giovedì 26 luglio 2018

Storia e umanità

una recensione di Luciano Albanese
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli



Romanzo per la mano sinistra (Manni 2017), di Giancarlo Micheli, consta di 102 capitoli per complessive 635 pagine. Si tratta di un lavoro molto accurato e molto impegnativo, che emerge prepotentemente dal panorama letterario più recente. Racconta, attraverso le lettere di Stefan al figlio Bruno, le vicissitudini di una famiglia ebraica, Adele (chiamata alternativamente col diminutivo Ada) Stefan e Bruno, in un periodo che va dall’annessione dell’Austria alla Germania nazista alla fine del ‘secolo breve’. Lo sfondo delle vicende dei protagonisti è costituito da una folta galleria di personaggi storici, che acquistano una solida autonomia compositiva – a tratti persino preponderante – e costituiscono una sorta di romanzo parallelo rispetto al filo principale della narrazione. Sfilano così davanti a noi Hitler, Mussolini, Freud, Concetto Marchesi, Marie Bonaparte, Ciano, Luchino Visconti, Alicata, Valerio Borghese, Mario Capanna, Feltrinelli, Asor Rosa, Pasolini, insieme ad altri personaggi indirettamente collegati alle vicende principali, come ad esempio Enrico Fermi e gli scienziati di Los Alamos. In effetti una buona metà del romanzo è occupata da questa galleria di personaggi, di cui Micheli, grazie ad un paziente lavoro storiografico, ricostruisce, in uno stile ‘tucidideo’, le conversazioni intercorse. Al punto che potrebbe sorgere il dubbio se il vero sfondo dell’opera siano piuttosto le storie di Stefan, Adele e Bruno, che da questa ottica funzionerebbero da elemento di raccordo.
In realtà i due piani del romanzo si intersecano continuamente, perché i personaggi storici in questione sono, più spesso direttamente che indirettamente, la causa prima dell’odissea dei protagonisti, e quindi della loro tragica fine. Anche una ricostruzione sommaria delle loro vicende – che non credo inutile – è in grado di mostrare quanto e fino a che punto essi abbiano dovuto subire l’iniziativa di chi aveva in mano le leve effettive del potere.
Adele, una storica dell’arte, e Stefan, uno psicanalista, vivono e lavorano felicemente a Vienna insieme al neonato Bruno, quando l’annessione dell’Austria alla Germania nazista li costringe a fuggire in Italia, la patria di Adele. Lì tuttavia nuove difficoltà sorgono in seguito alla promulgazione delle leggi razziali. Dopo una inutile supplica allo stesso Mussolini, i due chiedono consiglio sul da farsi sia a Freud, che, vicino alla morte, li indirizza a Parigi, presso la sua allieva Marie Bonaparte, sia a Concetto Marchesi, che li indirizza verso l’Urss, apparente fucina di un futuro migliore. Decidono per la seconda soluzione, e giungono a Leopoli. Lì Stefan viene contattato dall’NKVD, che lo arruola fra i suoi agenti. Dopo il patto Molotov-Ribbentrop e la spartizione della Polonia, i due ritengono più sicuro trasferirsi a Cracovia sotto la protezione della contessa Lanckorońska. Ma Stefan viene intercettato da ufficiali della Wehrmacht che stanno complottando contro Hitler e intendono servirsi di lui come diagnostico della psicopatologia hitleriana (oggetto della sua tesi dottorale). La congiura fallisce sul nascere, e Stefan viene costretto dai congiurati, per mantenere la sua copertura, ad arruolarsi nelle SS come medico psichiatra. Nel frattempo Ada, ritenendo che della scomparsa di Stefan sia responsabile la contessa Lanckorońska, fugge con Bruno e, mezza assiderata, trova rifugio e momentanea pace nel monastero di Bielany. Tuttavia una improvvisa retata delle SS condurrà Adele e Bruno di fronte al Gruppenführer Heydrich, che invaghito di Adele le prometterà salvezza in cambio di amore.
A Parigi Stefan, nella improbabile veste di ufficiale delle SS, fa la conoscenza di Marie Bonaparte che, praticamente prigioniera nella città occupata, promette a Stefan di occuparsi della sorte di Adele e Bruno, di cui Stefan non ha più notizie, in cambio di un permesso di estradizione che le permetta di raggiungere, insieme al marito, il figlio Pierre in Grecia. Tornato in Polonia, Stefan ritrova miracolosamente Adele insieme al Gruppenführer Heydrich in un ritrovo nazista di malaffare. I due riescono a isolarsi, ad amarsi fugacemente dopo tanto tempo, e a progettare una fuga. La fuga riesce, e aggregatisi fortunosamente a una troupe cinematografica tedesca varcano il Brennero e giungono fino a Roma. Lì Stefan, richiesta la cittadinanza italiana per sé e la famiglia, entra in contatto con Galeazzo Ciano, che conoscendo i suoi trascorsi lo nomina prima agente segreto ad Alessandria col compito di spiare i movimenti inglesi (lì avrà interessanti discussioni su Sabbatai Zevi – una figura che gli sembra particolarmente congeniale – col rabbino della città) e successivamente segretario di produzione cinematografica col compito di spiare i cineasti comunisti che lavoravano a Cinecittà. In tale veste Stefan fa la conoscenza di Visconti e Alicata, che lavoravano insieme alla produzione di Ossessione, che uscirà nel 1943. Sorvolo sulle varie e stimolanti digressioni, come il colloquio di Marie Bonaparte col marito, il rapporto di De Chirico con Ciano (che solleva lo spinoso tema del rapporto fra artisti e regime), il colloquio Ciano-Mussolini su Cinecittà (che adombra l’ambivalente rapporto del cinema italiano col fascismo), per passare alla nuova metamorfosi di Stefan come membro della Resistenza insieme ai cineasti che ha conosciuto, ad Amendola, al ritrovato Concetto Marchesi, ecc.
I rapporti col Pci non sono semplici, perché Stefan è insofferente delle direttive che tramite Togliatti arrivano da Mosca. Prende spesso iniziative personali, ed è ossessionato dall’idea di rivedere Adele e Bruno, che erano rimasti a Firenze (anche per via di forti dissapori insorti fra Ada e Stefan). Ma giunto a Firenze non trova più nessuno: Ada si era trasferita a Roma per riprendere i contatti con la madre Ester (con la quale avrà un importante colloquio, di cui parlerò più avanti). Di lì erano partite per Napoli, ritenuta una città più sicura, ma a un posto di blocco tedesco erano state arrestate e spedite in Germania. Nel corso del viaggio avevano attraversato Padova, in tempo perché Stefan, che non le aveva più trovate neanche a Roma, e ora si trovava nella stessa città in compagnia di Marchesi, potesse scorgerle all’interno di un camion militare tedesco e cadere preda della disperazione. La madre di Ada, Ester, troverà subito la morte a Birkenau, mentre il viaggio di Adele e Bruno avrà come meta finale il campo femminile di Ravensbrück. Lì Adele tenterà fino all’ultimo di assicurare la vita a sé e soprattutto a Bruno in una serie di scene strazianti, ma alla fine riuscirà solo a vedere la salvezza di Bruno – dovuta a un intervento di Marie Bonaparte presso la Croce Rossa Internazionale e il Regno di Svezia – mentre viene separata da lui e trascinata verso una morte orribile.
Profondamente preoccupato della sorte di Ada e Bruno, Stefan commette errori su errori. Espulso dalla Resistenza e dal Pci, Stefan, venuto a sapere della prigionia di Adele e Bruno a Ravensbrück grazie a una lettera di Bruno fortunosamente recapitata, cercherà inutilmente di raggiungerli. Ferito gravemente durante uno scontro con la X Mas e imprigionato, viene poi liberato, ma anche denunciato dai suoi ex compagni come agente collaborazionista di Ciano e del regime. Tornato nella nuova cella inizierà a scrivere le missive che, lette da Bruno, costituiranno il tessuto narrativo del romanzo. Morirà rassicurato sulla salvezza di Bruno, ma straziato dalla notizia della morte di Adele.
L’ultima parte del romanzo vede Bruno, ormai grande, iniziare una vita autonoma, ma sulla sua vita sembra gravare l’ombra delle disgrazie famigliari. Conosce una ragazza, Ombretta, che lo mette in contatto col Pci. Iniziano insieme un rapporto di convivenza e un lavoro politico che li vede attraversare il labirinto variegato della sinistra, mentre si snodano gli eventi che vanno dalla rivolta di piazza contro Tambroni al ’68, all’Autunno caldo e ai primi segni della nascita del partito armato. Deluso dalla sinistra ufficiale, e venuto a conoscenza dei particolari della morte della madre, Bruno progetta un attentato contro un dirigente della IG Farben (la ditta che aveva costruito e fornito a Himmler l’impianto con cui Adele e altre donne – selezionate come vittime sacrificali – avevano trovato una morte orribile), che tuttavia fallisce. L’impotenza di fronte alla storia e ai suoi eventi si palesa di nuovo, e a Bruno non resta che affidare alla pagina scritta la memoria del dolore e dell’ingiustizia subita dalla sua famiglia.
Il lavoro di Micheli è stato definito da qualcuno un ‘romanzo storico’. Qui bisogna intendersi. Il romanzo storico ottocentesco nasce in un’epoca in cui si pensava che la storia avesse un senso, uno scopo, una direzione, e che tale direzione fosse sinonimo di progresso sociale o morale, secondo i gusti. Ma l’opera di Micheli è pervasa da un profondo scetticismo a tale riguardo, lo stesso che viene riversato su Ada nel corso dell’importante colloquio romano con la madre Ester (pp. 370-72). Mentre la seconda ha fede, ed è impegnata a costruire, per sé e per la comunità ebraica, il ritorno nella terra dei padri, Ada ha raggiunto l’età della ragione, e non vede più nella storia la manifestazione di un ordine trascendente, ma solo una combinazione fortuita di eventi. Tale visione disincantata si manifesta non solo nella sottile ironia ‘settecentesca’, e a tratti ‘gaddiana’, con cui sono costruiti i dialoghi fra i personaggi del romanzo, ma soprattutto nel sostanziale fallimento dell’impegno e dell’azione politica di Bruno, che costituisce l’alpha e l’omega del romanzo.
Da questo punto di vista il lavoro di Micheli somiglia più al romanzo antico, ad esempio Le Etiopiche di Eliodoro, dove il sottofondo neoplatonico impedisce di dare alle vicende terrene e alla storia il sia pur minimo significato, e dove la salvezza dei protagonisti si deve solo all’irruzione della trascendenza nel mondo sublunare. Non a caso Merkelbach, nel famosissimo Romanzo e misteri, vedeva nel romanzo antico una metafora delle iniziazioni, unica ancora di salvezza individuale concessa al mondo greco-romano. Con la non marginale differenza che nel lavoro di Micheli, l’abbiamo appena visto, ‘Dio è morto’, e quindi tutte le vicende amorose – quella tra Stefan e Adele e quella tra Bruno e Ombretta – finiscono male, avvicinando l’opera di Micheli più al Partenio di Nicea degli Amori infelici che ad Eliodoro.
L’opera che mi sembra più vicina al romanzo di Micheli è il film Vivere! del regista cinese Zhang Yimou, un apologo sulla capacità di sopravvivere alla storia delle persone comuni. Il film, come è noto, racconta le vicende di una famiglia cinese nel corso di innumerevoli cambiamenti politici, dalla caduta dell’Impero a Mao. I protagonisti, il cui imperativo è vivere e sopravvivere, riescono a passare più o meno indenni attraverso il fiume impetuoso degli eventi, dal quale non hanno appreso altro se non che dalla storia è bene guardarsi e proteggersi. Qualcosa del genere accade ai due protagonisti principali del romanzo di Micheli. Penso soprattutto all’episodio in cui Adele e Stefan, che dopo varie peripezie ed ‘effetti ritardanti’ si ritrovano miracolosamente in una specie di bordello nazista, l’una trasformata in prostituta per spirito di sopravvivenza e l’altro in ufficiale medico delle SS. In una delle scene più belle e drammatiche del romanzo i due riescono ad appartarsi nella toilette, e ad amarsi dopo una lunga separazione. Ad una Adele disperata per la situazione in cui si trova, Stefan dice: «dobbiamo vivere, perché finché siamo vivi ci resta una speranza» (p. 255).
Tuttavia quello che separa Micheli da Eliodoro lo separa anche da Zhang Yimou. La tragica fine di Adele ci ricorda che, come Dio, anche la speranza è morta, e l’avvicina alle eroine dei romanzi di Sade, vittime innocenti all’alba di un’epoca senza luce, in cui non già ‘il sonno della ragione’, ma la ragione stessa genera mostri, procurando alle vittime il tormento supplementare – forse il più crudele dei tormenti – della dimostrazione more geometrico, da parte del carnefice, della necessità della loro morte.
In questo mondo di tenebre non porta luce nemmeno il surrogato secolarizzato del sacro, il comunismo (nel romanzo di Micheli i rappresentanti ufficiali della sinistra non fanno una grande figura). Al fallimento dell’impegno politico di Bruno, passato dal PCI alla lotta armata, dopo aver attraversato in successione le innumerevoli frange della costellazione comunista, corrisponde il fallimento politico di Stefan, allontanato dalla Resistenza da quegli stessi comunisti che poi, venuto alla luce il suo passato collaborazionista, lo faranno marcire in galera, dove morirà di dolore dopo aver saputo della tragica fine di Adele. A ciò fanno puntualmente eco tutte le digressioni che vedono comunisti collaborare di fatto col regime, e ex fascisti pronti a rivestire nuovi panni e a servire nuovi padroni. Senza peraltro le giustificazioni di chi, ebreo come Stefan e la sua famiglia, poteva solo scegliere tra collaborare e finire nei forni crematori.
Da questo punto di vista, un altro testo a cui il Romanzo per la mano sinistra può essere avvicinato è La Storia di Elsa Morante. Anche nel romanzo della Morante la storia si manifesta con l’ineluttabilità e la totale arbitrarietà del destino cieco. Privata di uno scopo, come sapeva anche Hegel, la storia è il banco del macellaio o un romanzo di Sade, dove la virtù è derisa e oltraggiata e il vizio premiato. Micheli, come la sua Adele, è troppo onesto per credere alla filosofia della storia, ma troppo combattivo per arrendersi e gettare la spugna. In assenza di uno Scopo finale con la maiuscola, occorre ripiegare su ambizioni più limitate: la feroce ironia che, come un acido che corrode la parola allo scopo di corrodere la cosa, investe i protagonisti ufficiali della storia, è la spia di una capacità di reazione di fronte alla pigrizia mentale, alla menzogna, alla prepotenza e all’infamia che ancora ci circondano da ogni lato. E il messaggio che trapela è: la storia potrà anche travolgerci, ma non abbasseremo mai la testa di fronte ad essa.
Luciano Albanese



Necessità politico-culturale

una nota critica di Antonio Tricomi
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli

pubblicata in Literary.it (n. 2, 2018)

Romanzo per la mano sinistra è un interessantissimo esempio di rivisitazione attualizzante di romanzo, al tempo stesso, epico (un'epica in nero, ovviamente: vi si racconta un'apocalisse che è la nostra apocalisse) e saggistico, sorretto da una fortissima motivazione civile che gli dà un indubbio tono di necessità politico-culturale.
Antonio Tricomi

Concorso internazionale di poesia Castello di Duino

È stato pubblicato il bando della XV edizione del Concorso internazionale di poesia Castello di Duino, della cui giuria ho il piacere di far parte

Published the call for the XV edition of International poetry competition Castello di Duino, whose panel of judges I have the pleasure to be a member


Amore è cieco e vede da lontano (1a parte)

un  video dal capitolo “Amore è cieco e vede da lontano” (1a parte)

di Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) Giancarlo Micheli


Amore è cieco e vede da lontano (2a parte)

un  video dal capitolo “Amore è cieco e vede da lontano” (2a parte)

di Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) Giancarlo Micheli



Amore è cieco e vede da lontano (3a parte)

un  video dal capitolo “Amore è cieco e vede da lontano” (3a parte)

di Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) Giancarlo Micheli



L’oscuro di ogni sostanza

una recensione di Giancarlo Micheli
a L’oscuro di ogni sostanza (La Vita Felice, 2017) di Francesco Macciò


Nel vuoto quantistico – dove organico ed inorganico coesistono in interazioni talora pacifiche o distruttive ma sempre esoteriche per oceaniche maggioranze che si estenuano ancora tragicamente in cerca di una coscienza di specie – si compiono, adesso, meraviglie cui pochi stenterebbero a conferire i crismi del prodigio e persino del miracolo. La nostra cultura, quella depositata, nel corso dell’effimera contemporaneità quale capitale fisso, miseria attuale della donna e dell’uomo “nel cui cervello risiede il sapere accumulato dalla società”, trascorre accanto, contiene ed esprime tali misteri con indifferenza o ancestrale tremore, sovente con superstiziosa esaltazione, nei fasti cerimoniali dei concetti mercificati, nella propaganda del regime mediatico, nella prassi perversa nelle cui declinazioni la psicologia dell’individuo è ridotta ad etichetta di un’etica religiosa e nichilista. La poesia è la risposta dialettica a tale scena pietosa, è totalità del conoscibile in un tempo durante il quale l’artificiosa divisione tecnica del sapere istituisce una particolare forma storica di totalitarismo. Così, con andamento che rifulge a tratti di esemplarità, L’oscuro di ogni sostanza (La Vita Felice, Milano, 2017) traguarda, entro la misura di un verso vigile e indicante lo sfondo ritmico di una portante enneasillabica, il residuo interstiziale dell’invisibile ed indicibile, al cui cospetto la lingua d’uso, nonché la letteraria quale di lei riflesso incondizionato, si ritrae alla stessa stregua di una membrana omeostatica; la materia poetica di Francesco Macciò affonda, invece, nella malinconia analogica in cui Jean Starobinski fece consistere la propria superba lettura di Baudelaire al Collège de France nell’anno che precedette lo scioglimento, solo ideologico, del dicotomico equilibrio del terrore al di là della cui soglia l’umanità fu relegata alla sudditanza cognitiva ad un “discorso del padrone” che viene facendosi, di stagione in emergenza climatica, monodimensionale man mano che procede alla virtualizzazione colonialista degli atti espressivi. Yves Bonnefoy, goduta l’opportunità di esser presente in carne ed ossa a quel seminario, ne dedusse una finalità civilizzatrice per la poesia e per la critica che le sia vivente corollario: “Di ciò che eccede il senso fare del senso; ai margini della ragione, tra le scorie e i fuochi, operare la sintesi di una ragione superiore”. In tale mirare al punto morto inferiore dello scibile, oltre della morte individuale ed anche dell’estinzione delle specie o delle conflagrazioni cosmiche, la poesia di Macciò si congeda da se stessa quale strumento, linguaggio funzionale ad una codifica cui segua impersonale esecuzione, si incammina dunque incontro all’umanità, sorprende il poeta mentre rivolge lo sguardo splenico allo specchio e vi ravvisa, nel riflesso della propria pupilla, Dioniso che, fissando sé, vede il mondo. “E non importa se era Eco o finzione,/ se desiderio o visione/ questo doppio indizio del vero” sarà avvertito chi giunga alla conclusione della settima tra le Scene in sequenza, sezione centrale della raccolta ed il cui titolo evoca l’empirismo eretico pasoliniano, intenzionato ad evadere nella “lingua scritta della realtà”. Non sarà stato per caso se, nei medesimi anni del casarsese, un altro “suicidato della società”, ai margini del canone inverificato della poesia italiana novecentesca, prese commiato dalle Muse con una raccolta denominata con consapevole irritualità Romanzi naturali, il cui poema conclusivo chiamò Ghigo vuole fare un film, in pieno presagio del Panopticon che, oggi, c’illude e ci prostra. Pertanto, nella penultima sezione della silloge, laddove vi giunge alle Inferenze, Macciò mostra la “[…] sostanza cieca/ che rimane nella carne,/ nel principio della nostra voce/ come nella brace per un istante/ la forma di ciò che è bruciato”. Ciò non vieta all’Oscuro di ogni sostanza di riemergere dagli abissi che ha sondato, né di tornare a riveder, nel conclusivo Pilgrimage, le doppie luci baudelairiane le quali, ovulando infine in “miroirs jumeaux”, si proiettano in “quella partenza che si compie/ nella durezza mite di un ritorno”.
Giancarlo Micheli

Orwell e la primavera

un articolo di Giancarlo Micheli

pubblicato in Il Ponte (Anno LXXIV, n.2, marzo-aprile 2018)

Una parte di piacere che lo scrittore conosca nell’atto del proprio mestiere, dalla quale sarà sapiente che egli non voglia escludere i propri eventuali lettori, ha ben da esserci se il manufatto che sortirà dal suo operare sia destinato ad aver pertinenza con il lemma “letteratura”, vuoi lo si interpreti nell’accezione conferitagli dal pensiero critico-filologico, vuoi in quella del residuo senso comune o nell’imminente contaminazione di entrambe che si offrirà, a guisa di canone assiologico o idolo del pregiudizio, allo sviluppo cognitivo ed emozionale degli individui appartenenti alle prossime generazioni.
In termini di una plausibile “etica produttiva”, intesa come luogo di soggettività consapevole benché intestina all’impersonale modo di produzione in vigore nella realtà, sarebbe reprensibile, stanti le attuali condizioni imposte alla vita, voler concedere all’esecutore della specifica arte che, all’aurora capitalistica, fu chiamata ‘liberale’ una quota di godimento superiore a quella che competa ad un fabbro, un operaio metalmeccanico, un imprenditore del pionieristico comparto delle stampanti in 3D, un agricoltore, o chi compia un qualsivoglia lavoro utile. Affinché i prodotti del lavoro umano (in qualsivoglia forma essi si immolino all’estrazione del plusvalore) vengano scambiati nei modi e nelle misure tali da favorire un effettivo progresso della società, suffragato da pace e giustizia, un simile privilegio, di genere peraltro tanto spurio da non declinarsi in motivazioni psicologiche altro che per denotare una asfittica crisi inflattiva nello spazio di un dominio della produzione segnica immiserito fino alla più vieta e meccanica stereotipia, deve essere rifiutato con fermezza. C’è dell’altro, infatti. Data la polverizzazione entropica degli atti comunicativi, raccolti come messe pressoché incommestibile dai nuovi strumenti di organizzazione dell’esperienza (la rete informatica ed i suoi supporti di interfaccia), per ogni donna o uomo che sia ancora capace di aspirare sinceramente ad un risultato estetico, congruo al progresso della conoscenza del sogno e della realtà, l’atto di scrivere  equivale ad immergersi nei succhi gastrici dell’economia capitalistica quale fallimento metabolico del processo nutritivo che le starebbe nel ventre in figura di metafora. Un lavoro per stomaci forti, senza dubbio. Le speranze di venirne fuori senza essere ridotti a miseri resti o a quel che si suol dire un nonnulla sono ridotte al lumicino. Generose dosi di silenzio saranno profilassi indispensabile, laddove si voglia evitare la generale frivolezza che non ha scrupolo di esibire la frammentaria arbitrarietà di cui si compone l’immagine riflessa dove il lettore, sempre più solitario, quasi sperduto nel vuoto cosmico che gli si allarga attorno come un mistero sempre meno sondabile, finisca per ravvisare pur tuttavia solo se stesso, non il mondo che appariva nello specchio del mito dionisiaco, né a fortiori il volto dell’altro, la cui visione solamente inizia al cammino lungo il quale una successione possibile di tempi presenti giova all’evoluzione della specie.
In un’epoca più della nostra incline alla sobrietà, giacché non era trascorso un anno dalla convenzionale conclusione dell’ecatombe bellica che, senza lesinare i più innovativi ritrovati tecnici, dalla camera a gas alla bomba atomica, né i più sperimentati, dalla fame alle epidemie, aveva materialmente tolto dalla faccia della terra almeno uno su venti dei suoi abitatori umani, oltre ad aver dato l’abbrivio a prospettive di distruzione viepiù ambiziose di quelle direttamente praticate contro la specie, George Orwell meditò di dare alla propria opera che sarebbe in seguito divenuta universalmente nota il titolo di The Last Man in Europe, il quale suona forse persino eufemistico in piena èra globale, quando i centri del potere ed i gangli dell’autopercezione vanno decisamente ridislocandosi, ma non sarebbe d’altronde riuscito così inattuale al pari di quello che, una volta adottato dall’editore Secker & Warburg, lo confina all’opaca estraneità di una cronologia troppo facile da falsificare. A quanti conservino il desiderio di un giudizio onesto sarà in qualche modo chiaro che la società descritta in 1984[1] non definiva il mero sviluppo diegetico dei pur comprovati convincimenti antistalinisti dell’autore quanto altresì un monito profetico sulla china totalitaria per la quale sarebbero rovinate le stesse democrazie occidentali, fino all’attuale regime ecumenico del controllo mediatico delle azioni e delle coscienze.
In cosa consistesse lo hic rodus hic salta, al cui valico tutt’oggi dobbiamo riconoscerci pigri e quasi infingardi, il figlio di un funzionario coloniale del Bengala britannico volle precisarlo in un saggio contenuto nella raccolta Shooting an Elephant and Other Essays[2], che il medesimo editore dette alle stampe nell’anno successivo alla pubblicazione del celebre romanzo distopico:

L’essenza dell'uomo è tale che non si cerca la perfezione, che si è talvolta disposti a commettere un peccato per amore della fedeltà, che non si spinge l'ascetismo al punto da rendere impossibile l'amicizia, che si è preparati alla fine a essere sconfitti e distrutti dalla vita, prezzo inevitabile per aver riversato l'amore su un’altra persona. Va da sé che alcol, tabacco e simili sono cose delle quali un santo deve fare a meno, ma anche la santità è una cosa che gli uomini devono evitare. […] Molte persone non desiderano affatto divenire sante, ed è probabile che quelle che raggiungono o ambiscono la santità non siano mai state lusingate dalla loro condizione di esseri umani. Se fosse possibile penetrarla sin nelle motivazioni psicologiche si scoprirebbe, penso, che il motivo principale dell’“ascesi” è un desiderio dì rifuggire le tribolazioni terrene e soprattutto l’amore che, sessuale o no, è cosa ardua. Non è necessario in questa sede disquisire sul fatto se sia “più nobile” l'ideale umanistico o quello trascendente. Il fatto è che essi sono incompatibili. Si deve scegliere tra Dio e l'uomo, e tutti i “radicali” e i “progressisti”, dal più blando dei liberali al più estremista degli anarchici, hanno in realtà scelto l’uomo.[3]

Si trattava di una scelta politica. Nel medesimo anno 1946, Eric Blair – questo era il nome con cui l’autore della Fattoria degli animali[4] e di Omaggio alla Catalogna[5] era stato battezzato nel terzo anno del Novecento, nella città di Motihari, che oggi fa parte dello stato indiano del Bihar ed allora apparteneva alla Bengal presidency dell’Impero britannico, laddove lo pseudonimo tramite il quale la sua fama andava diffondendosi, non solo tra i lettori di lingua inglese, era stato selezionato nella rosa da lui proposta all’editore Gollancz nella circostanza della pubblicazione del suo reportage sulle condizioni di vita nei bassifondi delle metropoli per antonomasia dell’Occidente europeo, Down and Out in Paris and London[6], quando si era al principio dell’anno che avrebbe visto in Germania l’ascesa al potere del nazismo – aveva sintetizzato i moventi principali che, a suo avviso, giustificavano i contemporanei che fossero disposti a sobbarcarsi «una lotta orribile ed estenuante, come un lungo periodo di dolorosa malattia»[7], a dedicarsi ad un’attività che «non bisognerebbe mai intraprendere a meno di non essere guidati da un qualche demone incomprensibile al quale non si può resistere»[8]. In un breve saggio apparso nel numero estivo della rivista trimestrale «Gangrel»[9], al quale aveva dato l’esplicito titolo di Why I Write, egli aveva scritto che a motivare qualcuno ad una pratica abbastanza insolita qual era allora scrivere un libro intervenivano quattro stimoli fondamentali: l’egoismo, l’entusiasmo estetico a percepire la bellezza del mondo riflessa nelle parole, l’impulso storico a scoprire la verità dei fatti ad uso dei posteri e, infine, lo scopo politico, «il desiderio di spingere le parole in una certa direzione, per cambiare l’idea altrui di quale sia il genere di società per cui lottare»[10].
Senza dubbio la personalità di colui che seppe formulare tesi così esplicite, tutt’altro che agevoli da fraintendere o misconoscere, fu abbastanza complessa perché non sia semplice collocarla all’interno di una singola categoria politica, né esprimerla secondo l’ideologia di uno dei partiti che gli furono coevi, né secondo criteri meno restrittivi, tant’è che si sarebbe presto costretti a rinunciare ad un’univoca soluzione classificatoria, per dover magari constatare come egli sia stato, di volta in volta, un fascista per gli stalinisti, un borghese per i trotzkisti o un socialdemocratico per i conservatori. Il fatto è un altro: per i veri scrittori, coloro che anche oggi concorderebbero con le motivazioni addotte da Eric Arthur Blair e nel novero dei quali egli va contato a  guisa di relativo capostipite, le vicissitudini biografiche sono, al massimo, l’espediente principale che conduce all’opera, esattamente il contrario di quanto soglia oggigiorno da parte di tutta un’eteroclita compagine di autoidolatri, le cui esilissime operette bastano a legittimare, di giorno in giorno sempre più apoditticamente, la progressiva estinzione dei veri lettori all’unisono con le proprie artificiose e narcisistiche apoteosi. Nel curriculum vitae dell’erede di un funzionario dell’amministrazione coloniale che, servendo la Corona nello strategico dipartimento dell’oppio dello Indian Civil Service, aveva guadagnato alla famiglia il pane ed il prestigio consono ai costumi della piccola borghesia, il primo utilizzo di un’identità fittizia risaliva appunto ai primi anni Trenta, quando, esaurita un’ostica esperienza in Birmania dove calcò non senza incespicare le orme paterne, egli aveva sperimentato per alcuni mesi la vita del sottoproletariato urbano nell’East End londinese. Nel confondersi alla folla cenciosa dei tramps, che avrebbero poi popolate le pagine della sua inchiesta, Eric si era dissimulato sotto il falso nome di P.S. Burton; ed il ritratto della periferia dell’urbe capitalistica gli era riuscito in una serena, a tratti quasi comica, novella picaresca, in cui barcollavano sudici e frusti vecchietti professanti idee bolsceviche durante il diurno accattonaggio per patire poi, sotto gli effetti di sbornie ben più rare e quindi degne di felicitazioni di quanto opinasse la pubblica opinione, notturne conversioni al più suscettibile patriottismo, oltre a prostitute e sorveglianti degli ospizi per poveri, immigrati di tutte le etnie sulle cui carni farcite di forza lavoro l’Impero avesse allungato le adunche propaggini, oberato ciascuno dalla personale miseria del proprio lessico contaminato, contendente ai fiati clorotici il soffio vitale sul sottofondo dello sferragliare dei tram e tra le intermittenti esplosioni dei litigi per una fetta di pane spalmato con un briciolo di margarina o una tazza di tè rancido; una ben lugubre fiaba, al postutto, ad uso e consumo delle coscienze infantili dei contemporanei, nella minoranza di probi ed equanimi dei quali essa poté tuttavia esser letta come una seria disamina delle cause che producevano l’affiorare di quella feccia ripugnante dalle cloache dell’ordine economico in vigore. Eppure, era lo stesso principio di causa ed effetto che veniva allora vacillando sotto i colpi degli insorgenti totalitarismi quali meglio adeguati agenti del monocratico capitale, per la trinitaria sostanza del quale si può adesso affermare che il fregiarsi dell’attributo privato ovvero statale non costituisse mai discrimine decisivo.
Qualora si ponga mente al principio di indeterminazione di Heisenberg, al teorema di indecidibilità di Gödel, alle formulazioni del principio di falsificabilità popperiano, che vennero a costituire la base gnoseologica dell’ortodossia neoscettica in Occidente e non solo, tutti passi che la scienza compì verso la riduzione della materia ai paradossali e profondi nessi con lo spirito nascente dalla sua comprensione, tutti compiuti in un torno di tempo che precedette immediatamente la seconda guerra mondiale, tant’è che essa trapeli, oggi, quale mostruoso ed abnorme esperimento sull’uso efficace della violenza allo scopo di determinare i comportamenti dei soggetti umani che la subiscano, qualora si abbia dunque la forza di soffermare il pensiero nella contemplazione dei conseguenti abomini, allora veniamo proiettati, con relativa facilità, all’interno dell’universo claustrale, patria di un eternato abuso, dove respirano a fatica gli eroi della distopia orwelliana. In tal modo sarà meno ostico, sebbene ciò non consenta ancora di scansare la fatica procurata dall’empatia per la sorte catabatica dei personaggi, intuire la vera e propria similitudine che sussiste tra la società in cui si inneggia che «la guerra è pace», «la libertà è schiavitù» e «l’ignoranza è forza» (questi sono gli slogan ai quali istruisce ad aderire in piena fede il partito unico dominante lo Stato di Oceania, perennemente in guerra contro l’Estasia o l’Eurasia, a seconda di geometrie strategiche intese al “combinato disposto” – neolingua – di disputarsi, peraltro con senile e non per questo meno crudele svogliatezza, la riserva di manodopera sottoproletaria residente, ai mutui confini delle tre superpotenze, in una vasta riserva di caccia estesa dal Golfo di Guinea al Medio Oriente e variabili al compimento di ogni ciclo quadriennale, al cui sopravvenire il passato viene scrupolosamente riscritto in ogni particolare affinché alle coscienze non resti appiglio per alcuna motivata contestazione) e quella in cui tocca vivere a noi, in carne ed ossa, lacrime  e sangue.
D’altronde, anche solo per scrivere qualche nota che abbia senso sul capolavoro orwelliano che purtroppo oggi è invece rinomato a causa di un esubero di parassitari conii, ricavati dallo sfruttamento commerciale delle invenzioni letterarie contenutevi (la Polizia del Pensiero, la Neolingua e, soprattutto, l’esponenziale Grande Fratello), bisogna sentirsi sotto la pelle morsa dalle cimici di Winston Smith, il protagonista perennemente braccato dal sistema che viola la stessa integrità dell’intima coscienza. In ciò vi è tanto poco piacere quanto poca sapienza nello sfidarsi gli un gli altri ad immaginare fittizi asili di serenità o a pretendere di dissipare analiticamente il velo dietro al quale dissimuliamo la spietatezza qual è ormai suppurata nell’ipocrisia ecumenica del falso benessere.
Eppure attraverso questo immenso dispiacere deve passare con una certa forza e un certo coraggio chi prenda seriamente le proprie azioni e non le fraintenda con le cedole ad effetto delle quali la ricchezza si distribuisce, in ogni istante ed in via quasi automatica, agli immeritevoli. Per chi abbia pur vaga la cognizione del mondo in cui vive non è di alcun conforto aver appreso dalla storia che tutti i regimi, in cui la civiltà degenera al decadere di ogni suo ciclo, implodano e si autodistruggano; la forza e il coraggio di cui egli ha necessità gli verranno dalla chiara cognizione di ciò che degli estinti strumenti di oppressione è stato integrato in quelli che gli rendono impossibile il presente.
Se rovesciamo, infatti, i termini dell’analogia e prendiamo in considerazione le nostre metropoli, dove un terrore senza volto colpisce alla rinfusa tra l’anonima folla mentre l’amore tra gli esseri umani diviene di giorno in giorno più raro e quasi elemento di “folclore”, si corrobora la sensazione di quanto Eric Arthur Blair sia stato vicino a darci ragguagli sullo stato presente della nostra “civiltà”.
Chi sentisse in questi giorni il richiamo a tornare alle pagine di 1984, o di altre opere di narrativa che la possano degnamente affiancare – e forse ancora oggi ne vengono scritte e pubblicate , chissà? –, sopporti che non gli sia dato trovare se stesso in qualche mito lenitivo, ravvisare il proprio sembiante nelle vesti di principesco eroe del bene o del male, indifferentemente, si rallegri di essere invece il rospo cui lo stesso Orwell dedicò un elogio in un articolo apparso sul bisettimanale socialista «Tribune», pressoché alla vigilia della fine di Hitler nei sotterranei della Wilhelmstraße e dell’esplosione delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki:

Prima delle rondini, prima delle giunchiglie e non molto più tardi dei bucaneve il rospo saluta l’arrivo della primavera a modo suo, uscendo da un buco nel terreno, dove è rimasto sepolto dal precedente autunno, e striscia, il più rapidamente che può, verso la più vicina e conveniente pozzanghera.[11]

Nel muoversi con la fretta che i tempi consigliano, il lettore davvero eroico rammenti che «la primavera è sempre primavera. Le bombe atomiche si ammassano nelle fabbriche, le polizie s’aggirano minacciose per le città, le menzogne piovono dagli altoparlanti; ma la terra continua a girare intorno al sole e né i dittatori né i burocrati, per quanto profondamente ostili alla cosa, sono in grado di impedirglielo»[12].
Giancarlo Micheli




[1] George Orwell, Nineteen Eigthy-Four, Secker & Warburg, London, 1949; ed.it. George Orwell, 1984, Mondadori, Milano, 1950.
[2] George Orwell, Shooting an Elephant and Other Essays, Secker & Warburg, London, 1950.
[3] George Orwell, Riflessioni su Ghandi in Nel ventre della balena e altri saggi, Sansoni, Firenze, 1988.
[4] George Orwell, Animal Farm, Secker & Warburg, London, 1945; ed.it. George Orwell, La fattoria degli animali, Mondadori, Milano, 1947.
[5] George Orwell, Homage to Catalonia, Secker & Warburg, London, 1938; ed.it. George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, Milano, 1948.
[6] George Orwell, Down and Out in Paris and London, Gollancz, London, 1933; ed.it. George Orwell, Senza un soldo a Parigi e Londra, Mondadori, Milano, 1966.
[7] George Orwell, Perché scrivo in Nel ventre della balena e altri saggi, Bompiani, Milano, 1996.
[8] Ibi.
[9] La rivista, che venne pubblicata a Londra dall’ottobre del 1945 al giugno del 1946, aveva per titolo un lemma dialettale scozzese, corrispondente all’inglese vagrant e all’italiano vagabondo o accattone.
[10] Ibi.
[11] George Orwell, Elogio del rospo in Tra sdegno e passione, Rizzoli, Milano, 1977.
[12] Ibi.

Fogli di crocevia

un articolo di Giancarlo Micheli

pubblicato in Il GrandeVetro (Anno XLII, n.235, primavera 2018)

Sottoporre all’esercizio della critica l’uomo, “nel cui cervello risiede il sapere accumulato dalla società”, non è mai caso per una semplice esercitazione accademica. Per esplicita e sincera dichiarazione del suo autore, non lo fu nemmeno l’iniziativa di dare alle stampe, nel 1978, per i tipi dell’audace Pantheon Books (brand dotato di editorial independence all’interno del gruppo di appartenenza, facente allora capo alla General Electric ed oggi al colosso germanico-multinazionale Bertelsmann), un voluminoso saggio – dove la ponderosità stette, per una volta, in rapporto di proporzionalità diretta con il valore delle argomentazioni che vi furono sviluppate, pure in virtù della circostanza, vivaddio fausta, per cui fosse allora solo agli albori la retorica dell’insipida contractio orationis invalsa poi a seguito dell’ecumenica codifica in ottemperanza ai formati della socializzazione virtuale dei mezzi di produzione segnica – dall’asciutto titolo Orientalism (E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 1999). L’autore, Edward Wadie Said, nacque nel 1935 a Gerusalemme, annessa allora al territorio del Mandato britannico di Palestina, e grazie agli uffici del padre, veterano dello U.S. Army, poté accedere alla cittadinanza americana, nonché ricevere un’educazione nei collegi britannici della città santa per le tre principali religioni monoteistiche, oltre che del Cairo e di Alessandria d’Egitto, prima di trasferirsi oltreoceano ove conseguì il Bachelor of Arts a Princeton ed i titoli di Master of Arts e Doctor of Philosophy ad Harvard. Di tale formazione cosmopolita il trattato del 1978 reca tracce orgogliose, se è vero che, nell’esaustiva mole dei materiali di cui si avvalse, Said volle inserire con particolare affetto una citazione che colui il quale egli stimò alla stregua di un maestro, lo storico della letteratura Erich Auerbach, aveva tratto da Ugo di San Vittore, beato della Chiesa cattolica oltre che eminente tra i fondatori della scolastica: “L’uomo che trova dolce il suolo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui l’intero mondo è un paese straniero”. Il libro si pose ed attinse lo scopo, a lungo meditato nel corso dell’esperienza vissuta, di mostrare come la disciplina degli studi orientalistici, all’interno della divisione del sapere cristallizzatasi in Occidente, fosse intrisa dei pregiudizi peculiari alla civiltà da cui emerse, servisse, in ultima istanza, al processo di individuazione della soggettività enunciante, senza lesinare il ricorso ai meccanismi proiettivi delle intestine paura e ripugnanza dinanzi all’alterità del Medio Oriente islamico – continente di remoti prodigi e misteri, per molti secoli sineddoche tramite cui definire l’intero mondo estraneo all’Occidente, tanto l’India dei Veda quanto la Cina del taoismo –, in origine sede astratta ed ideale per rimuovervi gli istinti aggressivi e autodistruttivi, gradualmente anche serbatoio da cui reintegrare le energie necessarie a sostenere i successivi conati espansionisti. Quindi, se nel medioevo cristiano l’Alighieri dannava Maometto agli inferi con la subalterna pena spettante agli eretici della vera religione, la spedizione napoleonica in Egitto doveva prevedere, aggregata agli ausiliari delle truppe conquistatrici, la compagine di un fior fior di letterati e uomini di scienza affinché compilassero la monumentale Description de l’Égypte, regesto enciclopedico delle nozioni che solo l’Occidente, tonico adesso di cavalli vapore e già scalpitante di circoncidere l’istmo che dal miocene unì l’Africa all’Asia, poteva fornire al fiacco e passivo Oriente, inetto a procurarsele in autonomia. La parabola dell’iperfetazione di questo ambivalente senso di superiorità viene indagata nel dettaglio degli specialisti anglosassoni, sovente funzionari delle nascenti istituzioni accademiche o governative di studi asiatici quali Sir William Jones, talora avventurieri individualisti come T.E. Lawrence o eruditi dilettanti come Edward William Lane, ovvero statisti come Lord Cromer o l’Arthur Balfour onomastico della celebre Dichiarazione; non è certo trascurata la scuola francese, da Silvestre de Sacy a Louis Massignon attraverso Chateaubriand e Lamartine, tra i cui esponenti si rintracciano le scaturigini del razzismo contemporaneo in Gobineau e nel pur valente Renan, né le minori né le ulteriori sulle quali venne poi a dominare la statunitense, neppure le varie tipologie d’approccio, dagli estrosi creativi, alla Nerval o alla Twain, agli ossequienti compilatori di una dottrina metafisica a antistoricistica, alla Bernard Lewis. Lo stile, benché attento a rimanere nel solco del canone filologico a guisa di adeguato veicolo verso la mèta di un meglio effettivo universalismo, azzarda incursioni nel registro di un sarcasmo militante, ad esempio quando reperta gli atti di convegni o gli articoli di prestigiose riviste sotto la perniciosa amministrazione di Nixon e Kissinger, dove vari specialisti sviscerano che, laddove i procedimenti di pensiero della mente umana possono essere ricondotti ad otto tipi, l’islamica ne conoscerebbe soltanto quattro, oppure che l’eccessiva propensione alla retorica e alla prolissità della lingua araba renderebbe i popoli che la parlano incapaci di una completa funzionalità psichica, fatto che troverebbe riscontro nei disordini sessuali cui vanno soggetti i membri di quella regressiva etnia; e ancora quando riferisce delle autorevoli analisi di P.J. Vatikiotis in merito ai moti rivoluzionari sorgenti allora nel mondo arabo, pietra dello scandalo per l’ortodossia orientalista, tanto da esigere il ricorso ai mezzi ermeneutici caratteristici alle diagnosi dei disturbi della personalità e dello sviluppo psicosessuale: «La politica, per il rivoluzionario, […] deve cessare di essere ciò che era sempre stata, cioè un’attività adattiva, nel tempo, finalizzata alla sopravvivenza. La politica soteriologica, metastatizzante, detesta adattarsi, perché come potrebbe altrimenti aggirare le difficoltà, ignorare e scavalcare gli ostacoli costituiti dalla complessa dimensione biopsicologica dell’uomo, mesmerizzare la sua razionalità penetrante, ancorché fragile e limitata?».
E tali tesi non poco stupefacenti il già ricordato Bernard Lewis si sentì in dovere di suffragare con sottili competenze etimologiche: «Nei paesi di lingua araba una differente parola era in uso per designare la rivoluzione: thawra. La radice th-w-r in arabo classico significava alzarsi (ad esempio di un cammello), eccitarsi o emozionarsi e quindi, soprattutto nell’uso maghribi, ribellarsi».
Vent’anni dopo la prima pubblicazione, allorché Said, nella circostanza offerta dalla nuova edizione, esaminò, attraverso le intercorse traduzioni in numerose lingue, il contributo dato dall’opera alle pionieristiche prospettive multiculturali che, nell’ambito dei nascenti Subaltern Studies, tentarono di osteggiare il blocco ideologico globalista, egli concluse che «l’“essenza” dell’islam o dell’Oriente non siano niente di più che immagini, tenute in vita sia dalla comunità dei fedeli musulmani sia (e la corrispondenza è significativa) dalla comunità degli orientalisti», così da evocar quasi una sorta di nemesi profetica, compiutasi poi nei recenti episodi che registrarono la tempestiva repressione delle lotte sociali e politiche delle cosiddette “primavere arabe” mentre le macchine dell’ingerenza imperialista, di nuovo plurivoche sotto mentite spoglie liberaldemocratiche, stringevano sul collo dei popoli i nodi scorsoi di criminose alleanze con le fazioni fondamentaliste o variamente autoritarie, riprodotti ormai in mediatico regime di trasparenza. A chi ancora sappia e voglia scegliere la propria parte nel tragico teatro della realtà è rimesso dunque, una volta ancora, il gioco a carte scoperte della solidarietà internazionalista, propedeutico alla vera libertà dei cuori e delle menti infine umane.
Giancarlo Micheli