domenica 5 maggio 2019

Casa della Cultura di Milano


registrazione della presentazione di Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017), che si è tenuta martedì 30 aprile alla Casa della Cultura di Milano, con il patrocinio di ANPI provincia di Milano.



Relatori: Tomaso Kemeny, Gabriella Valera, Chiara Catapano e l’Autore.

Letture dal romanzo a cura di Ilaria Pardini e Luigi Scala.



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Per una poetica liberata

articolo di Giancarlo Micheli pubblicato su
 Il Grandevetro (trimestrale di immagini, politica e cultura)


La Storia, soprattutto a guardarla con occhi vigili e spalancati, quali se ne dischiudono, a guisa di prodigiosi fiori d’innocenza sotto l’erba delle ciglia d’ogni nuova generazione, è una decrepita e macilenta etera, gravida di crimini immani e manifesti, che ammicca sul ciglio delle strade maestre ai prosseneti di una personale sequela di complementari e reconditi. È comune fortuna che il fuoco dell’amore ancora divampi in quest’inferno. Manca ormai un ristretto giro d’orbite, le quali si conteranno sulle dita di due mani a patto che colgano intanto l’una dall’altra una carezza e un graffio, avanti sia trascorso un secolo da quello che i documenti della protratta infanzia capitalistica, fase suprema della preistoria dell’umanità, pongono in breccia alla cosiddetta Grande Depressione. In un solo giorno, il giovedì 29 ottobre del 1929, le cedole di credito che rappresentavano poc’anzi l’equivalente d’una virtuale opulenza e d’uno schizofrenico dispendio, non valsero la carta su cui erano stampate, destino entropico dell’economia pseudo-darwiniana d’una millenaria eredità necrofaga; ne seguirono tali prodigi, in miseria e nequizia, che non se ne uscì altrimenti che con il vile ricorso all’ecatombe della guerra mondiale. Tristemente facile l’analogia con le vicissitudini attuali, sicché se ne debba concludere che quell’apparente uscita indichi ancora adesso l’entrata ad un più profondo abisso. Era trascorso poco più di un mese da quell’epifania contabile del cannibalismo finanziario, che sarebbe andata depositando i propri fetidi crismi sulla vita al pari di quanto accade di nuovo, tant’è che i simulacri predittivi di cui fa appannaggio la scienza borghese vi rivelassero, già allora, l’intima natura di feticci atavici e sanguinolenti, era trascorso forse non invano quel ciclo lunare, quando dalla Librairie José Corti, in rue de Clichy, tra la Gare Saint Lazare e Pigalle, venne licenziato per la stampa quello che sarebbe stato l’ultimo numero de “La Révolution surréaliste”, il dodicesimo dell’intera serie, giunta in quel frangente, fatidico non meno di altri che lo precedettero e lo avrebbero seguito, al quinto anno. Sotto le impronte di sette coppie di labbra femminili che stanno a guisa d’aferesi concreta al Second manifeste du surréalisme, firmato da André Breton a pagina 17 (diciassette, come l’Arcano maggiore delle Stelle), invano l’odierno cultore della materia ricercherebbe un estratto dalla rivista “Annales Médico-psychologiques”, escusso, nella fattispecie, dal secondo tomo dell’ottantasettesima annata dell’organo dei gallici alienisti, il quale venne invece anteposto, in luogo d’epigrafe, all’edizione in volume destinata alle rotative da lì a breve, per i tipi delle Éditions Kra, trai quali fu già disponibile alla fine di marzo del 1930. Breton, alle spalle l’apprendistato clinico alla Salpetrière ed ormai navigato tra i flutti della contesa ideologica, scelse di riportare la petizione che l’insigne psichiatra Paul Abély aveva rivolto, tramite le prestigiose colonne dell’ippocratica testata, a chi di dovere, affinché fossero adottati i provvedimenti acconci a reprimere tutta una seria di aggressioni subite dai colleghi nell’esercizio delle loro funzioni terapeutiche per mano di coloro stessi cui le prodigavano. Il luminare si era spinto ad un atto tanto assertivo da profilarsi alla cognizione personale nei termini d’un civico ardimento in piena regola, laddove, addebitando la causa delle proditorie violenze alle istigazioni contenute in un testo che «circolava liberamente tra le mani di altri alienati», deplorava apertamente la rivista letteraria colpevole di averlo pubblicato, il 25 maggio del 1928: “La Nouvelle Revue Française”, che egli non avrebbe esitato, qualora gli fosse stata concessa la libertà di esprimersi nel linguaggio egemone tra gli italici odierni, a tacciare di “radical chic” o molto peggio. L’esimio professionista, comunque, bruciava le tappe sulla retta via, lungo la quale correva a perdifiato per fare a tempo ad aggiungere l’ultimo respiro ad un coro che pregustava oceanico, dando alla propria delatoria diffida il titolo Légitime défense. D’altronde chi abbia considerato con la debita cura la rapsodica diegesi dell’opera in questione, Nadja, sa che in essa affiora, cristallino nell’ordine della trasparenza, il profilo della musa surrealista κατ’εξοχήν, proprio per non dire “per eccellenza”, colei che, a tutta prova, è necessario proteggere dal discorso subordinato ad una logica tanto anodina da assurgere, nel prossimo avvenire dell’inversione deontologica, quale sarebbe stata praticata, ad esempio, dalla psichiatria nazista – non più guarire, bensì sopprimere le «lebenunwertes Leben», «vite inadatte alla vita» –, fino al nefasto genocidio taylorista. Pertanto, sarà una sorpresa per pochi, sebbene non minore meraviglia per ciascuno, che il Secondo manifesto del surrealismo, proprio nel centenario di una precedente disputa, nota come «battaglia di Hernani», avendo opposto classici e romantici a proposito dell’omonimo dramma di Hugo, rivendicasse l’esistenza di un «certo punto dello spirito da dove la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di essere percepiti contraddittoriamente» ed al quale aderiva nell’unico modo in cui sarebbe stato ancora possibile scongiurare la catastrofe: «permettere all’immaginazione dell’uomo di prendere su tutte le cose una rivincita eclatante, ed eccoci di nuovo, dopo secoli di domesticazione dello spirito e di folle rassegnazione, a tentare di liberare definitivamente quest’immaginazione attraverso il lungo, immenso, ragionato sregolamento di tutti i sensi ed il resto», la rivoluzione internazionalista, tra l’altro. Perché, come Breton precisava poco oltre, «noi pensiamo di aver fatto sorgere una curiosa possibilità del pensiero, che sarebbe quella della sua messa in comune», per ribadire che in quanto alla «nostra adesione al principio del materialismo storico… non c’è modo di giocare su queste parole. Che essa non dipende che da noi», sebbene in rue Colonel-Fabien i quadri del PCF, persuasi che se si è marxisti non si abbia bisogno di esser nient’altro, lo convocassero per metterlo alla prova e richiedergli un rapporto sulla situazione italiana, sottolineando non avesse ad appoggiarsi altro che su fatti statistici (produzione dell’acciaio etc.) e soprattutto non all’ideologia, proprio mentre il loro piccolo padre sovietico si occupava d’imporre ai gemelli transalpini la reintegrazione nel comitato centrale di quel Nicola Bombacci che sarebbe stato leale scudiero, ma del duce, e fino alla catabasi di Dongo. I partiti comunisti fecero come volle Stalin, cosicché il popolo dalle Alpi alla Sicilia non sia l’unico a patire il fascismo ancora oggi, sotto le nuove spoglie. Se il manifesto del 1929 domandò dunque «l’occultamento profondo ed autentico del surrealismo», ciò avvenne poiché «è all’innocenza, alla collera di alcuni uomini a venire che spetterà di far scaturire dal surrealismo ciò che non può mancare d’essere ancora vivo, di restituirlo, al prezzo d’un assai bel saccheggio, al proprio scopo»; pertanto «l’uomo che s’intimidirebbe a torto dinanzi a qualche mostruoso fallimento storico, è ancora libero di credere alla propria libertà. Egli è maestro a sé stesso, a dispetto delle vecchie nubi che passano e delle forze cieche che seguono di conserva. […] La chiave dell’amore, che il poeta diceva d’aver trovata, anche lui la cerchi bene: ce l’ha. Non sta che a lui elevarsi al di sopra del sentimento passeggero di vivere pericolosamente e di morire. Che egli usi, a dispetto di tutte le proibizioni, l’arma vendicatrice dell’idea contro la bestialità di tutti gli esseri e di tutte le cose e che un giorno, vinto – ma solo se il mondo è mondo – riceva la scarica dei loro tristi fucili come un fuoco a salve».

La miseria del linguaggio

appunti per una critica del linguaggio della miseria


un articolo di Giancarlo Micheli pubblicato su 



Se da nuove prue d’Italia un’effimera diarchia è venuta, or non è guari, proclamando nientemeno che l’«abolizione della povertà», Karl Marx, nella sua critica al socialismo piccolo-borghese di Jean Pierre Proudhon, sostenne che «in una società fondata sulla miseria, i prodotti più miserabili hanno la fatale prerogativa di servire all'uso della maggioranza». Chissà se la semiologia, dopo parecchi decenni dalla propria costituzione nel novero delle discipline scientifiche, sia oggi in grado di misurare, in termini di valore linguistico, di congruenza dell’enunciato al concetto che vi si designa, la distanza che sussiste tra una frase estrapolata da un vetusto testo marxiano del 1847 e le menzogne propagandistiche di un governo votato a smaltire, in virtù di incessanti ossequi ai mandati dell’industria mediatica, la pesante eredità corporativa di una biografia nazionale lungamente introiettata? Qualora un’anima ingenua pensasse di reperire suggestioni o pezze d’appoggio nelle baruffe virtuali che si scatenano quotidianamente sulle reti sociali a seguito di simili estemporanee recrudescenze del genio italico, promosso da residui investimenti informatici alla gloria ecumenica, ella non mancherebbe in effetti d’imbattersi in testi istruttivi: disquisizioni di autori dall’apparente prestigio pubblico, detentori tra gli italici di Streghe e di Campielli, la vacuità dei cui contenuti è compensata da una pletora d’errori etici e grammaticali che non basterebbero a vendicare i contratti a tempo indeterminato di centurie e legioni d’immortali correttori di bozze; esternazioni fuor dai denti di rampanti rampolli del patrio apparato editoriale-industriale o di suoi infimi fiancheggiatori; geremiadi di sedicenti arbitri d’una eleganza perduta eppur da loro stessi assiduamente vilipesa; il tutto agglutinato in tale pleonasmo di sintomi patologici del linguaggio mercificato che sarebbe palese atto di connivenza alla sua morbosa forza di persuasione voler demistificare in virtù d’analisi e induzioni. Mi viene, allora, in mente, quasi fortuita, affine ad una misteriosa benedizione che ci si potrebbe dar da soli, l’idea che le cosiddette fake news garantiscano profitti, ai proprietari delle architetture comunicative in cui s’annidano, grazie al tempo che i comuni utenti (quelli che nell’Atene periclea sarebbero stati detti “idioti”) impiegano a discernerle da eventuali veridiche, giacché, per l’intera durata di quell’intime disamine dalle parvenze indipendenti, essi se ne rimarranno buoni e quieti a dare implicito avallo a chi ritiene mezzo pieno il bicchiere da cui brinda in compagnia di ospiti sceltissimi, festeggiando senza posa una crescente occupazione del tempo-macchina, e stima conveniente addestrare persino i morti di sete e di fame ad assolverne i diuturni incrementi in illusoria concordia, osannante ciascuno un mutuo benessere solipsista. Per ricercare onestamente una risposta, sarà dunque opportuno lasciarsi guidare dalla necessità. Quale miglior occasione di quella offerta dall’aprire un libro a caso? Medito, pertanto, e provo a liberare la mente dai pensieri superflui, come verosimilmente farebbe chi avesse profonda esperienza del daoismo e avesse studiato i trattati di Liezi e di Mengzi. A colpo sicuro vado a raccogliere dallo scaffale le Lettere luterane, pubblicate in un frangente in cui la dittatura del codice capitalista esibiva le proprie foglie di fico democratiche al cospetto di antinomici simulacri, assortiti, non senza reazionaria oscenità, dal Cile di Pinochet alla Grecia dei Colonnelli, dalla Spagna franchista al Brasile dei gorillas. Com’è noto, l’opera si compone di un’introduzione dal titolo I giovani infelici ed una postilla in versi, estratte entrambe, a cura dell’arbitrio filologico dei redattori dell’allora eccellente casa editrice Einaudi, tra gli inediti cui Pier Paolo Pasolini andò lavorando nell’imminenza di venir congedato dalla vita, l’una posposta alla raccolta degli articoli eponimi apparsi dal luglio all’ottobre del 1975 sulle pagine del “Corriere della Sera” e del “Mondo”, l’altra premessa alla serie pubblicata sul settimanale nei mesi immediatamente precedenti ed intitolata ad un ideale ma specifico enunciatario, uno studente liceale napoletano di nome Gennariello, cui poteva allora capitar la sorte di tenere in mano quei fogli e, trovandovisi descritto, provare gratitudine per gli encomi rivolti ai suoi occhi «ridarelli», non sentirsi affatto offeso quando leggesse che sarebbe stato lo stesso «se anziché essere un Gennariello» fosse «una Concettina», essere addirittura lusingato, una volta che arrivasse al passo dove gli si diceva che, quand’anche non fosse «un miracolo», egli era almeno «un’eccezione», dal momento che tanti suoi coetanei erano «schifosi fascisti». È rimarchevole che qua, come più esplicitamente nel testo selezionato in apertura del volume postumo, Pasolini attualizzasse il lemma “fascismo” riferendolo innanzitutto al regime di cui vedeva profilarsi le propaggini, le quali finiscono appena oggi di rivelare, nei tratti essenziali di una fisiognomica priva di soggetto umano, l’abominevole profilo artificiale del totalitarismo mediatico. A guisa d’inattuale Socrate, l’autore di Petrolio aveva agio di diffondersi, a beneficio del fittizio discepolo, in dettagliati discernimenti di quella scienza allora pressoché novissima, specificando che i «“segni” del sistema verbale sono dunque simbolici e convenzionali, mentre i “segni” del sistema cinematografico sono appunto le cose stesse, nella loro materialità e nella loro realtà. Esse divengono, è vero, “segni”, ma sono i “segni”, per così dire viventi, di se stesse. Tutto ciò fa parte di una scienza, la semiologia, che tu, Gennariello, non puoi non conoscere almeno di nome, e nella sua significazione almeno divulgativa, se vuoi seguire i miei discorsi: specie questo sul linguaggio primo delle cose e sulla loro conseguente prevaricazione pedagogica».  Intanto, egli accomunava in una medesima colpa i padri e i figli della sua generazione: aver agito in complicità affinché il linguaggio dei popoli confluisse in quello della classe proprietaria. Colpa tragica e, forse davvero, «la più grave commessa in tutta la storia umana». Quanto preziosa questa rilettura per coloro che insistano a prospettare un risorgimento delle energie le quali, strutturate come un discorso liberatore, la Storia persevera a reprimere e a rimuovere! Nelle tesi, cui l’enunciatore era destinato a mancare da lì a poco, risiede un valore linguistico, durevole nella misura in cui non è tacciabile di perennità, fruttuosamente antonimo rispetto al conformismo che i tecnocrati della scienza borghese delle comunicazioni, fattisi intanto padri a loro volta, hanno disseminato nelle coscienze durante l’ultimo mezzo secolo. Così, dalle parodie insurrezionali di un coro tragico che, bruciate in un unico empito edonista millenarie prerogative democratiche, preferì integrarsi alla protocollare violenza del potere, così hanno infine ricevuto licenza e voce in capitolo gli apprendisti stregoni dell’odierna apocalisse cognitiva, organizzata in dominio assoluto delle apparenze, religione ecumenica di un’universale precarietà, nonché macchina di sterminio della ragione. Nell’inclita e colpevole compagine di codesti catecumeni, si potrebbero citare miriadi di nomi, senza comminar con ciò sufficiente castigo, né arrecar danno maggiore a quello consistente in una succedanea e gratuita promozione pubblicitaria. Sulle spalle viepiù gracili dei Gennarielli d’oggi grava dunque, oltre alla già lamentata impotenza riguardo al linguaggio delle cose, un ben altrimenti sofisticato degrado della produzione segnica. Boicottaggio e sabotaggio dei simboli e delle strutture del «fascismo vecchio e nuovo, cioè dell’effettivo potere capitalistico»: questa è la via aurea da indicare, benché per quanto attiene alle minuzie dell’itinerario si dovrà disporre di supplementare tempo e spazio, procurarselo con ogni mezzo e finanche crearlo dal nulla.