Una recensione di Carmen De Stasio
al romanzo Pâris Prassède (Monna Lisa edizioni,
2023)
pubblicata in Sanza-meta
Non
è semplice sintetizzare i passi salienti della propria vita. Per altro, e
viepiù, appare quasi un’operazione maestosa cercare di sintetizzare tutta una qualità
di esistenze che, irrimediabilmente, si congiungono a qualsiasi tipo di eventi,
ivi comprendendo lo stile e quel che dell’evento resta nel perdurare
successivo. Sicché gli stessi eventi compaiono in una particolare, dettagliata,
pur inspiegabile, panoramica al punto da marcarne la natura, lasciando
assorbire dati apicali dai quali l’estinzione è avulsa; dai quali, anzi,
sovviene l’immagine archetipica che, con sobrietà e fluida convenienza di
sapere, comporta l’inesauribile ponderazione – giammai afflitta – di quel che –
in quanto prodotto – giunge fino a una presenzialità, sul palcoscenico della
quale si è attori credibili e non già principianti. Tutto ciò immancabilmente
apporta delle modifiche anche alla forma memorizzata dell’evento, comportandosi
al pari di come ciascuna esperienza di conoscenza apporti il sigillo di
qualcosa di mancante e che – fortunosamente – sia pervenuto oppure sia stato
colto, deprivandosi di qualsiasi fattispecie viva il pericolo di esaurire non
già l’energia di sapere, quanto l’energia di accostarsi a conoscenze vitali, a
quelle conoscenze che spiegano da sé, e che nemmeno occorre portare in
auge con alcunché rimandi ad eventuali e approssimative spiegazioni; senza
alcun bisogno di descrivere passaggi di quella esistenza che appartiene alla
realtà di ciascun tempo, ai tempi preparatori e alle fasi successive e
ipotetiche, laddove – se un possibile dove può esser attendibile – pure
le significazioni principiali si perdono nell’ostilità di una memoria
claudicante.
Tutto
questo soggiunge a preambolo fondante all’indagine da me svolta sul libro di
Giancarlo Micheli – Paris Prassède. Un’esperienza affatto nuova e un
evento, per i quali ciascun lettore avverte l’urgenza di riconoscere, nella
dinamica dello svolgimento narrativo, lo stile dell’autore, uno stile che
determina la necessità di andare a ritroso e ricercare le fonti; corroborarne
poi l’effettività traducendo – attraverso il medium linguistico e strutturante
– il conosciuto e ricercato con le dinamiche immaginali e rese, non già
sommariamente, come reali, come parti tutt’altro che intorpidite della storia.
Di fatto, si concilia con questa ennesima prova la scena esperienziale di un
tempo giammai logorato da approssimazione e dal quale – parlo del secolo XIX –
gran parte del tutto (?) attuale dipende nel procedere graduale e corroborato
da presenza anziché latitanza di idee e non senza sofferenza, passando dalle
scienze, dalle tecniche e dalle tecnologie, attraversando le jungle dei viaggi
fisici e dei viaggi immaginali, pervenendo al nuovo secolo corrispondente a un
del tutto nuovo modo di sognare attraverso la scrittura, alle strategie che
imprimono caratteri distintivi e pressoché collocabili in un determinato
periodo, uno squarcio appariscente all’orizzonte quale sponda di uno scambio
visuale, di punto di vista che si allarga, si dilata, lascia lo sconcerto e l’eccitazione
come promessa di modernità mantenuta.
Assai
vasto il territorio di azione di quel tempo che si allunga fino alla foce
intricata del secolo successivo: un secolo soprattutto abbreviato dalla
velocità che fin da subito lo anima e ne squarcia il mistero attraverso gli
innesti socio-letterari, passando da una socialità che concede l’interlocuzione
e rende la parola diletto veicolo di riflessioni, di progettualità e di
variazioni: così il lettore incontra la magniloquenza della parola,
innanzitutto; essa traduce in sé la struttura articolata di un ponte di
equilibri, di congiunzione temporale, prima che intellettiva ed emozionale;
attraverso l’innesto ponderato di una parola attenta e giammai vagheggiante, né
approssimativa, avviene l’incontro tra i personaggi, si stabiliscono
collegamenti e correlazioni e si difendono posizioni; si estingue l’improbabile
e si lascia spazio al divenire in fieri e distante dalla mera teoria. Lo
scrivere in sé appare dunque un evento prima che agli eventi si conforti l’andare
ricercando di Giancarlo Micheli – un andare incentivato alla concertazione e
alla concentrazione di tanto e di tanto insieme, piuttosto che nell’ubriacatura
sfuggente. Tutto corre e ricorre e sono gli atti e i fatti, i personaggi e le
condizioni a decretare questa voracità di conduzioni che deliberano in Paris
Prassède quello che è e che sarà il tenore di massima dell’operazione,
laddove la narrazione materializza una dinamica cinematografica e fatti
emergono con esorbitanza e con la velocità di un dissidio, se si vuole, che
preme perché vari passaggi da una situazione all’altra pervengano a dar motivo
dell’atto e non già tralasciarlo in un andito celato a prender la polvere della
dimenticanza. Così ci sorprendiamo a conoscere e – ancora una volta – a
riconoscere e a stupire, caldeggiando la solennità di un linguaggio utilizzato
con protervia e accordo musicale, ove mai una parola – qualora vivesse il
decadimento della sostituzione con una pur minimale complanare facilitante –
non farebbe altro che impoverire l’intera struttura in favore di un’interruzione
nevralgica, anche subordinata ad esser spicciola e flessibile, ma non
dilatabile. E, di fatto, è la dilatabilità a sistematizzare il processo
narrativo di Pâris Prassède: un lavoro che è e che si autodefinisce in
progressione alla stregua di un ricamo o di un intarsio, per il quale gli
elementi interagiscono per integrazione, quanto per un’esigenza di orientare l’accadimento
e l’immaginale risvolto, al fine di generare un’intelaiatura densa di
contiguità – coniatori di una struttura congrua di una solidità comprensiva. L’intento
è, pertanto, duplice: insieme, quanto pure su fronti paralleli, le evenienze
reali sono sfondo e, al contempo, snodi cruciali, così come la vastità dei nomi
di personaggi reali ivi presenti. Tutti insieme creano l’imbastitura di un
romanzo che sia realmente – una condizione dall’apparenza contrastiva – di
fantasia. Il funzionamento rammenta l’imbastitura tutt’altro che fantastica e
improbabile del Frankenstein, per dire, nella misura in cui la
prospettiva si incanala – e incalza – su proiezioni dal vero desunte da
esperienze conciliate dall’autrice Mary Shelley, e che notificano la modalità
secondo la quale la diffusione scientifica avesse, nel tempo del quale il libro
tratta (il crepuscolo del XVIII secolo), la potenza di uno sguardo panoramico,
ma anche lo sfavore del mito, di quel Prometeo la cui ambizione è raggiungere
il potere divino. Sebbene su versanti distinti, invero, anche il libro di
Micheli intraprende un percorso identitario e, talora, insospettabile, per poi
svoltare in esperienze che coagulano il vero e il non vero con l’invero(simile)
fino a risultare depurate di qualsiasi ascesi assurda – almeno per tempi
specifici – e che portano in concretezza qualcosa di incollocabile e tantomeno
misurabile perché oramai assai distante ed imponderabile. Da qui l’osservanza
di schemi che desumono l’irrealtà soltanto come infiorescenza di quanto è
(ancora, perlomeno) sconosciuto e che appare alla mente del coevo come irreale.
Giungiamo, quindi, all’opera
dal titolo criptico, se si vuole: Pâris Prassède. Nulla a che fare con
la capitale francese, sebbene la Francia sia diletto scenario principale, bensì
con Pâris – Paride – il nome del personaggio di fantasia con il quale si apre
nel libro il potenziale di liberazione dalla schiavitù, una schiavitù che
intraprende una varietà di forme come soltanto una società fortemente
fossilizzata sulla deviazione dei criteri di urbanizzazione può dare; Paride,
dicevo, «in omaggio al principe di un antico poema epico» (leggiamo a p. 41). A
Pâris si accompagna poi il patronimico Prassède «poiché praxis»
– scrive l’autore – «nella lingua in cui era stata cantata l’originaria virtù d’armi
ed amori, significa “azione”, e sull’intraprendenza e l’azzardo avevano riposta
la fede e maturata la gloria tutti gli eroi che concorsero ad abbattere il
dominio dei bianchi». Basterebbe questo a definire il codice scritturale del
libro, laddove eroico e sincero è il nobile afflato di un sapere che muove dall’esperienza,
un’esperienza che, seppur filtrata da un terreno immaginale, depone a favore di
un’interlocuzione spaziale, oltre che temporale; di una sorta di crescente
reticolato che volge con serietà (e indifferenza alle mode) verso la
conciliazione di quelle tappe che distinguono la prassi rispetto a un fare
generico. Da qui la convergenza tra vero, invero (invisibile) e vero(simile)
riempie lo spazio di conquista della parola-veicolo di idee in continuo
trasferimento, adottando una narrazione fondata sul criterio convergente della
liberazione e del diritto, vale a dire, dei passi significativi affinati al
raggiungimento di libertà e di diritto, passando per circostanze individuali
che si dilatano a incrociare destini di tipo economico, sociale, di ruoli assai
diversi senza mai frantumarsi.
Gli eventi, pertanto, si
accompagnano alle loro stesse deflagrazioni, mantenendo intatto il punto
iniziale e la volontà mai estinta, interloquendo fittamente con i passi
misurati di una temporalità giammai vista sullo sfondo, e, vieppiù, irrobustita
dalle circostanze. Allo stesso modo, i dialoghi affrontano i fatti, portando
alla luce realtà tutt’altro che tumefatte dall’oblio. Ecco, dunque, come l’opera
raggiunga il suo apice esattamente in quanto scritto: è punto di snodo e
necessita di ulteriori elementi per contraddistinguere il desiderio – o
necessità – dell’autore di evitare l’oblio su quegli eventi che avrebbero
decretato passi avanti; che sarebbero stati il sostegno e la crisi di valori
umani. In tal senso Pâris Prassède dispone sul medesimo piano la volontà
dell’autore di farsi guida e anteporre l’abilità di generare una prospettiva in
divagazione degli eventi, conquistando, di questi, le identità performative
attraverso accadimenti, la cui rotondità viene raccontata dallo stile e dalle
motivazioni di ciascuno e, non da ultimo, dall’interiorità dello stampo
tematico.
In altri termini, l’autore
segue una praxis consolidata al punto da caratterizzare l’opera intera e
particolare del romanzo. Sicché il romanzo stesso prende il titolo quasi in
maniera autonoma, oserei dire: si fa prassi non necessariamente
convenzionalizzata (istruita, cioè, da un correntismo banalizzato e indotto per
agio): è meta-azione che volge, in quanto prassi, a consolidare le fasi in
maniera edotta, scientifica cioè, adducendo tutte le condizioni intese a
irrobustire la strutturazione di un romanzo che tale è in quanto miscellanea di
soggetti operanti e, di conseguenza, di eventi che vedono i protagonisti tutti
coinvolti nell’orientamento degli eventi medesimi. Inoltre, a suggellare i vari
snodi intervengono con decisività le marcature immaginali. E sono marcature
che, in ogni caso, rivestono la facoltà del mantenere la determinazione oltre
il possibile depauperamento, quanto l’oltre del deperimento di conoscenze e di
condizioni a fondamento dell’intera attualità. Talora nel bene, tal altre nel
male, allorquando pressa la miopica utilizzazione aberrante sovente perpetrata
dagli stessi viventi. Tutto questo rinvia a una sequenza calibrata di parametri
non già presi in prestito al fine di creare una tela di dissociazione, quanto a
realizzare la dilatazione di episodi congeniali, imbastiti per essere
efficienza di socialità e, pertanto, di esperienza reale, piuttosto che
faticosamente realistica. Vale, dunque, a questo punto, la pena escludere l’irreale,
tanto che il romanzo consegue una visualità temperata su aspetti che rendono
incidentale qualsiasi tentativo di lettura pari a un umorale compendio di
fantasia. Mi spiego: la realtà, insieme alla realtà immaginale dei personaggi
(malgrado taluni siano efficacemente recuperati alla storia), consegue l’efficace
tema per avvalorare la conoscenza come ambito di condivisione nel mentre si
prosegue nella lettura-investigazione. Così ciascun episodio incontra il
successivo attraverso rimandi e memorie. Anzi, ciascun episodio – nel momento
in cui costituisce il fatto e lo storicizza – va a costruire altresì il
compendio di una memoria quale efficace fronte di riflessione. Così, ancora, il
lettore intravede e intraprende, in un unico tempo, avvedutezza storica e
accuratezza lessicale, alle quali, poi, si affianca l’essere totale dell’autore
animato dalla passione per l’oratoria pedissequa e attenta al benché minimo
dettaglio, dileguando qualsiasi lacerto di noia. E all’acutezza dello sviluppo
narrativo non mancano di affiancarsi tratti che avvampano la curiosità di saperne
di più per le ipotetiche – e quanto mai afferrate – intuizioni di là da
pervenire sullo scenario della pagina.
In questa nuova
operazione letteraria, Giancarlo Micheli non diserta il criterio; né, a sua
volta, il contenuto viene oscurato dalla forma, benevolmente inquieta e assai
vivace tra le esponenzialità che emergono via via dal sottobosco ombrato,
laddove si adagia lo sviluppo in una molteplicità di irrequietezza che dà forma
alle parti, tutte conciliate a garanzia dell’ottimale resa letteraria. E sì,
perché, accanto al valore letterario, Pâris Prassède conquista per
essere sinfonia di storia, di ricerca e di narrativa intensa. Qui si instaura l’attitudine
di Giancarlo Micheli. Qui il proemio di precedenti opere conquista un ricamo a
sé per essere formula ensoverbale – nel senso di sondare tutte le direzioni
correlate – al fine di un andare arricchendosi, che oscura l’iniquità. Iniquità
alla quale Giancarlo Micheli si ribella, proponendosi nella vastità narrativa;
compiendo un taumaturgico ordito funzionale a una tela che, insieme alla
provvidenziale dilatazione argomentativa, intreccia fitti nodi mediante un lessico
rigoroso, ben distante da concilianti approssimazioni. Dall’osmosi risulta una
narrazione liturgica che nulla trascura e che, anzi, trasmette la valenza
preponderante di conoscenze dettagliate che quindi fioriscono in un’intelaiatura
tutt’altro che sommaria, mediante la quale la testualità viene assunta come
condizione caratterizzante.
Quindi, una serie di
parametri svolge a suffragare il valore dell’opera, nel cui svolgimento il dato
della schiavitù, del dileggio del dato umano di uguaglianza, quanto l’imponderabile
slegamento dall’oscurità di un femminino manipolato a esser scudo a se stesso,
si inserisce non senza spiegazione autonoma tra le pagine che evolvono come
solchi ponderati a dar significazione alla storia, traendo il giovamento dell’emancipazione
dall’inganno del sapere. E Giancarlo Micheli prepara il terreno esplicativo per
le circostanze, riservandosi una letterarietà che diviene il vero spirito del
mondo con le sue discrepanze, le sue increspature e i casi sequenziali,
esplorando le proprie credenziali lungo una rotta libera dalle catene di un
letterariamente facile, per avviarsi sul sacro solco di una conoscenza in
progressione, esplicitata mediante la coltivazione di una dialettica che, nella
sua doviziosa puntualità, appare innovativa. E, di fatto, l’innovazione insiste
in quella che potremmo definire come scrittura rivoluzionaria per il fatto di
sovvertire il qualunquismo retorico e restituisce dignità alla prontezza che la
lingua italiana riserva, fervida e compatta.
Carmen De Stasio
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