mercoledì 22 luglio 2020

Improvviso su alcune cronache di estetica

un racconto breve di Giancarlo Micheli

pubblicato sulla rivista l’immaginazione (Anno XXXVI, n.317, maggio-giugno 2020)




Il poeta canta sonetti a Tiana

Vladimir Majakovskij

 

«Nell’era dell’intelligenza artificiale e dei sistemi di riconoscimento biometrico, l’arte autentica e sorgiva, non certo le imbrattature di emuli ed epigoni, prefigura lo scaricamento della coscienza umana sull’ecosistema entro cui compie il processo di riproduzione. Così va interpretata la prassi, oggi comune, degli interventi effimeri nei contesti urbani, dove reclama una specifica extraterritorialità dissimulandosi sotto etichette all’apparenza via via anonime, quasi vi tentasse l’anacronistica resurrezione di un’opera acheropita. Dunque, la soggettività dell’individuo futuro, rispetto alla quale l’artista rimane indice antropologico e, in casi fortunati, beniamino della vita, sarà progressivamente trascritta nell’universo materiale, finché non vi si dispieghi in creatività virtualmente impersonale, pienamente fruibile alle dinamiche spontanee della valorizzazione».

Una noia mortale queste conferenze, non c’è che dire, pur dovendo riconoscere che gli argomenti dibattuti non manchino d’interesse. Stavolta, il pretesto per congedarmi in anticipo venne offerto dal ricordo di un graffito che mi era capitato di notare a poca distanza, sul muro d’una fabbrica abbandonata, diruto ed avvolto di farinelli e piantaggine. Sul calcestruzzo nudo, qualcuno ha tracciato l’immagine frontale d’un volto, con inchiostro nero. La forma risulta dalla composizione di svariate macchie, le quali replicano un identico motivo. La preziosità del tempo, qual è norma valutare al tasso dei futures d’ultima emissione, vieta ogni eventuale velleità di descrivere di che genere di capolavoro si tratti. Avrei potuto, suggerirete voi, staccarlo con una sega a disco, come ebbe già l’intraprendenza di fare, in circostanze simili, un commerciante d’un quartiere palestinese di Betlemme; ovvero, dopo avervi applicato un foglio cosparso di resine adesive, avrei potuto strappar via una pellicola di conglomerato tanto sottile da portarmela a casa avvolta sotto al braccio, come già alcuni luminari del più antico ateneo dell’Occidente ebbero l’estro. Ci pensai seriamente, credetemi. Immaginai persino di rapire la mia musa e condurla là, alla stessa stregua, si parva licet, di quel che dev’esser balenato in mente al principe Mohammad bin Salman al Sa’ud, quando gli accadde di impossessarsi di un’opera leonardesca dalla discussa attribuzione. Fatto sta che non è per amore della bellettristica se ho fatto ritorno a quel luogo anche in sogno. Diventa plausibile, però, soltanto adesso che io abbia là un appuntamento; ma con chi? Debbo confessare non siano molte né significative le analogie tra il mio reperto d’arte di strada ed il Salvator Mundi, che gli esperti incaricati dal proprietario accreditarono alla palindroma mano del genio di Vinci, innanzitutto in base alla scoperta, sotto ai pimenti di ritocchi posteriori, di un cosiddetto pentimento: l’autore sarebbe stato incerto sull’esatta iconografia da adottare per la mano benedicente del redentore, tant’è che il pollice compariva sulla tavola sdoppiato, sia in posizione flessa che distesa. Ciò parve ragione sufficiente per discernere quel particolare dipinto quale originale entro la serie di circa una ventina di copie di bottega nelle quali si sarebbero cimentati Marco d’Oggiono, il Salaì ed altri allievi del Maestro. Una volta provveduto al restauro, l’icona rinascimentale vide levitare le quotazioni, passando dapprima dal catalogo di un sindacato di mercanti statunitensi a quello dello svizzero Yves Bouvier, poi da questi al russo Dmitrij Rybolovlev, finché non attinse l’empireo presso la sede newyorchese di Christie’s, quando un emissario del principe saudita se lo aggiudicò per una cifra che rasentava il mezzo miliardo di dollari, prezzo mai prima pagato per un’opera d’arte. Solo in seguito, alcuni critici constatarono l’incongruenza della tecnica rudimentale impiegata nella rappresentazione della sfera armillare che il Nazareno regge nella sinistra: non compare cenno degli effetti di rifrazione della luce attraverso il cristallo, i quali pure avrebbero dovuto ispirare la mente perspicua nell’osservare i fenomeni della natura quant’altre mai, a fortiori ben sette decenni dopo i virtuosismi raggiunti da Van Eyck con il Ritratto dei coniugi Arnolfini. Certi esegeti vollero spingersi allora ad ipotizzare che la presenza del doppio pollice nella mano destra non andasse affatto ascritta ad una qualche titubanza, bensì all’intenzionale spostamento sull’arto opposto della distorsione ottica che saremmo legittimati ad attenderci presso quello che sostiene invece il globo, secondo un procedimento che risulterebbe congruente sia al carattere trascendente del soggetto sia alla propensione dell’artefice verso il mistero e l’ineffabile. Poiché la pulitura del dipinto si era risolta, non senza una qualche sbrigatività, nella cancellazione della falange parallela all’indice e all’anulare, in modo che si ripristinasse, foss’anche casualmente, il gesto tramite cui il clero ortodosso impartiva il segno della croce prima del raskol, lo scisma che a metà del Seicento fece sanguinosamente vacillare l’autocrazia zarista, in anticipo persino sulla rivolta di Pugačëv, il dito omesso potrebbe aver avuto un certo momento nel determinare la decisione del collezionista di Perm affinché partecipasse da protagonista alle aste in cui fu conteso il capolavoro ritrovato, tanto più laddove si consideri che egli fosse stato in precedenza uomo di tale pietas da figurare in veste di finanziatore nel restauro della Cattedrale della Natività della Santissima Madre di Dio presso il monastero moscovita di Začat’evskij. Si narra che il monastero fosse stato rifondato già una volta, dal menomato erede di Pietro il Grande e dalla consorte di lui, Irina Godunova, sorella del reggente. Gli sposi levavano da lì preghiere perché fosse loro esaudito il voto di una discendenza. Con l’infelice Fëdor si estinse, al contrario, la dinastia rjurikide, avanti che Boris Godunov aprisse la scena ai torbidi da cui sarebbe emersa l’ultima e dicesse, stando alla versione data da Puškin nel poema eponimo: «In quest’ora comparirò alla Tua presenza e non ho tempo di purgarmi l’anima in fretta e furia». Storie del genere diventano subito noiose se non le si racconta in un romanzo dall’intreccio complicato, converrete.

D’altronde, la melagrana del sole pende già dal viluppo vegetale, attraverso i serramenti sfondati ci osserva come una pupilla vermiglia dal bulbo oculare del tramonto. Non è rimasto molto tempo. Intono alla musa un canto d’amore struggente ma affrettato. Ci sono, ma non trovo le parole. Che il sogno sia muto? Non faccio a tempo a risvegliarmi che il rudere è appena stato demolito. Ormai non ricordo neppure quanti anni siano trascorsi dacché, al suo posto, sorge un salubre e ben connesso centro commerciale, dove incontro ogni giorno la mia musa, puntualmente, ma non la riconosco.



Il sogno dell’amore nella notte di regime

un articolo di Giancarlo Micheli

pubblicato sulla rivista Il Ponte – rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei (Anno LXXVI, n.2, marzo-aprile 2020)



Scuote i tuoi piedi, ti scrolla di dosso mentre attraverso la tua pupilla d’acaro penetra un raggio appena di tutta la luce che la inondò dal pleistocene, una goccia soltanto di tutti i mari da cui emerse ti sprofonderebbe in un abisso oscuro quanto la Fossa delle Marianne, tant’è che i tuoi antenati ne ricercarono a lungo i segreti effluvi e miasmi, a lungo vi lessero segni oracolari; oggi, quel che potresti ancora fare assieme ai tuoi simili, affinché non restiate vittima del crollo di un ponte, di una lite domestica o di un incidente sul lavoro, ti appare spesso, per non dire in maniera sistematica, come un compito gravoso, in risarcimento del quale ti ritieni in diritto di reclamare un ozio che non scegli, perché «l’umanità ama parlare per proverbi, far rientrare in un caso noto l’eventuale, e più ancora ricorrere ad un’espressione conosciuta dei sentimenti che la inquietano. Pensa per delega. Parole che l’hanno colpita le tornano in mente. Se ne serve così come si canticchia un ritornello memorizzato inconsapevolmente. I suoi poeti, i suoi pensatori contribuiscono così al suo incretinimento. Si può misurare l’influenza e la forza di uno spirito dalla quantità di stupidaggini che fa schiudere»[1]. Il testo tra virgolette appartiene al Trattato dello stile, pubblicato per i tipi della «Nouvelle Revue Française»[2], alla metà del 1928. L’autore era Louis Aragon, come renderà testimonianza chiunque abbia facoltà di aggiudicarsi una ristampa recente, al prezzo che gli varrebbe un mazzo di rose, oppure un originale dal mercato antiquario, al prezzo di svariati quintali di derrate. Il nome che ancora oggi si può leggere sul frontespizio, sappia, non fu attribuito in ottemperanza alle procedure canoniche del diritto civile. La nascita non venne protocollata all’anagrafe di Stato: esiste solo un certificato di battesimo, depositato in data 3 novembre 1897 presso la parrocchia di Neuilly-sur-Seine, dove nessuno dei due genitori risedeva. Il padre, Louis Andrieux, ex-prefetto di polizia della città di Parigi, membro di spicco della borghesia protestante, sulla soglia dei sessant’anni s’era incapricciato della giovane tenutaria d’una pensione in avenue Carnot, Marguerite Tucas, di modesta famiglia cattolica. Un uomo che aveva saggiato coi lombi i ronds-de-cuir[3] nei più delicati uffici della burocrazia, calcato seggi in parlamento e fondato quotidiani d’opinione, non poteva rovinare un’onorata carriera con uno scandalo. Dopo aver conferito al poeta in fasce il proprio stesso nome di battesimo, in un’esuberanza d’amor proprio, nonché i sussidiari, Marie, Alfred e Antoine, dimostrando, a sé quanto ai depositari del documento, come egli non lesinasse affatto del proprio tempo prezioso laddove si trattasse di riflettere su ciò che faceva, lo registrò con il cognome Aragon, il primo che gli venne in mente, poiché gli ricordava il periodo felice della virilità in cui aveva servito la Terza Repubblica in veste d’ambasciatore in Spagna. Il beniamino delle Muse crebbe, pertanto, in un umile gineceo della Belle Époque, figurando ufficialmente, affinché fosse stornato ogni sospetto, quale figlio adottivo della nonna materna, fratello della madre e figlioccio del padre.

Il Trattato dello stile era stato scritto nell’estate del 1927 e concluso nei giorni in cui veniva precipitando il caso giornalistico che scuoteva l’opinione pubblica da un bel pezzo e conseguì l’apice della divulgazione il 23 agosto, quando i due anarchici Sacco e Vanzetti subirono la sentenza capitale sulla sedia elettrica di Charlestown, a dispetto di valide evidenze di estraneità ai delitti loro imputati, le quali non bastarono a sollecitare la clemenza della Corte quanto ne avessero stuzzicato la severità le fiere rivendicazioni in cui i due immigrati perseverarono nel corso di tutte le fasi del processo, cosicché dovette trascorrere ancora mezzo secolo perché un governatore del Massachusetts si risolvesse ad ammettere pubblicamente il sopruso giudiziario, e fu proprio quel Michael Dukakis il quale, nelle presidenziali di qualche anno dopo, i democratici avrebbero opposto invano a Bush padre. Riservando un brano del testo ad una sintetica rassegna stampa, Aragon vi denunciava lo stato d’animo che quel giorno ogni essere umano provò nel consultare i quotidiani: «la vergogna, la vergogna, a perdita d’occhio la vergogna»[4], la medesima cui va assuefacendosi sempre più avidamente il consumatore degli odierni strumenti mediatici. Correva, dunque, l’anno in cui le cupole della finanza cosmopolita iniziavano a puntare con decisione sul tracollo di Wall Street, mentre Stalin perfezionava l’architettura del capitalismo di Stato espellendo dal partito gli oppositori Trockij, Zinov’ev e Kamenev. Non senza magnificenza, l’epoca inclinava al crimine e al terrore. Da gennaio Aragon aveva la tessera del PCF[5], allo stesso modo di Breton, Eluard, Péret e Pierre Unik[6]. L’adesione era maturata nella temperie della guerra coloniale in Marocco, contro la quale furono levate proteste fin dal quinto numero della «Révolution surréaliste», nell’ottobre del 1925, ma se le preferenze del papa di Tinchebray propendevano già allora per la fazione che a Mosca veniva posta in minoranza, come attestò nel medesimo numero la recensione alla monografia di Trockij su Lenin, la parabola ideologica del camerlengo di cui lo stesso luogo di nascita è incerto seguì una traiettoria meno precisa e, prima che egli giungesse ad una presa di distanza critica nei riguardi del piccolo padre sovietico, sarebbero trascorsi trent’anni, tra i più abominevoli che la Storia possa tramandare. Qualora tu volessi esprimere giudizi a posteriori sugli errori nei quali incorre un poeta, rammenta che il senso morale del tic nervoso che misura una vita umana sulla scala della coscienza cosmica, pur considerato come totalità, lo comprendi solo negli istanti in cui leggi nel passato il vaticinio che realizza la tua presente beatitudine. Rinuncerai al piacere di tentare una volta di più, basteranno a farti desistere i rischi che esso comporta? La Storia, ad ogni buon conto, pone a ciascuno condizioni particolari.

 Il surrealismo, che nel fascicolo doppio del suo organo di stampa uscito nell’ottobre del 1927 ospitò un articolo sulla psicoanalisi per i non medici nella traduzione di Marie Bonaparte[7] ed a firma nientemeno che di Sigmund Freud, considerava il genere letterario del romanzo con sospetto, giacché orientato dal principio di realtà ed estraneo ai domini decisivi dell’Es, perciò Aragon aveva scritto nel Trattato che «la letteratura, nelle diverse accezioni del termine, si chiama ricetta. Lo stile, che qua io difendo, è ciò che non può essere ridotto in ricette»[8], precisando: «Io chiamo stile l’accento che prende in occasione d’un dato uomo l’onda da lui ripercossa dell’oceano simbolico che mina universalmente la terra per metafora»[9]. Dal 1923 lavorava ad un testo in prosa, per il quale aveva escogitato il geniale titolo di La difesa dell’infinito; ogni mese ne consegnava i nuovi manoscritti a Jacques Doucet, couturier dell’alta moda e arbiter elegantiae di quei tempi di tribolazioni non soltanto estetiche, il quale gli versava un compenso di mille franchi e li prendeva in custodia nella propria collezione, comprendente autografi di Stendhal, Baudelaire, Rimbaud, Apollinaire, Gide, Cocteau, Valéry, Proust, dei quali soltanto nel 1929 il mecenate si sarebbe deciso a far dono all’Università di Parigi. Coerente alle scelte politiche e alla lezione concreta della lotta di classe, nei mesi in cui attendeva alla composizione del Trattato, Aragon decise di liberarsi dal vincolo contrattuale, giustificandosi per via epistolare in questo modo: «La posizione che ho preso politicamente, e che questo testo vi vieta ormai di ignorare, vi rende senza dubbio impossibile la mia frequentazione, impossibile l’impiego delle mie facoltà per l’arricchimento della vostra biblioteca, dove io rischio di introdurre un lievito politico, della vostra biblioteca che oggi mi sembra una cosa assolutamente insensata giacché non contiene né Babeuf, né Blanqui, né Marx, né Engels, né Lenin, né Trockij, e preferisce loro non importa che stupidaggine letteraria apparsa in questi ultimi anni»[10]. Tale intransigenza ebbe ripercussioni deleterie sulle vicissitudini private dell’autore delle Aventures de Télémaque[11] e del Paysan de Paris[12]. Entrò in crisi la relazione con la Musa d’allora, l’avvenente scrittrice britannica Nancy Cunard[13], erede degli armatori che a metà del diciannovesimo secolo avevano fondato a Southampton l’omonima ed assai redditizia compagnia di navigazione, nonché pupilla dell’empireo intellettuale cosmopolita, se è vero che non furono immuni al fascino di lei, tra amanti e meri anfitrioni, personalità della caratura di Ernest Hemingway, James Joyce, Aldous Huxley o Ezra Pound. Piuttosto di scadere al rango degli infimi nella speciale graduatoria, Louis dette fondo ad un vano repertorio, fino a culminare in autentiche intemperanze schizoidi, come quando nel mese di novembre, in una lussuosa camera d’albergo madrilena, gettò nel caminetto tutto ciò che gli era riuscito racimolare della Difesa dell’infinito e l’allibita Nancy fece a tempo a salvare dalle fiamme solo pochi foglietti. Senza il becco d’un quattrino, com’era tornato dal fronte dopo avervi servito da barelliere e poi in qualità di aiutante medico ausiliare, si risolse a dare alle stampe alcuni dei brani di cui era rientrato in possesso. Essi apparvero nell’aprile dell’anno successivo, con un paio di mesi d’anticipo sulla provocatoria opera teorica, in tiratura di sole centocinquanta copie, rilegati in un volumetto privo di nome d’autore ed editore, intercalati alle illustrazioni ad acquaforte di André Masson[14]. Con il titolo di Le con d’Irene[15] era destinato a diventare uno dei classici della letteratura erotica novecentesca, degno di affiancare Les onze mille verges[16] di Apollinaire, tantoché ebbe travagliate rinascite editoriali sotto varie etichette, subendo talora sequestri giudiziari, finché oggi lo si possa acquistare in edizioni economiche ad un costo pari al diritto di sosta per un paio d’ore in un comune parcheggio, mentre chi volesse procurarsi uno dei residui esemplari del 1928 dovrebbe sborsare una cifra sufficiente a finanziare per un terzo l’acquisto di un’auto elettrica ad emissioni zero. Fino alla morte, che lo avrebbe colto ottantacinquenne, al principio della presidenza Mitterand, allorché il PCF faceva un’effimera apparizione al governo della Quinta Repubblica, Aragon negò di essere l’autore di quella prova licenziosa, sebbene l’attribuzione fosse di pubblico dominio sin dagli anni Trenta. Fatti suoi, converrai, dai quali consegue nondimeno la rilevanza del Trattato nella tua situazione, quando gli Stati imperialisti misurano i loro dazi nella contesa capitale, esattamente come cominciarono allora, e dovresti ricordare com’è finita. Dunque, per agire a tuo beneficio non rimane che prendere atto di ciò che Aragon, in merito allo stile, sanciva allora riguardo alla religione: «Di tutte le perversioni sessuali, essa è la sola che sia mai stata scientificamente sistematizzata. La virtù cristiana garantisce per l’ortodossia e costituisce un principio di normalità, che la pratica della confessione ristabilisce e mantiene, esattamente come la psicoanalisi fa per la sessualità cosiddetta normale»[17]. Esaminato il tema in argomento sotto il rispetto della sintassi, dell’uso di droghe, di alcuni versi di Valéry, dei commenti di Philippe Soupault[18] a proposito di Lautréamont, dopo aver inanellato alla rapsodia non euclidea la parte che vi tenevano sia le esperienze di Michelson e Morley sul principio di relatività sia la narrativa passatista alla Montherlant[19], puntualizzata persino un’ellittica profezia intorno M. Louis Barthou, ministro della Giustizia in carica e destinato a cadere vittima, sei anni più tardi, per mano di un separatista croato mentre, nel nuovo ruolo di ministro degli Esteri, riceveva il Re di Yugoslavia, una divinazione del tutto secolare nella quale contemplava il caso d’un anonimo cittadino che volesse mettere in rapporto le proprie parole alle proprie azioni e decidesse quindi di attentare alla vita dello statista, né dimenticava di ammonirlo che, «tanto vale prendere un esempio da ridere, questo crimine al rallentatore rischierebbe d’essere prevenuto dal braccio zelante d’un funzionario ambizioso»[20], precisato infine che, quand’anche si scelga di attribuire ai poeti la caratteristica distintiva di parlare di niente, sia inderogabile farlo opponendo a tale niente il qualcosa di coloro che non sono poeti, rimarcato che «sussiste tra la vera espressione poetica, non dico in alcun modo il poema, e le altre espressioni la medesima distanza che corre dal pensiero alla chiacchiera»[21], esortava: «Poeta, prendi il tuo liuto. Sì, ma chiudi il becco, quando nel leggere il tuo giornale del mattino trovi alla fine questa sciocchezza e questa porcata intollerabili, quando hai la straordinaria sfacciataggine di sentirti toccato se si condannano da qualche parte a trenta, dieci anni di prigione, persone che hanno semplicemente protestato contro il servizio di leva, o la guerra in Marocco, e che hanno, pare, istigato i riservisti alla disobbedienza. Ebbene, inutile girarci intorno se mi viene voglia di dire quel che penso. Io ritengo, e ciò non ha senza dubbio la serietà desiderabile per un giudice, perfetto, ma possiede un po’ più d’efficacia futura di una dichiarazione giornalistica inghiottita dal cestino, poiché questa affermazione prende in prestito qui la via d’un libro che ci si può aspettare di ritrovare a lungo nelle mani di persone molto giovani e particolarmente inclini alla collera, io considero un immondo abuso tale diritto che il governo e la giustizia s’arrogano in Francia ai nostri giorni d’interdire a coloro che detestano l’esercito il diritto di esprimere per scritto, coi commenti che aggradino loro, il disgusto che hanno di un’istituzione rivoltante, contro la quale ogni iniziativa è umanamente legittima, ogni attentato raccomandabile. Ed è attraverso la costrizione fisica che codesti Repubblicani rispondono alla scrittura. Io appartengo, si dice, alla classe del 1917. Io dico qua, e ho forse l’ambizione, certamente ho l’ambizione di provocare con queste parole un’emulazione violenta in coloro che vengono chiamati sotto le armi, io dico qua che non indosserò più l’uniforme francese, la livrea che mi è stata gettata sulle spalle undici anni or sono, io non sarò più il lacchè degli ufficiali, io rifiuto di salutare quei bruti e le loro insegne, i loro cappelli tricolore alla Gessler[22]. Sembra che il rinomato Painlevé, un uomo che un tempo, ma se l’aria è rimasta la solita le parole sono assai mutate, che un certo Painlevé, ministro della Guerra, abbia firmato l’altro giorno un decreto mostruoso secondo cui qualunque ufficiale o sottufficiale, qualunque cretino pagato per marciare al passo, gode ormai del diritto di arrestarmi in strada. Non bastavano gli agenti di polizia. E al pari di loro, anch’essi sono ormai sotto giuramento. Hanno, queste materie fecali, una parola che fa legge. Ah, l’agricoltura non mancherà di vacche. Ebbene, poiché guardarli storto per la strada vale una notte in guardina, ho l’onore, a casa mia, in questo libro, in questo passo, di dire che, molto consapevolmente, io caco sopra l’armata francese nella sua totalità»[23].

Ora, ciò di cui abbisogni, quanto dell’aria che respiri e dello spirito, fosse appena quello che basta a comprendere il nesso causale tra la sindrome e l’ammalato, tra la vittima e il carnefice, è un movimento internazionalista, colorato dalle bandiere da opporre come una soltanto agli eserciti del mondo, affinché cedano le armi e l’umanità prenda una rivincita eclatante su se stessa e la sua preistoria. Se ci sarà tempo torneremo a parlarne, di una poetica, praticata quale arte dell’agire, che supera l’eone aristotelico dei generi letterari e le caudate specie delle sue connivenze con l’oppressione. A chi vorrà tornare sul tema o addirittura mettersi al cimento auguro attimi di gioia in proporzione a quelli che ricevette il figlio del prefetto di polizia Andrieux alla fine dell’anno in cui ci aveva provato in tutti i modi. La Cunard gli preferiva ormai un jazzista di colore; com’era prevedibile, il serio volume incluso nella prestigiosa collana della «Nouvelle Revue Française» si rivelò un fallimento dal punto di vista commerciale ed anche il libello pornografico non lasciava intravedere altro che beghe legali. Non desterà meraviglia se egli arrivò sulla soglia del suicidio. Ciononostante, a novembre, in una brasserie di Montparnasse, fece conoscenza con Elsa Triolet[24], cognata di Majakovskij ed anche lei scrittrice, la quale sarebbe stata la sua compagna per il resto della vita. Gli anni sarebbero trascorsi in larga parte invano, ad osservarli da un qualsiasi punto ancora troppo distante dal mondo infine abitabile, sul cammino verso il quale il nuovo amore avrebbe comunque cosparso non piccole pietre miliari della chiarezza a venire, come nelle sette stanze che, durante l’anno di svolta del XX Congresso del PCUS, ti rammentarono: «Io canto per passare il tempo/ che mi resta di vita breve/ Come sulla brina si scrive/ Come si fa il cuore contento/ Io canto per passare il tempo// Vissi giorni di meraviglia/ Io e voi, ve lo ricorderanno/ Scavalcai il muro degli anni/ Uscii di Venere dalla conchiglia/ Cui il nostro universo più non somiglia/ Vissi giorni di meraviglia// Vai e queste dita spoglia poi/ Come il fronte fa con la gloria/ I nostri occhi per primi nella storia/ Videro le nubi più basse di noi/ Ed alle nostre ginocchia gli avvoltoi/ Vai e queste dita spoglia poi// Abbiam fatto chiari di luna/ Per le nostre regge ed effigi/ Che importa se ora ci uccidi/ Le notti cadranno una ad una/ La Cina s’è messa in Comune/ Noi facemmo chiari di lune// Ne dissi oggi e ne avrò detto ieri/ Tanto fu questa vita avventura/ Dove l’uomo crebbe in natura/ La sua voce sopra ai sentieri/ Le parole i mari e i misteri/ Ne dissi oggi e ne avrò detto ieri// Sì per passare il tempo canto/ Col violino si usa l’archetto/ Nel rimbalzello un sassetto/ E con il mio amore t’incanto/ Dove l’ombra mi pende accanto/ Sì per passare il tempo canto// Intanto passo il tempo a cantare/ Canto per lasciare il tempo passare»[25].



[1] Louis Aragon, Traité du style, Gallimard, Collection Blanche, Paris, 1928, p. 66-7. Tutte le traduzioni sono dell’Autore.

[2] La rivista venne fondata nel 1908, su impulso di André Gide ed altri intellettuali francesi. Nel 1911 fu acquisita dall’editore Gallimard, che ne fece il proprio marchio di lignaggio letterario, dando alle stampe Sartre, Malraux ed una messe d’astri di prima grandezza. Nel corso dell’occupazione nazista, Gaston Gallimard accettò di epurare i redattori ebrei e comunisti, a patto che fosse concessa l’autonomia editoriale a Pierre Drieu la Rochelle, che dirigeva allora la testata. Alla liberazione, ciò comportò l’interdizione sotto l’imputazione di collaborazionismo. Sullo scorcio finale della Quarta Repubblica però rinacque e, benché non goda del medesimo prestigio d’una volta, esiste tuttora.

[3] Il referente del lemma francese è un cuscino di cuoio a forma di ciambella, distintivo tra gli impiegati del terziario, tant’è che, dopo l’uscita di un fortunato romanzo del 1893 cui Georges Courteline (Tours, 25 giugno 1858 – Parigi, 25 giugno 1929) aveva dato il titolo di Messieurs les ronds-de.cuir, venne a designare, nell’uso comune, un passacarte, un travet, uno scribacchino.

[4] Aragon, op. cit., p. 121.

[5] Il Partito Conunista Francese, in realtà, si chiamava allora PC-SFIC (Parti Communiste – Section Française de l’Internationale Communiste), per distinguersi dall’effimero Parti Communiste, d’ispirazione libertaria, vicino all’anarchia e d’impronta schiettamente rivoluzionaria, fondato nel maggio del 1919 e sciolto nel marzo del 1921. La denominazione Parti Communiste Français fu assunta solo nel 1943. Dal 1944 al 1947 partecipò ai governi di coalizione con i socialisti, allora ancora sotto l’acronimo SFIO, Section Française de l’Internationale Ouvrière, e del MRP, Mouvement Républicaine Populaire, cristiano democratico. In quel frangente arrivò ad essere il primo partito di Francia nelle legislative del novembre 1946, raccogliendo quasi il trenta per cento dei suffragi. Le traversie della guerra fredda e dell’attuale fase imperialistica, attraverso una seconda effimera esperienza governativa nei gabinetti del socialista Pierre Mauroy (1981-4), ne erosero progressivamente la consistenza, finché nelle ultime elezioni legislative del giugno 2017 ottenne meno del tre per cento.

[6] Pierre Unik (Parigi, 5 gennaio 1909 – Pomezní Boudy, 27 febbraio 1945), di madre olandese e padre polacco, scrittore e sceneggiatore surrealista. Aderì al movimento fino al 1933. In seguito, fu redattore dell’«Humanité» e caporedattore del settimanale del PCF «Regards». Venne mobilitato nell’Esercito francese nel settembre 1939. Fatto prigioniero, fu internato nei campi di Görlitz e poi di Schmiedeberg. Morì all’inizio del 1945, poco al di là della frontiera cecoslovacca, nel corso di un tentativo di fuga.

[7] Marie Bonaparte (Saint-Cloud, 2 luglio 1992 – Gassin, 21 settembre 1962) fu pronipote di quel Lucien che il fratello e Primo Console escluse dalla successione imperiale per via d’un matrimonio sbagliato. Venticinquenne venne impalmata ad Atene dal principe Giorgio di Grecia. Fu donna spregiudicata e innovatrice in campo morale; introdusse in Francia la psicoanalisi, traducendo le principali opere di Freud, di cui fu fedele discepola per tutta la vita. Per chi volesse approfondire la conoscenza del personaggio: Célia Bertin, Marie Bonaparte, Perrin, Paris, 1982; Jean-Pierre Bourgeron, Marie Bonaparte, Puf, Paris, 1997; Giancarlo Micheli, Romanzo per la mano sinistra, Manni, Lecce, 2017.

[8] Aragon, op. cit., p. 193.

[9] Ivi, p.210.

[10] Lettera di Louis Aragon a Jacques Doucet del 14 gennaio 1927, riprodotta in Louis Aragon, Papiers inédits. De Dada au surréalisme (1917-1931), éditon de Lionel Follet et Édouard Ruiz, Gallimard, Collection Cahiers de la NRF, Paris, 2000, p. 120.

[11] Louis Aragon, Les Aventures de Télémaque, Gallimard, Collection Une Oeuvre, Un Portrait, Paris, 1922. Nel frontespizio, un ritratto dell’autore per mano di Robert Delaunay.

[12] Louis Aragon, Le paysan de Paris, Gallimard, Collection Blanche, Paris, 1926.

[13] Nancy Cunard (Nevill Holt, 10 marzo 1896 – Parigi, 17 marzo 1965), fondatrice della The Hours Press, che pubblicò, tra l’altro, l’esordio letterario di Samuel Beckett e i Cantos di Pound. Dopo esser divenuta, nel 1928, l’amante del jazzista afro-americano Henry Crowder, s’impegnò come militante dei diritti civili contro l’apartheid.

[14] André Masson (Balagny-sur-Thérein, 4 gennaio 1896 – Parigi, 28 ottobre 1987), pittore surrealista. Allo scoppio delle ostilità, seguì la diaspora del movimento negli Stati Uniti. Rientrato in Francia, ruppe con Breton e si legò a Bataille e Sartre.

[15] Louis Aragon, Le con d’Irene, René Bonnel, Paris, 1928. Sulla copertina il titolo era composto, in nero, lungo una losanga evocante, della protagonista, le grandi labbra vaginali, sviluppata attorno alla scritta verticale, in rosso, della data di pubblicazione, la quale alludeva invece alle piccole. Il testo ebbe una prima riedizione clandestina nel 1952, a cura di Jean-Jacques Pauvert e arricchita da una stampa di Hans Bellmer, e una seconda, dieci anni dopo, con una prefazione di André Pieyre de Mandiargues. Nel 1968 Régine Deforges, precorritrice e paladina della narrativa lesbica, riuscì a mettere in piedi una propria casa editrice, L’Or du temps, e ne inaugurò le pubblicazioni con l’opera aragoniana. Il volume subì il sequestro giudiziario a motivo del fatto di non presentare alcun nome d’autore. Qualche mese dopo, però, la battagliera imprenditrice fece uscire una nuova tiratura recante il nome di un autore fittizio, Albert de Routisie, cosicché il libro poté infine entrare regolarmente in commercio. Da allora conobbe molte edizioni in numerose lingue. Nel 1986, infine, Gallimard incluse il testo, assieme ad altri frammenti nel frattempo recuperati, all’interno del volume La Défense de l’infini suivi par Les Aventures de Jean-Foutre la Bite, édition d’Édouard Ruiz, Gallimard, Collection Blanche, Paris, 1986.

[16] Edito a Parigi nel 1907 e siglato dalle sole iniziali G.A. Espone il catalogo delle perversioni sessuali dilette al Gospodar moldo-valacco Mony Vibescu, di cui descrive le peripezie da Parigi a Bucarest e fino a Port Arthur, dov’era in corso la guerra russo-giapponese, e dove il protagonista patirà il castigo ad opera delle undicimila verghe dei soldati nipponici trionfanti. Come Aragon, anche Apollinaire non rivendicò mai la paternità del testo. Anche in questo caso, il libro divenne disponibile ad una legittima divulgazione solo grazie alla Deforges, negli anni Settanta del secolo scorso. All’inizio dell’attuale, invece, rimonta una sua recrudescenza agli onori della cronaca, giacché l’editore turco Rahmi Akdaş, vistesi distruggere tutte le copie per decreto delle autorità giudiziarie nazionali, le quali avevano rilevato la violazione del codice penale in vigore presso lo strategico membro della NATO con l’addebito di «pubblicazione di materiale osceno ed immorale atto a suscitare e sfruttare desiderio sessuale nella popolazione», fece appello alla Corte europea dei diritti umani, a seguito del cui verdetto fu riconosciuta l’appartenenza dell’opera al Patrimonio letterario europeo.

[17] Aragon, op. cit., p. 97.

[18] Philippe Soupault (Chaville, 2 agosto 1897 – Parigi, 12 marzo 1990) fu autore con Breton degli Champs magnétiques, esperimento originario della scrittura automatica quale rivelatrice delle forze inconsce. Sorse però ben presto un contenzioso intorno all’interpretazione dell’opera del comte de Lautréamont, modello di stile del surrealismo, e sulla stessa persona di lui, tant’è vero che, allorché nel 1927 Soupault ebbe l’incarico di redigere la prefazione alle opere complete del creatore di Maldoror per conto dell’editore Au sans pareil, vi confuse Isidore Ducasse con un omonimo comunardo blanquista il quale si sarebbe convertito al cattolicesimo e si sarebbe distinto tra le vittime della repressione per l’odor di santità, equivoco tale da destare l’indignazione di Aragon nelle pagine del Trattato.

[19] Henry Marie Joseph Frédéric Expedite Millon de Montherlant (Parigi, 20 aprile 1895 – Parigi, 21 settembre 1972), veterano della Grande guerra e tardivo esponente del decadentismo, collaborò con i nazisti durante Vichy. Dopo un anno di bando, poté riprendere nel dopoguerra l’attività letteraria e si suicidò agli inizi degli anni Settanta.

[20] Aragon, op. cit., p. 218.

[21] Ivi, p. 231.

[22] Albrecht Gessler, leggendario balivo asburgico del cantone di Uri durante il quattordicesimo secolo, difensore della sovranità imperiale sulle terre elvetiche contro Wilhem Tell, reso celebre quale personaggio dell’omonimo dramma schilleriano e caratterizzato dal copricapo guarnito con piume di pavone.

[23] Aragon, op. cit., p. 233-6.

[24] Nata Ella Jurev’na Kagan (Mosca, 12 settembre 1896 – Saint-Arnoult-en-Yvelines, 16 giugno 1970), era la sorella di Lilja (Mosca, 11 novembre 1891 – Peredelkino, 4 agosto 1978), la quale sposò Osip Maksimovič Brik, uno dei promotori, assieme Viktor Šklovskij e Jurij Tynjanov, dello Opojaz, gruppo per lo studio del linguaggio poetico fondato a Pietrogrado alla vigilia della Rivoluzione. In seguito, Lilja sarebbe divenuta l’amante di Vladimir Majakovskij e dal 1923 i tre convissero secondo i principi černyševskijani del libero amore, fino al suicidio del poeta nel 1930. Ella, invece, incontrò nel corso della guerra l’ufficiale francese André Triolet, di stanza in Russia. Al termine del conflitto lo seguì a Parigi, dove i due si unirono in matrimonio. Nella sua attività di scrittrice di prose, versi e saggi critici utilizzò sempre il nome francesizzato di Elsa e con lo stesso venne immortalata nelle liriche più celebri del nuovo consorte, col quale convolò a nozze il 28 febbraio del 1939 per condividere poi le traversie della Resistenza e della Guerra fredda.

[25] Louis Aragon, Le roman inachevé, Gallimard, Collection Blanche, Paris, 1956, p. 157-8.


Per la critica delle stragi

un articolo di Giancarlo Micheli
pubblicato sulla rivista Il Grandevetro – trimestrale di immagini politica e cultura (Anno XLIV, n.244, estate 2020)


Le stragi delle quali questo numero seleziona una rassegna, sebbene non sia affatto vano indagare ciascuna nei dettagli da cui emerge in specificità di situazioni ed in singolarità di destini, avranno pure un denominatore comune in virtù del quale sia consentito illuminarle razionalmente, senza per questo pretendere di sussumerle sotto formule giornalistiche che conobbero effimere pandemie ed ancora non hanno avuto il tempo di essere del tutto immunizzate nel neutrale lessico storiografico, mi domando. Contrariamente all’abitudine, per cercare una risposta stavolta non mi avvarrò di metodi fortuiti, vado a colpo sicuro. Conosco esattamente il posto che occupa tra i volumi adiacenti, ed anche quale scaffale nella libreria. Si tratta di un saggio che Walter Benjamin scrisse, guarda caso, proprio durante i mesi in cui era in corso, a Torino, l’esperimento dei consigli di fabbrica, raro esempio di autogoverno dei lavoratori tra i parlanti la nostra lingua. Il titolo che il filosofo, allora ventinovenne, scelse fu Zur Kritik der Gewalt, Per la Critica della violenza, ed egli stesso tenne a precisare come l’analisi vertesse su rapporti giuridici determinati, peculiari all’Europa a lui contemporanea. Nell’ambito di essi iniziò rilevando una legge d’invarianza, secondo la quale gli ordinamenti statuali tendono, «in tutti i campi in cui fini di persone singole potrebbero essere perseguiti coerentemente con la violenza, a stabilire fini giuridici che possono essere realizzati in questo modo solo dal potere giuridico». A titolo di corroborazione, portava l’esempio delle norme che prescrivevano ai cittadini il servizio di leva, cosicché gli era facile concludere che «il militarismo è l’obbligo dell’impiego universale della violenza come mezzo ai fini dello Stato». Da lì veniva ad interrogarsi se fosse mai possibile una regolazione dei conflitti che facesse ricorso a mezzi puramente non violenti, per subito ravvisarla nel linguaggio, dalla cui sfera l’esclusione di principio della violenza è attestata da una circostanza significativa: l’impunità della menzogna. In origine nessun codice la proibiva. Un tale divieto sarebbe sorto soltanto in seguito, quale tratto distintivo di sistemi ormai non più efficienti nel contrasto ad ogni minaccia estranea, tanto che giungessero a sanzionare l’inganno non certo per considerazioni d’ordine morale, bensì per paura della violenza che esso potrebbe scatenare nell’ingannato. Queste furono le ragioni per le quali il diritto di sciopero venne accolto nelle varie legislazioni nazionali, benché contrario agli interessi dello Stato, sovrastruttura politica modellata a propria immagine per mano della classe ideologicamente egemone, nonché proprietaria dei mezzi di produzione. Ai mezzi coercitivi, intesi alla conservazione del diritto, il berlinese contrapponeva i mezzi puri della politica, in particolare lo sciopero generale, distinguendo in esso due sottocategorie decisive, grazie alle parole di Georges Sorel: per i partigiani del primo, lo sciopero generale politico, «il rafforzamento dello Stato è alla base di tutte le loro concezioni», se il loro riformismo trionfasse, e gli accadimenti successivi avrebbero dato loro purtroppo vittorie sin troppo numerose, «lo Stato non perderebbe nulla della sua forza, il potere passerebbe da privilegiati ad altri privilegiati, la massa dei produttori cambierebbe soltanto i suoi padroni»; al contrario, chi propugna il secondo, lo sciopero generale proletario, vuole sopprimere lo Stato, «la ragion d’essere dei gruppi dominanti che traggono profitto da tutte le imprese di cui l’insieme della società deve sopportare gli oneri».
Al fine di riportare codeste riflessioni entro la finestra repubblicana che la redazione ha deciso di prendere in esame, amico lettore, considera se la caratteristica, che accomuna la maggior parte degli efferati eccidi, di colpire alla cieca su vittime innocenti sia poco congruente alle prassi tipiche di quel ventennio nel quale Piero Gobetti lesse magistralmente l’autobiografia della nazione ed i cui timidi epuratori non seppero reperire indizi probatori altro che per stabilire l’identità di appena 390 collaborazionisti dell’OVRA, lasciando impunite oceaniche maggioranze di insigni conniventi al regime fascista, ma non dimenticare neppure altre empietà che sono andate nel frattempo perpetrandosi, non senza aggravio di nocivi effetti. Ad esempio, una statistica fornita dalla OMS, celeberrima in questi giorni di lutto e di psicosi collettiva, registra nella sola Italia ottantamila decessi all’anno attribuibili all’inquinamento atmosferico; intanto, le industrie che ne sono responsabili continuano di mese in mese, tramite il sistema mediatico di cui sono detentrici attraverso cartelli e trust, a rivendicare esenzioni e privilegi, di cui lo Stato non tarda a farsi il docile garante, laddove i diritti dei lavoratori vengono erosi con proporzionale sicumera. Gli imprenditoriali corifei del made in Italy continuano dunque ad accaparrare premi, prebende ed encomi, mentre le morti sul lavoro, a ratei costanti, mietono le vittime equivalenti a quelle d’un conflitto bellico di media intensità.
Ora, con validità esclusiva a quanto attiene al testo che hai tra le mani, voglio pertanto proclamarmi, in piena autonomia ed alla faccia delle italiche eccellenze, maestro del lavoro, in virtù del fatto, che perderesti il tuo tempo a voler contestare, di aver lavorato con gioia ogniqualvolta fosse possibile. Percepirai qua un metatesto? Qualora ciò non accada imputami pure, magari senza livore o compatimento, di aver voluto menarti per il naso, alla stessa stregua di quanto avrebbe fatto un qualsiasi autore di gialli, specie dominante, almeno in termini quantitativi, all’interno della famiglia del proletariato intellettuale che impiega i mezzi di produzione del linguaggio, quasi mai per trasformarli, bensì per il profitto dell’apparato editoriale-industriale. Sappi che non mi offenderò persino se vorrai classificare l’autore del testo che reggi tra le dita nel genere ristretto, ma non poi tanto, del sottoproletariato, entro la suddetta famiglia, essa per prima ormai di rado consapevole o solidale, di norma del tutto orba di coscienza di classe e a fortiori di specie. Il sottoproletariato: a sud delle Alpi è invalso designarlo così, ed anch’io all’apparenza debbo inchinarmi all’autorità dell’uso, ma non lo farò prima di aver ricordato il referente che il lemma incontra nella lingua di Goethe: Lumpenproletariat. Lumpen significa, alla lettera, stracci. Ciò offre occasione per ricordare l’epigrafe di Indie occidentali, dove narrai l’epopea degli immigrati che, dall’Europa e pressoché dal mondo intero, alimentarono di manodopera l’industria statunitense, al momento in cui oltreoceano si gettavano le basi della dominazione imperialista: «La parola bayeta è il termine comune spagnolo per straccio. Grandi quantità di questi erano prodotte in Inghilterra per il commercio spagnolo e messicano, la maggior parte dei quali era di un color rosso brillante. In questo modo l’inglese straccio divenne lo spagnolo bayeta per gli Indiani americani del Sudovest. Familiari con l’arte della tessitura, questi Indiani disfacevano la bayeta, la riavvolgevano in uno, due o tre fili e la ritessevano nelle loro coperte, che sono adesso quasi senza prezzo. Questa vecchia coperta fu trovata dall’autore in un recinto del Nuovo Messico, per pulire l’assale del suo calesse. Era coperta di fango e sporcizia. Un certo numero di lavaggi rivelò questo glorioso esemplare dell’arte della tessitura (da William Carlos Williams, The Great American Novel, Paris, The Three Mountains Press, 1923)».
Ad ogni buon conto, a te che, al postutto, riterrai ti sia conveniente l’appartenenza all’apparato, all’unica ed autentica burocrazia del sistema di avvilimento e incretinimento in vigore oggi, il cui operato potrebbe esser visto, finché non lo si vieti espressamente, come un ecumenico depistaggio delle menti e dei cuori, bada di non risvegliarti un mattino in cui la realtà venga rimessa sulle gambe: non sarà poca la vertigine nel ritrovarti a testa in giù. A te, invece, che al compimento di questa pur minima mutazione, ti sentirai donna o uomo come mai prima: confidiamo l’una nell’altro come in una medesima coscienza, affinché il mondo si riempia di differenti bellezze, quali ieri non sapevamo ancora immaginare.

Un’intervista a Giancarlo Micheli (maggio 2020)

a proposito di Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017)

a cura di Mario Giannelli per Dada Viruz




Castello di Duino, una porta della poesia

un articolo di Giancarlo Micheli

pubblicato sulla rivista Il Ponte – rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei (Anno LXXV, n.5, settembre-ottobre 2019)



Si arriva in un coro di attriti meccanici, lungo la linea ferrata in bilico sulle falesie che precipitano nel golfo, quasi a capofitto. E camminando su questa esigua lingua rocciosa, incontri poi una delle più ampie piazze dell’intero continente, consacrata all’unità della nazione. Trieste è soprattutto una città di contrasti, cosicché perdendosi per contrade e canisele occorra quasi per avventura d’imboccare una porta scorrevole tramite la quale accedere dalla Casa della letteratura a quella della musica, addentrarsi dal caffè San Marco al Tommaseo; forse meglio che non in altri luoghi di confine s’intende parlare un’eteroclita congerie d’idiomi: il tedesco dei turisti che, serenamente a spasso verso Venedig sui lustri travertini delle zone urbane pedonali, in cuor loro rimpiangono il possesso di un loro posto al sole mediterraneo, per sottacere il croato, il serbo, il bosniaco, brusivi in certi angusti fondaci dove s’accalca un desueto commercio, in un labirinto di capi di vestiario i quali, in Occidente, parvero alla moda trent’anni fa ma che, tutt’oggi, lì si vendono a buon mercato, per non dir poi del greco, del turco, o di chissà che altro. D’altronde le frontiere linguistiche, non sarà vano ricordarlo, attraversano i corpi prima ancora dei territori. Qualsivoglia sia l’autorità che il lettore accordi loro, già i teorici della semiotica delle culture (Juij Lotman, Boris Uspenskij) sostennero, nel cuore degli anni Settanta del secolo scorso, che la minima condizione per lo sviluppo autonomo di una cultura fosse una base almeno bilinguistica: una è la lingua che, a pieno titolo, definiamo “madre”, compitata dapprima in infantili ecolalie sull’innesto delle elementari verbalizzazioni dell’accudimento, l’altra quella strutturata nell’uso adulto, allo scopo di ricoprire il campo semantico delle significazioni necessarie all’accumulazione del sapere come capitale fisso della specie, lingua, è onesto confessarlo, fino ad oggi storicamente adibita a fini prevalentemente imperialistici.

In un punto tra i più interrogativi tra quanti il pensiero dell’uomo, alla soglia del battito di palpebre che ne è genealogia sulla scala dell’evoluzione cosmica, può fissare nei templi della memoria, mentre prosegue ad istoriare la superficie del pianeta quale pagina di una scrittura sorgiva e salubre, nel proprio castello di Duino, all’estrema propaggine settentrionale dell’Adriatico, la prinzessin Marie von Thurn und Taxis[1] ospitò Rainer Maria Rilke affinché, nell’incipit della Prima Elegia duinese[2] che compose con meno d’un paio d’anni d’anticipo sulla deflagrazione della Grande Guerra, nell’imminenza della precoce bancarotta umanitaria della borghesia, egli congiungesse le voci, i desideri e le promesse degli amanti di ieri e di domani nella domanda: «Chi, se io gridassi, mi udrebbe negli alti Ordini degli Angeli?».

Della risposta è possibile farsi un’idea a patto di immaginarla mentre svanisce, un attimo prima di averla distinta appena dallo sciabordio delle onde che sbattono, dinanzi alla vigilia della visione ed allo sguardo affacciato al di là della finestra del mastio. Vedi forse, allora, le onde spezzarsi contro lo scoglio cesellato in foggia di dente di drago, ossequiente al mito cadmeo, eponimo del Vecchio Mondo[3], purché tu le discerna in presentimento, quando ancora affiorano oltre brume simboliste di un dipinto di Arnold Böcklin, oramai sottovento al più sontuoso fortilizio di Miramare, che albergò la tragedia coloniale dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo, salpato, cinquant’anni avanti al soggiorno rilkiano, alla volta del Messico da cui non avrebbe fatto ritorno, la salma venuta a decomporsi dal sembiante tanto giovane e bello da aver destata l’invidia del dio azteco Huitzilopotli[4] pure in un’Ode barbara carducciana[5], dalle cui strofe l’ultimo imperatore azteco[6] gli aveva vaticinate «inferna» alla stregua di un dannato dantesco, e veridicamente se gli annali riportano come non bastassero a salvarlo le truppe francesi del generale Bazaine, che Napoléon le pétit gli aveva fornito, a guisa di moderno pretorio ed a titolo di sovrana garanzia diplomatica, ma non fece a tempo a riaverle indietro, lese nell’onore etnico e marziale, se non per esporle all’umiliazione di Sedan e perché i superstiti di esse adempissero, sotto l’egida prussiana, alla repressione della Comune di Parigi.

Pare sia invalso oggigiorno il vezzo di considerare le rivoluzioni alla stregua di inciampi di percorso, episodi in cui un carattere immaturo ed incline alla vanità si rivela al destino adattivo della specie quale sarebbe specchiato nei protocolli esecutivi dell’ordine tecnologico e di una relativa e miserabile sopravvivenza. In ciò ritorna, appunto, il pensiero dogmatico e religioso, sotto un aggiornato odore di eternità virtuale, nelle nuove costrizioni e contrizioni entro i sacelli feticisti delle merci immateriali, scambiate contro l’unità valutaria di una comune impotenza cognitiva. Se la poesia è ancora qualcosa, essa è da sempre contrarietà ontologica a tale deriva degli eventi.

Di ciò esibisce pratica dimostrazione uno dei pochi concorsi letterari che sia aperto alla partecipazione di giovani poeti, sotto i trent’anni (all’incirca l’età cui i legislatori dell’antica democrazia posero l’akmé, dopo la quale si considerava completato il corso di studi e si acquisiva pertanto il diritto ad esercitare cariche pubbliche), cosicché ne riesca, ogni primavera, rappresentato pressoché l’integro spettro delle lingue parlate sul pianeta, giacché i testi vengono valutati nelle lingue originali degli autori. A tale già lodevole caratteristica distintiva il Concorso internazionale di poesia e teatro Castello di Duino affianca l’altra, non da meno, di esser tra i pochi a rimanere geloso della propria autonomia da ogni logica editoriale, anche proprio in virtù del suo impegno internazionale che richiede sguardo libero e purezza di giudizio per discernere nel modo più adeguato tra diversi canoni letterari e modalità espressive. Il Duino, giunto all’adolescenza, all’età cui i cittadini solerono entrare al ginnasio sotto l’autorità dell’istruzione di Stato ma in un’epoca in cui è affatto prudente dubitare sulla durevolezza di simili consuetudini, è il frutto dell’ingegno e della passione di una donna infaticabile, partita da Napoli, dove ricevette l’avviamento agli studi che non avrebbe più abbandonati, trasferitasi quindi in Calabria, dove contribuì alla fondazione dell’Università locale, emigrata poi a Trieste per trovarvi, in una fase della vita cui il costume di ora in ora addestra alla rassegnazione e alla rinuncia, l’amore, un’ideale e concreta prosecuzione della giovinezza, un principio di guarigione, pur nella selva oscura sulla quale filtra la luce crepuscolare dell’estrema preistoria umana. Sì, i giovani poeti di ogni angolo del mondo che, nella città cara a Rilke, a Joyce e a molti altri, s’incontrano al compiersi di ogni rivoluzione terrestre compongono una figura in grado di trattenere le lancette dell’orologio apocalittico, di rimettere le sveglie e le sirene delle fabbriche ad un segno infine umano, sono le donne e gli uomini ai quali i sopravvissuti dell’antropocene possono affidare il messaggio, il fiore, il tozzo di pane che sono vissuti per cavar fuori dalle rovine.

Ogni anno la giuria, della quale sono onorato di far parte, premia e segnala un gruppo di testi che comporranno un volumetto, sul quale un ideale lettore di poesia potrà gettare uno sguardo più lungimirante di quello cui forse lo sedurrebbe una ricerca troppo ligia al dogma individualista. Nella poesia Camminare insieme agli anelli del tempo il cinese Kewei Wang mostra un reperto dell’oscenità dietro le apoteosi edilizie della costa produttivista, descrivendo un villaggio che potrebbe esser benissimo quello dove l’autore è nato od un altro tra gli innumerevoli dove il dente predatorio incide la carne vivente, la rode in un tempo sospeso tra antropofagia e compassione: «Sull’altro fianco della montagna si trova il confine della città, di tanto in tanto si ode un forte rumore./ La polvere sale al cielo tremando, il torrente spaventato piange lacrime nere/ Piano piano le macchine strappano la pelle della Terra./ Il bambino dice che il martello sta uccidendo la gente/ La luce del sole sta in silenzio, mio padre mi consegna una mascherina/ Scatto una foto, mentre osservo insieme agli altri./ Io e mio padre camminiamo insieme, lui dice/ che metto il dito nel naso come il nonno/ Nego ridendo, non voglio essere un muratore per costruire una casa./ Sulla via del ritorno, non mi sento più di camminare insieme a mio padre/ Sono molto afflitto: in futuro dove seppellirò mio padre?/ Non sarà inghiottito dagli escavatori»[7]. Ciascuna edizione chiama ad esprimersi su un tema, quello della XIII, tenutasi nell’anno 2017, è stato “Generazioni”. Era inevitabile che uno sguardo ci riportasse alla realtà delle guerre in cui si sfregia la specie. Il trapasso delle generazioni, nella poesia Ricordi d’infanzia di qua del nigeriano Chinwa Ezenwa-Ohaeto, sfuma nell’apparente stasi in cui l’urgenza dell’atrocità la trattiene: «Senti una guerra infinita/ di cui non puoi dire l’inizio e che pure risorge di generazione in generazione/ attraverso i tuoi ricordi d’infanzia; come se tu avessi/ indossato volti che non potevi riconoscere, senti i tuoi ricordi d’infanzia/ come eterni rovi che riaccendono profondi dolori e tristezza e morti gigli dentro di te,/ senti ostilità gonfiarsi negli occhi di quelli che portasti qua/ e nei cuori di quelli che essi portarono a loro volta»[8]. L’autore, avendo perseverato a scriver versi nell’inferno di violenze civili e religiose cui l’imperialismo di tutte le bandiere ha ridotto la sua terra, dove le falde acquifere sono contaminate dagli sversamenti di petrolio di un’industria estrattiva che ha ben poco veridica eccellenza da vantare e dove, pur tuttavia, la casta locale ha pieno agio di compensare, con dosi suppletive di brutalità, la gesuitica nequizia riguardo al cui razionale impiego deve ancora colmare un vistoso divario rispetto ai modelli coloniali, l’autore, dunque, nella recente XIV edizione del Duino, ha meritato, se non l’emancipazione a diritti di cittadinanza universale, almeno di essere promosso dal novero dei segnalati al primo premio, valsogli dalla poesia Casa mia: possa un’alba portare nuovo sorriso su di essa, nella quale ha interpretato il nuovo tema, la “Casa” appunto, con realistica veemenza: «La mia casa è un oceano pieno di tempeste e paura:/ Puoi trovarvi le mie sorelle in hijab –/ Le cui fibre sono tutte state spezzate dai ragazzi/ Che sparsero sperma tra le loro cosce – annegate nelle lagune;/ Puoi trovarvi i miei fratelli in bandana le cui vite e i cui polmoni/ Sono affumicati da foglie macerate;/ Puoi trovarvi bambini che sanno ridere come sconosciuti e che/ Sono battuti dalla fame e decorati dalla sporcizia e sono spot di malattie./ La mia casa è una città dove il fuoco divampa in tutte le cose per morire»[9]. Corroborare, tramite un esauriente commento lessicologico e grammaticale, il lavoro che si concretizza in una traduzione tra contesti resi tra loro tanto difficilmente comunicativi quanto le strutture economico-linguistiche consentono in una fase storica votata a crudeltà persino inconsapevoli, richiederebbe un tempo ed uno spazio che i medesimi vincoli al principio di realtà non concedono, se è vero quel che narra, richiamandosi dal Messico all’attualità di una tipologia di catastrofe naturale che non risparmia i parlanti di nessuno degli idiomi in uso sul pianeta, Alan Bojórquez Mendoza in Appuntamento con la morte: «Sono la vittima risparmiata dalla pelle crollata della memoria/ Agli edifici (santuari dell’anima) non fu sufficiente la forza delle cosce/ per rimanere in piedi»[10]. Oltre che a Chinwa e Alan il massimo riconoscimento per l’ultima edizione è stato condiviso da una terza voce poetica, stavolta femminile. Sarah Lubala, nata da genitori camerunensi, è cresciuta in Sudafrica e ha spiegato nel suo testo Cosa dire al Funzionario dell’Immigrazione quando ti domanda da dove vieni: «Dì la pancia dell’arida/ stagione/ dì la frustata della terra/ dì che inghiottisti/ intere regioni/ dì che sputasti solo cenere»[11]. Vi è da cogliere forse un insegnamento, assieme ad un esempio della dialettica intersoggettiva operante nel linguaggio dei popoli che è la poesia, nel verso conclusivo di Borderlines di Mark Veznaver: «Il senso dei confini è attraversarli»[12]; alla stessa stregua, si può ritenere enunci una promessa che verrà mantenuta la clausola di Biografia di Lucía Bonilla Molina: «Siamo la discendenza tangibile/ del miracolo che ci precede.// Dentro,/ molto dentro:/ risplendo costellazioni»[13]. Come ho scritto nella motivazione al premio assegnato a Chinwa Ezenwa-Ohaeto, alla comunità che sapranno costruire questi giovani poeti è saggio e democratico (l’etimologia di tale termine accosta a démos, il popolo, cràtos, personificazione della Potenza, dell’energia della deliberazione consapevole, sorella mitologica di Bìa, di Zelo e di Nike) porgere auspicio affinché trovi “la forza di emendare la massima shelleyana che li nomina «futuri legislatori del mondo» solo a patto di essere «inascoltati»[14]”.

Dal punto di vista pratico l’organizzazione del Concorso, la cui premiazione avviene ogni volta all’interno di un nutrito calendario di eventi della Festa della letteratura, comprendente quest’anno pure un interessante seminario su teoria e pratica della traduzione di testi letterari tenutosi presso l’Università di Trieste, è resa possibile – oltre che dal patrocinio dell’Unesco e del Ministero degli Esteri, dal contributo della Regione Friuli Venezia Giulia e dal contributo e dalla collaborazione di varie fondazioni e associazioni, tra le quali in primis la promotrice Associazione Poesia e solidarietà – soprattutto ad opera dell’impegno di molte cittadine e cittadini, ad esempio lo “sposo”, come dice lei, di Gabriella, Ottavio Gruber, il quale, dopo aver navigato molti anni nella marina mercantile, giunto ad un’età a cui in maggioranza si ambisce a tirare i remi in barca, rimane uno dei più attivi nel dare ospitalità ai giovani poeti, compone la grafica delle copertine delle sillogi e dà man forte alla “sposa” negli adempimenti più faticosi.

Giudichi il lettore, in totale arbitrio, se non sia lecito affermare che già adesso l’umanità sia talvolta in grado di difendere – contro il potere economico globalizzatore, che invano pretenderà su di essi una mistificatoria esclusiva per ipotecare il futuro entro i ristretti limiti della propria visione miope e distorta – e lasciare che si compiano in libertà i genuini atti espressivi i quali, una volta, furono creduti miracoli.



[1] La famiglia Della Torre appartenne alla fazione guelfa della nobiltà lombarda fin dal XII secolo. Un ramo della gens, i von Thurn Valsassina, vassallo di Carlo V d’Asburgo, si stabilì dapprima in Friuli ed acquisì la proprietà del castello di Duino nel 1587. Da esso discendeva la principessa Marie von Thurn und Taxis (1855-1934), prosecutrice di una tradizione di mecenatismo nei confronti di letterati, musicisti, filosofi e poeti.

[2] Rainer Maria Rilke, Duineser Elegien, Insel Verlag, Leipzig, 1923; ed.it. Elegie duinesi, Einaudi, Torino, 1978. «Wer, wenn ich schriee, hörte mich denn aus der Engel/ Ordnungen?»

[3] Secondo il mito, Europa, figlia del re fenicio Agenore, venne rapita da Zeus, dissimulato in sembiante di toro, e da questi trascinata per mare fino a Creta. Cadmo, fratello di lei, venne quindi incaricato dal padre di ritrovarla. Approdato in Grecia, egli vi fondò Tebe, grazie all’aiuto degli Sparti, guerrieri nati, per benevola intercessione di Atena, dai denti del drago, custode della sorgente cittadina, che egli era stato capace di sconfiggere solo al prezzo della perdita di tutti i compagni.

[4] Huitzilopochtli, dio azteco della guerra e del sole.

[5] Giosuè Carducci, Miramar in Terze odi barbare, Zanichelli, Bologna, 1889. «Tra boschi immani d’agavi non mai/ mobili ad aura di benigno vento,/ sta ne la sua piramide, vampante/ livide fiamme// per la tenèbra tropicale, il dio/ Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,/ e navigando il pelago co ’l guardo/ ulula — Vieni.»

[6] «Guatemozino», come Carducci traslitterò, contenendolo nella metrica dell’endecasillabo, l’ossitono Cuauhtemoc, relativo all’ultimo sovrano resistente alla dominazione spagnola di Hernan Cortés, da questi fatto impiccare sul patibolo di Izancanac nel febbraio del 1525.

[7] Generazioni Generations. Concorso internazionale di poesia “Castello di Duino”. Tredicesima edizione, Ibiskos, Empoli, 2017, p.48.

[8] Ivi, p. 91.

[9] Casa / Home. Concorso internazionale di poesia “Castello di Duino”. Quattordicesima edizione, Ibiskos, Empoli, 2018, p.45.

[10] Ivi, p.48.

[11] Ivi, p. 47.

[12] Generazioni Generations. Concorso internazionale di poesia “Castello di Duino”. Tredicesima edizione, Ibiskos, Empoli, 2017, p. 144.

[13] Ivi, p. 58.

[14] Percy Bysshe Shelley, A defense of Poetry in Essays, Letters from Abroad, Translations and Fragments, Edward Moxon, London, 1840; ed.it. Difesa della Poesia, Rusconi, Milano, 1999. «Poets are the unacknowledged legislators of the world.»