mercoledì 30 ottobre 2019

Una scrittura insurrezionale


recensione di Tomaso Kemeny

a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli

pubblicata in “Odissea”, maggio 2019



La sinistra cui il titolo fa riferimento è quella della rivolta permanente, non ideologica ma, proprio in virtù di ciò, in grado di tracciare un romanzo epico-epistolare, storico-politico, dalla propaganda di stato della dittatura fascista alla dittatura del regno mediatico globale. È una scrittura che ritengo insurrezionale proprio in quanto rifugge dall’ideologia, per richiamare esistenzialmente in vita gli eventi senza imbrattarli con pregiudizi tendenziosi, così da lasciar intendere, entro i vari contesti, le reali situazioni. Merita qualche considerazione l’impresa di questo figlio di Viareggio, là dove Shelley fu gettato dalle acque perché vi fosse arso sul rogo, ma il suo cuore non poté esser distrutto, come in genere il cuore dei poeti sfida le fiamme; per cui non è un mero caso se al genio di Field Place, una decina d’anni prima di questo romanzo, Micheli dedicasse un’opera di poetica dal titolo Il cuore e l’ombra viva. Il romanzo unisce il senso della storia con gli accenti contemporanei d’un Foscolo, autore delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Qui compaiono invece le lettere che Stefan Bauer, un ebreo moravo, manda al figlio, Bruno; ne risulta un testo che tocca l’oggettività storica e mostra la tragedia di un popolo che ha avuto l’ultimo sprazzo di rinascita, secondo l’autore, coi movimenti studenteschi degli anni Sessanta e Settanta. Penso che questo libro sarebbe piaciuto a Leon Trockij, perché è un libro della rivoluzione permanente, uno sguardo non corrotto dalla burocrazia e neppure venduto all’interesse del denaro, uno sguardo d’una innocenza inquietante, che ci consegna un’opera la quale, a mio avviso, è un evento. Quand’anche non si condivida il punto di vista dell’autore – sia il narratore epistolare, sia il narratore in terza persona sono permeati dalla visione rivoluzionaria –, anche chi non avesse la medesima visione può sentire la vita di questa bellissima penisola, una vita che non è comica come nelle immortali opere di Rossini, bensì tragica, a molti livelli. Questo romanzo, insegnando la tragedia, è un romanzo catartico. Dunque, onore ad Aristotele, il quale pensava che la scrittura potesse purificare sia i colpevoli che gli innocenti, anche perché tra gli esseri umani di innocenti – e non è mai ogni volta soltanto una notizia d’attualità – non ce ne sono, tantomeno colui che scrive. Infatti, non è certo per acuire la tragedia se, a conclusione di questa breve nota, mi viene di aggiungere una memoria. Durante gli anni Sessanta il poeta Louis Aragon, cui chiedevo quale fosse la tragedia dell’uomo, mi rispose, da buon surrealista basandosi sul soggetto e non sul sociale, consistesse nell’indifferenza.

Tomaso Kemeny














Il Tao dell'armonia interiore


nota di lettura di Giancarlo Micheli

a Neiye. Il Tao dell’armonia interiore, a cura di Amina Crisma (Garzanti, Milano 2015)




Gli Stati Uniti stavano per entrare nell’ultimo anno dell’amministrazione Reagan, demoticamente nota quale governo esemplare d’un attore professionista, quando l’ampia platea del Wortham Theater Center di Houston assistette alla prima rappresentazione dell’opera lirica Nixon in China. Il melodramma, lungo le accensioni ritmiche dell’impianto minimalista soggiacente la partitura di John Adams, musicista omonimo del secondo presidente (1735-1826), descrive la visita che il trentasettesimo, Richard Nixon, aveva compiuto quindici anni avanti, ricevendo onori di Stato dal presidente del Partito comunista cinese Máo Zédōng e dal Primo ministro della Repubblica popolare Zhōu Ēnlái. Non si trattò di un evento di secondaria importanza nella storia diplomatica del Secolo breve, tant’è che non sia azzardato sostenere che le basi delle intese allora imbastite costituiscano tutt’oggi una delle più serie ipoteche gravanti sull’avvenire di un mondo infine abitabile, libero dai confini attorno ai quali la violenza si organizza quale principio antropologico, carattere distruttivo ed apocalittico destino. Il richiamo alla produzione teatrale texana ha lo scopo, che non sarebbe onesto dissimulare, di ribadire un’ovvietà: quanto meglio al di là dell’Atlantico la stessa società dello spettacolo risponda alle istanze di contatto e compenetrazione tra le culture di quel che non avvenga nel Vecchio continente, dove una prevalente ipocrisia, burocratica e formalista, asseconda regressioni identitarie, latenti nelle esperienze dei totalitarismi novecenteschi non assimilate in senso evolutivo. Bene fa dunque Amina Crisma, nella estesa introduzione alla versione italiana del Nèiyè, uno dei classici del daoismo antico, ad insistere sui tanti pregiudizi che sono andati ad attecchire nel senso comune e dei quali solo una volonterosa cernita delle fonti filologiche può aver ragione. Così come la curatrice ci dissuade con assennatezza dalla tentazione di ridurre la complessità del pensiero filosofico in Cina alle tesi sostanzialmente pacifiste del confucianesimo, rammentando, tra altre, le sentenze di Xúnzǐ (313 a.C-238 a.C.), insigne precursore della scuola legista o fǎjia (fondata da Hán Fēizǐ, 280 a.C.-233 a.C.), secondo la quale la natura dell’uomo è in origine malvagia e soltanto una rigida educazione, non ignara dell’efficacia di pene corporali, riesce in parte ad emendarla, allo stesso modo noi possiamo solo auspicare, o tutt’al più congetturare ipotesi di convalida previo un attento ascolto delle incisioni, che la librettista Alice Goodman ed il compositore, nel dar compimento all’atto creativo, avessero consapevolezza del fatto che nel tempo in cui il plot è ambientato, durante gli anni centrali della Rivoluzione culturale, godesse di una riabilitazione in piena regola un personaggio storico lungamente stigmatizzato dalla tradizione della scuola rújiā, composta dagli adepti del sommo Kǒngzǐ  (551 a.C.-479 a.C). Questi, alla cui parabola esistenziale Xúnzǐ ispirò le proprie riflessioni, fu un talentuoso “letterato” nel cuore del Periodo degli Stati combattenti (453 a.C.-221 a.C.), nativo dello stato di Wèi ma passato al servizio del rivale di Qín, alla cui guida promosse una politica espansionista; ottemperante al dogma che il bene del Regno debba prevalere su quello dei sudditi, impose la ferrea disciplina che avrebbe condotto, anche in virtù d’un gran numero di emuli e fautori che ne avvalorarono i precetti nel corso d’un ulteriore secolo di belligeranza, al costituirsi dell’impero Qín (221 a.C-206 a.C.). Gli storici marxisti cinesi, durante gli anni Settanta del secolo scorso, tendevano appunto a rivalutare l’operato di Shāng Yāng (390 a.C.-338 a.C.), vedendo in lui un capostipite nell’uso della violenza rivoluzionaria contro i privilegi aristocratici sanciti dall’ideologia confuciana. Agli ultimi anni della vita di Shāng Yāng, o a quelli immediatamente successivi alla morte cruenta che incontrò dopo esser caduto in disgrazia presso il suo stesso patrono, gli orientalisti pongono, oggi, la datazione del Nèiyè, appartenente al corpus di un’altra scuola ancora, la daoista, emersa in concomitanza alla progressiva diffusione del buddismo Chán e sostanziata nei testi canonici del Dàodéjīng – il Libro della Via e della Virtù attribuito all’ineffabile Lǎozǐ, di cui è tuttora aperta tra gli specialisti la questione della storicità, laddove il mito lo immagina addirittura, sullo scorcio conclusivo del cammino personale verso la saggezza, pellegrino nella lontana India, dove sarebbe stato finanche il maestro del Buddha – e del non meno favoloso Zhuāngzǐ, la quale si discosterebbe dalla più saldamente radicata rújiā, al netto delle precisazioni che l’amor di brevità impone qua di tralasciare, in misura del diverso contegno consigliato al jūnzi, l’uomo esemplare, per quanto attiene al diretto coinvolgimento nella prassi politica, senza con ciò inficiare il dato storico che, al compiersi dell’unificazione del territorio in un consistente nucleo imperiale, il primo sovrano, Qín Shǐ Huángdì (260 a.C.-210 a.C.), ordinasse, al fine di preservare l’integrità del dominio dalle faziosità del dibattito filosofico, il rogo dei libri di tutti gli orientamenti, compreso quello di Mòzǐ (479 a.C.-381 a.C.), intento ad emendare la dottrina confuciana affinché il cardinale principio del rén, la benevolenza verso l’umanità, non dovesse abbracciare soltanto i propri congiunti e gradatamente attenuarsi verso i restanti estranei, bensì la totalità dei propri simili, inclusi altri di cui non è possibile dar conto, tant’è che, ancora adesso, a ricomporre i frammenti di quanto salvato, non si tragga un disegno più chiaro di quello che dovette balenar nelle menti agli oppressi che ne saggiarono le tenebre contemporanee. Il Nèiyè, dove si insegna che «l’uomo esemplare fa uso delle cose, non si lascia usare dalle cose, poiché coglie il principio ordinatore dell’unità», «se regoli il corpo e raccogli in te la Virtù efficace (dé), la benevolenza del Cielo (Tiān) e la giustizia della Terra (Dì) verranno da sé in sovrabbondanza», «quando il cuore (xīn) ben regolato si mantiene nel mezzo, i Diecimila esseri conseguono la giusta misura», finché si è in tempo, il Libro della coltivazione interiore è dunque un nodo propizio da cui prendere a dipanare l’intrigo che la storia tesse attorno alle coscienze, per erodere le barriere che segregano i popoli nella reciproca ignoranza, incamminarsi sulla via di una sapienza infine monda dalla barbarie.

Giancarlo Micheli

venerdì 25 ottobre 2019

Pellegrino a Port Bou


articolo di Giancarlo Micheli

pubblicato su Il Grandevetro (Anno XLIII, n.241, Autunno 2019)



Sovente, nella tossica nube mediatica che arrochisce ed attosca la voce umana fin nelle conversazioni da bar, il cui salace piscatorius è peraltro ormai involuto nei linciaggi e nei culti di infime personalità costituiti quale produzione segnica efficace all’interno del frenetico vaniloquio delle cosiddette “reti sociali”, per via di tali mezzi di produzione del gusto e finanche della logica contemporanee, si sentono citare, sempre più spesso, mortificanti statistiche riguardo alle scarse facoltà di lettura ed interpretazione anche del più semplice testo cui incorrerebbero oceaniche maggioranze tra i virtuali parlanti, i quali fanno quel che possono per adeguarsi al canone linguistico in vigore. Se gli fosse ancora accordato di esercitare il giudizio su simili dati, Walter Benjamin ne trarrebbe verosimilmente motivo per suffragare il pessimismo che lo persuase, nel settembre del 1940, a porre fine ad una vita che aveva fino ad allora dedicato allo studio ed alla riflessione filosofica. La decisione maturò durante un viaggio, che alle caratteristiche archetipiche del nòstos epico o dell’esodo ebraico, sovrappose le novecentesche della fuga. Data la brevità dei tempi che corrono, si potrà accennare solo en passant, senza alcuna velleità di intercettarne la dinamica esponenziale, alla diffusione che è intanto andata facendosi capillare della fattispecie del viaggio come fuga. Dall’Africa intestina fuggono in nugoli e legioni, braccati dalla miseria che i profitti delle multinazionali, proprietarie di risorse materiali e biologiche, largiscono a titolo di inderogabile crisma del credo neoliberista, inverato nei regimi locali, schietta espressione di una perseverante connivenza con le cupole finanziarie globali – in un “originario” vuoto legislativo si svilupparono infatti, anni addietro, le pratiche criminali emerse poi all’evidenza nei campi di detenzione libici ed altrove; quando, in seguito, le istituzioni europee investirono liquidità e competenze giuridiche per imporre ad alcune ex-colonie, situate sulle direttrici della tratta, una legislazione repressiva, l’effetto che ne scaturì fu la parziale legalizzazione di quanti non recedettero a lucrare sui traffici, nonché un aggravio delle efferatezze perpetrate contro coloro che non ebbero altra scelta se non di continuare ad affidare ai primi le loro sempre più flebili speranze –. Sebbene meno cruenta, è purtuttavia un’evasione pure il viaggio com’è istruita a consumarlo la working class del primo mondo, la quale, avvalendosi dei progressi tecnici dei mezzi di trasporto, attende ai rituali della vacanza alla stregua d’una liberazione, a tempo rigorosamente determinato, dal giogo di un lavoro viepiù alienante e meno creativo, quand’anche regga ancora, almeno in qualche comparto, la concorrenza dell’intelligenza artificiale, contuttoché ne risulta un’infaticabile pedagogia alla defezione dalla lotta di classe, che invece, qualora fosse condotta nelle varie patrie con lungimiranza internazionalista, colpendo, ovunque possibile, gli interessi del potere economico-finanziario, costituirebbe l’unica strategia valida per “aiutare a casa loro” gli immigrati, del cui flusso, inestinto e, in termini tutt’altro che episodici, esiziale, il banale interesse all’abbattimento del prezzo della forza lavoro rimane il primo movente. Vediamo, dunque, di non perdere la coincidenza, che pare offrirsi fortuita, tra i casi generali della specie, i cui individui appartengono in maggioranza di ora in ora schiacciante ad un multietnico popolo d’oppressi e sfruttati, ed il destino di un intellettuale in fuga dal più chiaro esempio di totalitarismo che la storia del “secolo breve” abbia conosciuto. Prima ancora che Hitler coronasse il sogno, vivaddio effimero, di veder garrire le croci uncinate sui boulevards parigini e di visitare in tutta pace il mausoleo di Napoleone agli Invalides, allo scoppio delle ostilità, Walter Benjanim, che al pari di altri antinazisti aveva trovato rifugio tra Svizzera e Francia, fu nel nutrito gruppo di cittadini tedeschi internati allo stadio Colombes, quello in cui si erano svolte le Olimpiadi del 1924, al tempo in cui egli faceva la conoscenza di Ernst Bloch e dell’opera di György Lukács, tanto da essere attratto fin da allora nell’orbita della critica marxista. Rilasciato grazie all’intervento di amici influenti, allorché venne l’occupazione, riuscì a sottrarsi alla cattura e a raggiungere Marsiglia. Da qua, assieme alla vedova Henny Gurland e al figlio diciassettenne di lei, decise di attraversare i Pirenei con l’intento di ottenere un visto di transito per il Portogallo e, infine, imbarcarsi per gli Stati Uniti. A Port Bou, invece, le guardie di confine franchiste lo trattennero per esporgli quale fosse il loro dovere: riaccompagnarlo alla frontiera, dal momento che era sprovvisto di un documento valido, che ne attestasse la nazionalità. In preda all’angoscia, si avvelenò con un sovradosaggio di morfina. Se è probabile che, mentre aspettava di addormentarsi un’ultima volta, ripensasse all’amico di gioventù, il poeta Fritz Heinle, suicida alla vigilia della Grande Guerra, oppure rammentasse le non poche occasioni in cui, dinanzi ai segni premonitori dell’incipiente barbarie, aveva meditato di togliersi la vita, come annotò nei diari, o ancora gli sovvenisse del fratello Georg, che da lì a due anni sarebbe stato ucciso nel campo di concentramento di Mauthausen, rimane un enigma, passibile di venir scalfito solo a forza di congetture, quale fosse il contenuto della voluminosa borsa di cuoio che portava con sé, come testimoniato dalla Gurland, e che sarebbe stata invece sequestrata e mai più restituita. Nessuno può dunque negare che, accanto ad una versione riveduta dei Passegenwerk, pubblicati postumi solo nel 1983, potesse trovar posto qualche appunto nel quale avesse sviluppato il tema di una conferenza tenuta cinque anni prima, il cui testo sarebbe apparso sul numero del luglio 1970 della «New Left Review». In questo testo, dal titolo L’autore come produttore, Benjamin sosteneva che «la tendenza politicamente corretta di un’opera include le sue qualità letterarie, poiché include le sue tendenze letterarie», le quali «si possono riconoscere nel progresso o nella regressione della tecnica letteraria»; discerneva, poi, tra gli scrittori autenticamente rivoluzionari e gli scribacchini al servizio del capitale – i quali ultimi poteva esemplare al lettore negli esponenti della Neue Sachlichkeit mentre oggi non avrebbe che l’imbarazzo della scelta ad indicarli in una ulteriormente oceanica maggioranza – secondo il criterio per cui i primi concepirebbero l’opera come un mezzo di produzione, un impulso all’agire politico, laddove per i secondi non si tratterebbe altro che di un articolo di consumo, un oggetto di piacere contemplativo.  Il compito che lo scrittore deve porsi «non è di trasmettere semplicemente l’apparato di produzione», bensì «di trasformarlo nella massima misura possibile in direzione del socialismo». Ed ecco infatti che, proprio al momento di concludere, il tempo che, un istante fa, sembrava volgere precipitosamente alla fine, rallenta e concede uno sguardo inatteso, simile a quello che il celebre angelo delle Tesi di filosofia della storia getta sul cumulo di macerie del passato mentre la tempesta che si sprigiona dal paradiso gli s’impiglia nelle ali e lo trascina verso il futuro cui volge le spalle, sicché confessi con ingenua letizia di aver a lungo ben lavorato sui mezzi di produzione del linguaggio in opere come Indie occidentali, La grazia sufficiente, Romanzo per la mano sinistra ed altre, né mi pare del tutto da escludere fossero già contenute in quella valigia, scomparsa ai piedi dei Pirenei, per la quale desideriamo, insieme al volonteroso lettore di codeste rapsodiche note, buone mani cui affidarla, poiché ciò che decide non è il pensiero individuale, ma l’arte di pensare ciò che è nella testa degli altri, affinché mutino entrambi nel senso dell’umanità nuova.

Giancarlo Micheli