal profondo i movimenti che, in parte, e solo in parte, abbiamo citato e dichiara che dio non è morto, che si è incarnato, che l’uomo è dio, è al di là del bene e del male, dispone a suo piacimento del potere come dio e parla tedesco. 
Il lavoro di documentazione da parte di Micheli è quantomeno cospicuo e deve essere durato anni. Lo scr-scr della penna sul foglio o il ticchettìo della tastiera del Pc devono essergli sembrati insopportabili e a metà del libro ha avvertito il bisogno di un “tu”, di qualcuno con il quale condividere il vero e il fatto; questo qualcuno è il lettore, cui l’autore si rivolgerà sempre più spesso.
Romanzo per la mano sinistra ci regala informazioni che non avevamo e invita a un focus su molti aspetti del secolo breve. Ho spesso dovuto approfondire queste informazioni e, per quanto mi riguarda, quella che più mi ha colpito è stato scoprire, rinfrescandomi la memoria su Alicata, che sapevo essere denigratore di Rocco Scotellaro, poeta da me amatissimo, che in questo ostracizzare il poeta lucano era in compagnia di Giorgio Napolitano. Credo che questo possa essere un esempio di partecipazione attiva alla lettura, in simbiosi con l’autore.
Il linguaggio usato è tipico degli anni in questione, non alieno da ghirigori barocchi, spinte e controspinte, dai salamelecchi del galateo delle classi egemoni, la sua retorica.
Ma le doti di Micheli si riscontrano anche nei dettagli: p.es., nel modo locutorio di un tassista romano, la cui parlata è resa ortograficamente in modo impeccabile o nel dialetto, un napoletano dell’entroterra, di un operaio e attivista comunista il cui nome, Genoino, richiama necessariamente quello dell’ispiratore di Masaniello.
Quando ho finito la lettura, superata la dissonanza, ho pensato a un altro libro, La tragedia in corpo, dell’antropologa Letizia Bindi, allieva di Lombardi-Satriani, perché lo zòon del capro, espiatorio, i Bauer o chi per loro, è richiamato alla presenza dalla percussione della mano sinistra sulla pelle caprina del tamburo, che è alla base del ritmo e della coreutica tragica, quando il ghenos del ‘900 è entrato anche nel mio sangue e il cui miasma mi ha contagiato.
Penso adesso di nuovo alla Cappella degli Scrovegni. Che strano, non ci avevo fatto caso: l’opera si chiama “Il Giudizio Universale”. Una premonizione dell’atomica?  Prendo una monografia su Giotto e sosto a lungo su Minosse. Mi sembra mi guardi minaccioso, come a dire “verrà anche il tuo turno”; ma so che il mio turno è venuto molte volte, che siamo io i bambini lapidati, la ragazza che a Gaza salva dalle rovine un libro, Caravaggio che scrive il proprio nome nel sangue del Battista. Il libro di Micheli adesso è come la piramide di Tempo dei dejà vu di Remo Bodei.
Ritorno istintivamente a guardare l’affresco degli inferi e ho il sospetto che anche questo mio tornare alla parte sinistra sia una conferma inconscia che il Sacro attrae più del santo e più del santo mi rappresenta.
Sulla copertina del romanzo, un altro affresco - lo si capisce dalle crepe nella pittura. L’artista, Giancarlo Greco ha dipinto la scena che non c’è nella cappella degli Scrovegni: uno dei mostri antropomorfi, come quelli effigiati nella glittica delle cattedrali gotiche, forse un Troll o un Quasimodo, comunque un dèmone, ha appena appeso ad un uncino la carcassa di Prometeo.
Ho l’esigenza di uscire fuori, sul balcone: mi manca l’aria. Procida, Ischia, la doppia stella Diana e un vaporetto che naviga come un giocattolo con le luci accese.
Sulla spiaggia camminano due ombre. Dall’andatura capisco che si tratta di un giovane e di un anziano e, dalla direzione, che si recano a Cuma. “Stanno andando anche loro a interrogare l’oracolo?”, mi chiedo. Il giovane parla al vecchio in modo concitato, come per farsi una ragione di qualcosa. Il vecchio ascolta con la testa bassa, attento (credo) a mettere i piedi sulle impronte millenarie di altri. In mezzo alle posidonie, tartarughe con occhi fosforescenti vengono da un chissà quando sulla sabbia a deporre le uova del taciuto. Un vento cimmerio toglie gli accenti alle parole di quei due. Domani andrò sulla rena a raccoglierli. Il giovane è certamente Stefan, non ho dubbi. L’altro alza indolentemente lo sguardo verso Ecate lunare. Ho capito, è Eschilo: mi rimbomba nel labirinto auricolare la domanda che farà alla pitonessa: “Che c’è di bene? Che c’è privo di male?”.

                                                                        Mimmo Grasso




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Paesaggi della cultura e trasmigrazione degli sguardi


intrecci tra necessità rituale e libertà creatrice nell’arte dell’estremo Oriente



un articolo di Giancarlo Micheli

pubblicato in "Sulla letteratura (On literature)" (Ottobre 2018)





La legge morale nella pelle del serpente



Qualcosa dissolve, a ritroso, nelle profondità della storia, si disfa in fondo ad uno sguardo che, nel tentativo di fissarsi ad un oggetto remoto, finisce per confonderne i contorni al nebbioso paesaggio che, poco fa, quando lo sguardo si levava appena e desideroso di sensibile corrispondenza, lo delimitava ancora entro una forma nitida e tersa. […]



per leggere l’intero articolo fai clic qua (free)

Carta Vetrata_gennaio 2017


un’intervista a proposito di Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017)

per la trasmissione “Carta vetrata” di Radio Città Futura

a cura di Alberto Gaffi e Flaminia Naro

per ascoltare l'intervista fai cli qua (free)

Riviste Realtà


una rassegna, a cadenza mensile, durante la quale sono stati presentati la storia e i programmi editoriali di alcune testate culturali

Venerdì 17 novembre (ore 18) 2017
presso la Biblioteca G. Marconi (Sala Tobino, P.za Mazzini, Viareggio)

"Il Ponte - rivista di economia politica e cultura fondata da Piero Calamandrei"




sono intervenuti

Marcello Rossi, direttore della rivista
Lanfranco Binni
e Giancarlo Micheli



il video dell’evento si può vedere a questo link (free)

Radio Antenna Uno


un’intervista a proposito di Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017)

per la trasmissione “Cafè noir” di Radio Antenna Uno

a cura di Serena Li Calzi e Oreste Vibrati

si può ascoltare l'intervista a questo link (free)

Radio City Trieste


una trasmissione radiofonica dedicata all’opera di Giancarlo Micheli

per la trasmissione “Radio City Legge” di Radio City Trieste

a cura di Giorgio Micheli

si può ascoltare la trasmissione a questo link (free)

giovedì 26 luglio 2018

Storia e umanità

una recensione di Luciano Albanese
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli



Romanzo per la mano sinistra (Manni 2017), di Giancarlo Micheli, consta di 102 capitoli per complessive 635 pagine. Si tratta di un lavoro molto accurato e molto impegnativo, che emerge prepotentemente dal panorama letterario più recente. Racconta, attraverso le lettere di Stefan al figlio Bruno, le vicissitudini di una famiglia ebraica, Adele (chiamata alternativamente col diminutivo Ada) Stefan e Bruno, in un periodo che va dall’annessione dell’Austria alla Germania nazista alla fine del ‘secolo breve’. Lo sfondo delle vicende dei protagonisti è costituito da una folta galleria di personaggi storici, che acquistano una solida autonomia compositiva – a tratti persino preponderante – e costituiscono una sorta di romanzo parallelo rispetto al filo principale della narrazione. Sfilano così davanti a noi Hitler, Mussolini, Freud, Concetto Marchesi, Marie Bonaparte, Ciano, Luchino Visconti, Alicata, Valerio Borghese, Mario Capanna, Feltrinelli, Asor Rosa, Pasolini, insieme ad altri personaggi indirettamente collegati alle vicende principali, come ad esempio Enrico Fermi e gli scienziati di Los Alamos. In effetti una buona metà del romanzo è occupata da questa galleria di personaggi, di cui Micheli, grazie ad un paziente lavoro storiografico, ricostruisce, in uno stile ‘tucidideo’, le conversazioni intercorse. Al punto che potrebbe sorgere il dubbio se il vero sfondo dell’opera siano piuttosto le storie di Stefan, Adele e Bruno, che da questa ottica funzionerebbero da elemento di raccordo.
In realtà i due piani del romanzo si intersecano continuamente, perché i personaggi storici in questione sono, più spesso direttamente che indirettamente, la causa prima dell’odissea dei protagonisti, e quindi della loro tragica fine. Anche una ricostruzione sommaria delle loro vicende – che non credo inutile – è in grado di mostrare quanto e fino a che punto essi abbiano dovuto subire l’iniziativa di chi aveva in mano le leve effettive del potere.
Adele, una storica dell’arte, e Stefan, uno psicanalista, vivono e lavorano felicemente a Vienna insieme al neonato Bruno, quando l’annessione dell’Austria alla Germania nazista li costringe a fuggire in Italia, la patria di Adele. Lì tuttavia nuove difficoltà sorgono in seguito alla promulgazione delle leggi razziali. Dopo una inutile supplica allo stesso Mussolini, i due chiedono consiglio sul da farsi sia a Freud, che, vicino alla morte, li indirizza a Parigi, presso la sua allieva Marie Bonaparte, sia a Concetto Marchesi, che li indirizza verso l’Urss, apparente fucina di un futuro migliore. Decidono per la seconda soluzione, e giungono a Leopoli. Lì Stefan viene contattato dall’NKVD, che lo arruola fra i suoi agenti. Dopo il patto Molotov-Ribbentrop e la spartizione della Polonia, i due ritengono più sicuro trasferirsi a Cracovia sotto la protezione della contessa Lanckorońska. Ma Stefan viene intercettato da ufficiali della Wehrmacht che stanno complottando contro Hitler e intendono servirsi di lui come diagnostico della psicopatologia hitleriana (oggetto della sua tesi dottorale). La congiura fallisce sul nascere, e Stefan viene costretto dai congiurati, per mantenere la sua copertura, ad arruolarsi nelle SS come medico psichiatra. Nel frattempo Ada, ritenendo che della scomparsa di Stefan sia responsabile la contessa Lanckorońska, fugge con Bruno e, mezza assiderata, trova rifugio e momentanea pace nel monastero di Bielany. Tuttavia una improvvisa retata delle SS condurrà Adele e Bruno di fronte al Gruppenführer Heydrich, che invaghito di Adele le prometterà salvezza in cambio di amore.
A Parigi Stefan, nella improbabile veste di ufficiale delle SS, fa la conoscenza di Marie Bonaparte che, praticamente prigioniera nella città occupata, promette a Stefan di occuparsi della sorte di Adele e Bruno, di cui Stefan non ha più notizie, in cambio di un permesso di estradizione che le permetta di raggiungere, insieme al marito, il figlio Pierre in Grecia. Tornato in Polonia, Stefan ritrova miracolosamente Adele insieme al Gruppenführer Heydrich in un ritrovo nazista di malaffare. I due riescono a isolarsi, ad amarsi fugacemente dopo tanto tempo, e a progettare una fuga. La fuga riesce, e aggregatisi fortunosamente a una troupe cinematografica tedesca varcano il Brennero e giungono fino a Roma. Lì Stefan, richiesta la cittadinanza italiana per sé e la famiglia, entra in contatto con Galeazzo Ciano, che conoscendo i suoi trascorsi lo nomina prima agente segreto ad Alessandria col compito di spiare i movimenti inglesi (lì avrà interessanti discussioni su Sabbatai Zevi – una figura che gli sembra particolarmente congeniale – col rabbino della città) e successivamente segretario di produzione cinematografica col compito di spiare i cineasti comunisti che lavoravano a Cinecittà. In tale veste Stefan fa la conoscenza di Visconti e Alicata, che lavoravano insieme alla produzione di Ossessione, che uscirà nel 1943. Sorvolo sulle varie e stimolanti digressioni, come il colloquio di Marie Bonaparte col marito, il rapporto di De Chirico con Ciano (che solleva lo spinoso tema del rapporto fra artisti e regime), il colloquio Ciano-Mussolini su Cinecittà (che adombra l’ambivalente rapporto del cinema italiano col fascismo), per passare alla nuova metamorfosi di Stefan come membro della Resistenza insieme ai cineasti che ha conosciuto, ad Amendola, al ritrovato Concetto Marchesi, ecc.
I rapporti col Pci non sono semplici, perché Stefan è insofferente delle direttive che tramite Togliatti arrivano da Mosca. Prende spesso iniziative personali, ed è ossessionato dall’idea di rivedere Adele e Bruno, che erano rimasti a Firenze (anche per via di forti dissapori insorti fra Ada e Stefan). Ma giunto a Firenze non trova più nessuno: Ada si era trasferita a Roma per riprendere i contatti con la madre Ester (con la quale avrà un importante colloquio, di cui parlerò più avanti). Di lì erano partite per Napoli, ritenuta una città più sicura, ma a un posto di blocco tedesco erano state arrestate e spedite in Germania. Nel corso del viaggio avevano attraversato Padova, in tempo perché Stefan, che non le aveva più trovate neanche a Roma, e ora si trovava nella stessa città in compagnia di Marchesi, potesse scorgerle all’interno di un camion militare tedesco e cadere preda della disperazione. La madre di Ada, Ester, troverà subito la morte a Birkenau, mentre il viaggio di Adele e Bruno avrà come meta finale il campo femminile di Ravensbrück. Lì Adele tenterà fino all’ultimo di assicurare la vita a sé e soprattutto a Bruno in una serie di scene strazianti, ma alla fine riuscirà solo a vedere la salvezza di Bruno – dovuta a un intervento di Marie Bonaparte presso la Croce Rossa Internazionale e il Regno di Svezia – mentre viene separata da lui e trascinata verso una morte orribile.
Profondamente preoccupato della sorte di Ada e Bruno, Stefan commette errori su errori. Espulso dalla Resistenza e dal Pci, Stefan, venuto a sapere della prigionia di Adele e Bruno a Ravensbrück grazie a una lettera di Bruno fortunosamente recapitata, cercherà inutilmente di raggiungerli. Ferito gravemente durante uno scontro con la X Mas e imprigionato, viene poi liberato, ma anche denunciato dai suoi ex compagni come agente collaborazionista di Ciano e del regime. Tornato nella nuova cella inizierà a scrivere le missive che, lette da Bruno, costituiranno il tessuto narrativo del romanzo. Morirà rassicurato sulla salvezza di Bruno, ma straziato dalla notizia della morte di Adele.
L’ultima parte del romanzo vede Bruno, ormai grande, iniziare una vita autonoma, ma sulla sua vita sembra gravare l’ombra delle disgrazie famigliari. Conosce una ragazza, Ombretta, che lo mette in contatto col Pci. Iniziano insieme un rapporto di convivenza e un lavoro politico che li vede attraversare il labirinto variegato della sinistra, mentre si snodano gli eventi che vanno dalla rivolta di piazza contro Tambroni al ’68, all’Autunno caldo e ai primi segni della nascita del partito armato. Deluso dalla sinistra ufficiale, e venuto a conoscenza dei particolari della morte della madre, Bruno progetta un attentato contro un dirigente della IG Farben (la ditta che aveva costruito e fornito a Himmler l’impianto con cui Adele e altre donne – selezionate come vittime sacrificali – avevano trovato una morte orribile), che tuttavia fallisce. L’impotenza di fronte alla storia e ai suoi eventi si palesa di nuovo, e a Bruno non resta che affidare alla pagina scritta la memoria del dolore e dell’ingiustizia subita dalla sua famiglia.
Il lavoro di Micheli è stato definito da qualcuno un ‘romanzo storico’. Qui bisogna intendersi. Il romanzo storico ottocentesco nasce in un’epoca in cui si pensava che la storia avesse un senso, uno scopo, una direzione, e che tale direzione fosse sinonimo di progresso sociale o morale, secondo i gusti. Ma l’opera di Micheli è pervasa da un profondo scetticismo a tale riguardo, lo stesso che viene riversato su Ada nel corso dell’importante colloquio romano con la madre Ester (pp. 370-72). Mentre la seconda ha fede, ed è impegnata a costruire, per sé e per la comunità ebraica, il ritorno nella terra dei padri, Ada ha raggiunto l’età della ragione, e non vede più nella storia la manifestazione di un ordine trascendente, ma solo una combinazione fortuita di eventi. Tale visione disincantata si manifesta non solo nella sottile ironia ‘settecentesca’, e a tratti ‘gaddiana’, con cui sono costruiti i dialoghi fra i personaggi del romanzo, ma soprattutto nel sostanziale fallimento dell’impegno e dell’azione politica di Bruno, che costituisce l’alpha e l’omega del romanzo.
Da questo punto di vista il lavoro di Micheli somiglia più al romanzo antico, ad esempio Le Etiopiche di Eliodoro, dove il sottofondo neoplatonico impedisce di dare alle vicende terrene e alla storia il sia pur minimo significato, e dove la salvezza dei protagonisti si deve solo all’irruzione della trascendenza nel mondo sublunare. Non a caso Merkelbach, nel famosissimo Romanzo e misteri, vedeva nel romanzo antico una metafora delle iniziazioni, unica ancora di salvezza individuale concessa al mondo greco-romano. Con la non marginale differenza che nel lavoro di Micheli, l’abbiamo appena visto, ‘Dio è morto’, e quindi tutte le vicende amorose – quella tra Stefan e Adele e quella tra Bruno e Ombretta – finiscono male, avvicinando l’opera di Micheli più al Partenio di Nicea degli Amori infelici che ad Eliodoro.
L’opera che mi sembra più vicina al romanzo di Micheli è il film Vivere! del regista cinese Zhang Yimou, un apologo sulla capacità di sopravvivere alla storia delle persone comuni. Il film, come è noto, racconta le vicende di una famiglia cinese nel corso di innumerevoli cambiamenti politici, dalla caduta dell’Impero a Mao. I protagonisti, il cui imperativo è vivere e sopravvivere, riescono a passare più o meno indenni attraverso il fiume impetuoso degli eventi, dal quale non hanno appreso altro se non che dalla storia è bene guardarsi e proteggersi. Qualcosa del genere accade ai due protagonisti principali del romanzo di Micheli. Penso soprattutto all’episodio in cui Adele e Stefan, che dopo varie peripezie ed ‘effetti ritardanti’ si ritrovano miracolosamente in una specie di bordello nazista, l’una trasformata in prostituta per spirito di sopravvivenza e l’altro in ufficiale medico delle SS. In una delle scene più belle e drammatiche del romanzo i due riescono ad appartarsi nella toilette, e ad amarsi dopo una lunga separazione. Ad una Adele disperata per la situazione in cui si trova, Stefan dice: «dobbiamo vivere, perché finché siamo vivi ci resta una speranza» (p. 255).
Tuttavia quello che separa Micheli da Eliodoro lo separa anche da Zhang Yimou. La tragica fine di Adele ci ricorda che, come Dio, anche la speranza è morta, e l’avvicina alle eroine dei romanzi di Sade, vittime innocenti all’alba di un’epoca senza luce, in cui non già ‘il sonno della ragione’, ma la ragione stessa genera mostri, procurando alle vittime il tormento supplementare – forse il più crudele dei tormenti – della dimostrazione more geometrico, da parte del carnefice, della necessità della loro morte.
In questo mondo di tenebre non porta luce nemmeno il surrogato secolarizzato del sacro, il comunismo (nel romanzo di Micheli i rappresentanti ufficiali della sinistra non fanno una grande figura). Al fallimento dell’impegno politico di Bruno, passato dal PCI alla lotta armata, dopo aver attraversato in successione le innumerevoli frange della costellazione comunista, corrisponde il fallimento politico di Stefan, allontanato dalla Resistenza da quegli stessi comunisti che poi, venuto alla luce il suo passato collaborazionista, lo faranno marcire in galera, dove morirà di dolore dopo aver saputo della tragica fine di Adele. A ciò fanno puntualmente eco tutte le digressioni che vedono comunisti collaborare di fatto col regime, e ex fascisti pronti a rivestire nuovi panni e a servire nuovi padroni. Senza peraltro le giustificazioni di chi, ebreo come Stefan e la sua famiglia, poteva solo scegliere tra collaborare e finire nei forni crematori.
Da questo punto di vista, un altro testo a cui il Romanzo per la mano sinistra può essere avvicinato è La Storia di Elsa Morante. Anche nel romanzo della Morante la storia si manifesta con l’ineluttabilità e la totale arbitrarietà del destino cieco. Privata di uno scopo, come sapeva anche Hegel, la storia è il banco del macellaio o un romanzo di Sade, dove la virtù è derisa e oltraggiata e il vizio premiato. Micheli, come la sua Adele, è troppo onesto per credere alla filosofia della storia, ma troppo combattivo per arrendersi e gettare la spugna. In assenza di uno Scopo finale con la maiuscola, occorre ripiegare su ambizioni più limitate: la feroce ironia che, come un acido che corrode la parola allo scopo di corrodere la cosa, investe i protagonisti ufficiali della storia, è la spia di una capacità di reazione di fronte alla pigrizia mentale, alla menzogna, alla prepotenza e all’infamia che ancora ci circondano da ogni lato. E il messaggio che trapela è: la storia potrà anche travolgerci, ma non abbasseremo mai la testa di fronte ad essa.
Luciano Albanese



Necessità politico-culturale

una nota critica di Antonio Tricomi
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli

pubblicata in Literary.it (n. 2, 2018)

Romanzo per la mano sinistra è un interessantissimo esempio di rivisitazione attualizzante di romanzo, al tempo stesso, epico (un'epica in nero, ovviamente: vi si racconta un'apocalisse che è la nostra apocalisse) e saggistico, sorretto da una fortissima motivazione civile che gli dà un indubbio tono di necessità politico-culturale.
Antonio Tricomi

Concorso internazionale di poesia Castello di Duino

È stato pubblicato il bando della XV edizione del Concorso internazionale di poesia Castello di Duino, della cui giuria ho il piacere di far parte

Published the call for the XV edition of International poetry competition Castello di Duino, whose panel of judges I have the pleasure to be a member


Amore è cieco e vede da lontano (1a parte)

un  video dal capitolo “Amore è cieco e vede da lontano” (1a parte)

di Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) Giancarlo Micheli


Amore è cieco e vede da lontano (2a parte)

un  video dal capitolo “Amore è cieco e vede da lontano” (2a parte)

di Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) Giancarlo Micheli



Amore è cieco e vede da lontano (3a parte)

un  video dal capitolo “Amore è cieco e vede da lontano” (3a parte)

di Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) Giancarlo Micheli



L’oscuro di ogni sostanza

una recensione di Giancarlo Micheli
a L’oscuro di ogni sostanza (La Vita Felice, 2017) di Francesco Macciò


Nel vuoto quantistico – dove organico ed inorganico coesistono in interazioni talora pacifiche o distruttive ma sempre esoteriche per oceaniche maggioranze che si estenuano ancora tragicamente in cerca di una coscienza di specie – si compiono, adesso, meraviglie cui pochi stenterebbero a conferire i crismi del prodigio e persino del miracolo. La nostra cultura, quella depositata, nel corso dell’effimera contemporaneità quale capitale fisso, miseria attuale della donna e dell’uomo “nel cui cervello risiede il sapere accumulato dalla società”, trascorre accanto, contiene ed esprime tali misteri con indifferenza o ancestrale tremore, sovente con superstiziosa esaltazione, nei fasti cerimoniali dei concetti mercificati, nella propaganda del regime mediatico, nella prassi perversa nelle cui declinazioni la psicologia dell’individuo è ridotta ad etichetta di un’etica religiosa e nichilista. La poesia è la risposta dialettica a tale scena pietosa, è totalità del conoscibile in un tempo durante il quale l’artificiosa divisione tecnica del sapere istituisce una particolare forma storica di totalitarismo. Così, con andamento che rifulge a tratti di esemplarità, L’oscuro di ogni sostanza (La Vita Felice, Milano, 2017) traguarda, entro la misura di un verso vigile e indicante lo sfondo ritmico di una portante enneasillabica, il residuo interstiziale dell’invisibile ed indicibile, al cui cospetto la lingua d’uso, nonché la letteraria quale di lei riflesso incondizionato, si ritrae alla stessa stregua di una membrana omeostatica; la materia poetica di Francesco Macciò affonda, invece, nella malinconia analogica in cui Jean Starobinski fece consistere la propria superba lettura di Baudelaire al Collège de France nell’anno che precedette lo scioglimento, solo ideologico, del dicotomico equilibrio del terrore al di là della cui soglia l’umanità fu relegata alla sudditanza cognitiva ad un “discorso del padrone” che viene facendosi, di stagione in emergenza climatica, monodimensionale man mano che procede alla virtualizzazione colonialista degli atti espressivi. Yves Bonnefoy, goduta l’opportunità di esser presente in carne ed ossa a quel seminario, ne dedusse una finalità civilizzatrice per la poesia e per la critica che le sia vivente corollario: “Di ciò che eccede il senso fare del senso; ai margini della ragione, tra le scorie e i fuochi, operare la sintesi di una ragione superiore”. In tale mirare al punto morto inferiore dello scibile, oltre della morte individuale ed anche dell’estinzione delle specie o delle conflagrazioni cosmiche, la poesia di Macciò si congeda da se stessa quale strumento, linguaggio funzionale ad una codifica cui segua impersonale esecuzione, si incammina dunque incontro all’umanità, sorprende il poeta mentre rivolge lo sguardo splenico allo specchio e vi ravvisa, nel riflesso della propria pupilla, Dioniso che, fissando sé, vede il mondo. “E non importa se era Eco o finzione,/ se desiderio o visione/ questo doppio indizio del vero” sarà avvertito chi giunga alla conclusione della settima tra le Scene in sequenza, sezione centrale della raccolta ed il cui titolo evoca l’empirismo eretico pasoliniano, intenzionato ad evadere nella “lingua scritta della realtà”. Non sarà stato per caso se, nei medesimi anni del casarsese, un altro “suicidato della società”, ai margini del canone inverificato della poesia italiana novecentesca, prese commiato dalle Muse con una raccolta denominata con consapevole irritualità Romanzi naturali, il cui poema conclusivo chiamò Ghigo vuole fare un film, in pieno presagio del Panopticon che, oggi, c’illude e ci prostra. Pertanto, nella penultima sezione della silloge, laddove vi giunge alle Inferenze, Macciò mostra la “[…] sostanza cieca/ che rimane nella carne,/ nel principio della nostra voce/ come nella brace per un istante/ la forma di ciò che è bruciato”. Ciò non vieta all’Oscuro di ogni sostanza di riemergere dagli abissi che ha sondato, né di tornare a riveder, nel conclusivo Pilgrimage, le doppie luci baudelairiane le quali, ovulando infine in “miroirs jumeaux”, si proiettano in “quella partenza che si compie/ nella durezza mite di un ritorno”.
Giancarlo Micheli