lunedì 9 dicembre 2024

Ricercando la compattezza della storia

 Una recensione di Carmen De Stasio

al romanzo Pâris Prassède (Monna Lisa edizioni, 2023)

pubblicata in Sanza-meta


Non è semplice sintetizzare i passi salienti della propria vita. Per altro, e viepiù, appare quasi un’operazione maestosa cercare di sintetizzare tutta una qualità di esistenze che, irrimediabilmente, si congiungono a qualsiasi tipo di eventi, ivi comprendendo lo stile e quel che dell’evento resta nel perdurare successivo. Sicché gli stessi eventi compaiono in una particolare, dettagliata, pur inspiegabile, panoramica al punto da marcarne la natura, lasciando assorbire dati apicali dai quali l’estinzione è avulsa; dai quali, anzi, sovviene l’immagine archetipica che, con sobrietà e fluida convenienza di sapere, comporta l’inesauribile ponderazione – giammai afflitta – di quel che – in quanto prodotto – giunge fino a una presenzialità, sul palcoscenico della quale si è attori credibili e non già principianti. Tutto ciò immancabilmente apporta delle modifiche anche alla forma memorizzata dell’evento, comportandosi al pari di come ciascuna esperienza di conoscenza apporti il sigillo di qualcosa di mancante e che – fortunosamente – sia pervenuto oppure sia stato colto, deprivandosi di qualsiasi fattispecie viva il pericolo di esaurire non già l’energia di sapere, quanto l’energia di accostarsi a conoscenze vitali, a quelle conoscenze che spiegano da sé, e che nemmeno occorre portare in auge con alcunché rimandi ad eventuali e approssimative spiegazioni; senza alcun bisogno di descrivere passaggi di quella esistenza che appartiene alla realtà di ciascun tempo, ai tempi preparatori e alle fasi successive e ipotetiche, laddove – se un possibile dove può esser attendibile – pure le significazioni principiali si perdono nell’ostilità di una memoria claudicante.

Tutto questo soggiunge a preambolo fondante all’indagine da me svolta sul libro di Giancarlo Micheli – Paris Prassède. Un’esperienza affatto nuova e un evento, per i quali ciascun lettore avverte l’urgenza di riconoscere, nella dinamica dello svolgimento narrativo, lo stile dell’autore, uno stile che determina la necessità di andare a ritroso e ricercare le fonti; corroborarne poi l’effettività traducendo – attraverso il medium linguistico e strutturante – il conosciuto e ricercato con le dinamiche immaginali e rese, non già sommariamente, come reali, come parti tutt’altro che intorpidite della storia. Di fatto, si concilia con questa ennesima prova la scena esperienziale di un tempo giammai logorato da approssimazione e dal quale – parlo del secolo XIX – gran parte del tutto (?) attuale dipende nel procedere graduale e corroborato da presenza anziché latitanza di idee e non senza sofferenza, passando dalle scienze, dalle tecniche e dalle tecnologie, attraversando le jungle dei viaggi fisici e dei viaggi immaginali, pervenendo al nuovo secolo corrispondente a un del tutto nuovo modo di sognare attraverso la scrittura, alle strategie che imprimono caratteri distintivi e pressoché collocabili in un determinato periodo, uno squarcio appariscente all’orizzonte quale sponda di uno scambio visuale, di punto di vista che si allarga, si dilata, lascia lo sconcerto e l’eccitazione come promessa di modernità mantenuta.

Assai vasto il territorio di azione di quel tempo che si allunga fino alla foce intricata del secolo successivo: un secolo soprattutto abbreviato dalla velocità che fin da subito lo anima e ne squarcia il mistero attraverso gli innesti socio-letterari, passando da una socialità che concede l’interlocuzione e rende la parola diletto veicolo di riflessioni, di progettualità e di variazioni: così il lettore incontra la magniloquenza della parola, innanzitutto; essa traduce in sé la struttura articolata di un ponte di equilibri, di congiunzione temporale, prima che intellettiva ed emozionale; attraverso l’innesto ponderato di una parola attenta e giammai vagheggiante, né approssimativa, avviene l’incontro tra i personaggi, si stabiliscono collegamenti e correlazioni e si difendono posizioni; si estingue l’improbabile e si lascia spazio al divenire in fieri e distante dalla mera teoria. Lo scrivere in sé appare dunque un evento prima che agli eventi si conforti l’andare ricercando di Giancarlo Micheli – un andare incentivato alla concertazione e alla concentrazione di tanto e di tanto insieme, piuttosto che nell’ubriacatura sfuggente. Tutto corre e ricorre e sono gli atti e i fatti, i personaggi e le condizioni a decretare questa voracità di conduzioni che deliberano in Paris Prassède quello che è e che sarà il tenore di massima dell’operazione, laddove la narrazione materializza una dinamica cinematografica e fatti emergono con esorbitanza e con la velocità di un dissidio, se si vuole, che preme perché vari passaggi da una situazione all’altra pervengano a dar motivo dell’atto e non già tralasciarlo in un andito celato a prender la polvere della dimenticanza. Così ci sorprendiamo a conoscere e – ancora una volta – a riconoscere e a stupire, caldeggiando la solennità di un linguaggio utilizzato con protervia e accordo musicale, ove mai una parola – qualora vivesse il decadimento della sostituzione con una pur minimale complanare facilitante – non farebbe altro che impoverire l’intera struttura in favore di un’interruzione nevralgica, anche subordinata ad esser spicciola e flessibile, ma non dilatabile. E, di fatto, è la dilatabilità a sistematizzare il processo narrativo di Pâris Prassède: un lavoro che è e che si autodefinisce in progressione alla stregua di un ricamo o di un intarsio, per il quale gli elementi interagiscono per integrazione, quanto per un’esigenza di orientare l’accadimento e l’immaginale risvolto, al fine di generare un’intelaiatura densa di contiguità – coniatori di una struttura congrua di una solidità comprensiva. L’intento è, pertanto, duplice: insieme, quanto pure su fronti paralleli, le evenienze reali sono sfondo e, al contempo, snodi cruciali, così come la vastità dei nomi di personaggi reali ivi presenti. Tutti insieme creano l’imbastitura di un romanzo che sia realmente – una condizione dall’apparenza contrastiva – di fantasia. Il funzionamento rammenta l’imbastitura tutt’altro che fantastica e improbabile del Frankenstein, per dire, nella misura in cui la prospettiva si incanala – e incalza – su proiezioni dal vero desunte da esperienze conciliate dall’autrice Mary Shelley, e che notificano la modalità secondo la quale la diffusione scientifica avesse, nel tempo del quale il libro tratta (il crepuscolo del XVIII secolo), la potenza di uno sguardo panoramico, ma anche lo sfavore del mito, di quel Prometeo la cui ambizione è raggiungere il potere divino. Sebbene su versanti distinti, invero, anche il libro di Micheli intraprende un percorso identitario e, talora, insospettabile, per poi svoltare in esperienze che coagulano il vero e il non vero con l’invero(simile) fino a risultare depurate di qualsiasi ascesi assurda – almeno per tempi specifici – e che portano in concretezza qualcosa di incollocabile e tantomeno misurabile perché oramai assai distante ed imponderabile. Da qui l’osservanza di schemi che desumono l’irrealtà soltanto come infiorescenza di quanto è (ancora, perlomeno) sconosciuto e che appare alla mente del coevo come irreale.

Giungiamo, quindi, all’opera dal titolo criptico, se si vuole: Pâris Prassède. Nulla a che fare con la capitale francese, sebbene la Francia sia diletto scenario principale, bensì con Pâris – Paride – il nome del personaggio di fantasia con il quale si apre nel libro il potenziale di liberazione dalla schiavitù, una schiavitù che intraprende una varietà di forme come soltanto una società fortemente fossilizzata sulla deviazione dei criteri di urbanizzazione può dare; Paride, dicevo, «in omaggio al principe di un antico poema epico» (leggiamo a p. 41). A Pâris si accompagna poi il patronimico Prassède «poiché praxis» – scrive l’autore – «nella lingua in cui era stata cantata l’originaria virtù d’armi ed amori, significa “azione”, e sull’intraprendenza e l’azzardo avevano riposta la fede e maturata la gloria tutti gli eroi che concorsero ad abbattere il dominio dei bianchi». Basterebbe questo a definire il codice scritturale del libro, laddove eroico e sincero è il nobile afflato di un sapere che muove dall’esperienza, un’esperienza che, seppur filtrata da un terreno immaginale, depone a favore di un’interlocuzione spaziale, oltre che temporale; di una sorta di crescente reticolato che volge con serietà (e indifferenza alle mode) verso la conciliazione di quelle tappe che distinguono la prassi rispetto a un fare generico. Da qui la convergenza tra vero, invero (invisibile) e vero(simile) riempie lo spazio di conquista della parola-veicolo di idee in continuo trasferimento, adottando una narrazione fondata sul criterio convergente della liberazione e del diritto, vale a dire, dei passi significativi affinati al raggiungimento di libertà e di diritto, passando per circostanze individuali che si dilatano a incrociare destini di tipo economico, sociale, di ruoli assai diversi senza mai frantumarsi.

Gli eventi, pertanto, si accompagnano alle loro stesse deflagrazioni, mantenendo intatto il punto iniziale e la volontà mai estinta, interloquendo fittamente con i passi misurati di una temporalità giammai vista sullo sfondo, e, vieppiù, irrobustita dalle circostanze. Allo stesso modo, i dialoghi affrontano i fatti, portando alla luce realtà tutt’altro che tumefatte dall’oblio. Ecco, dunque, come l’opera raggiunga il suo apice esattamente in quanto scritto: è punto di snodo e necessita di ulteriori elementi per contraddistinguere il desiderio – o necessità – dell’autore di evitare l’oblio su quegli eventi che avrebbero decretato passi avanti; che sarebbero stati il sostegno e la crisi di valori umani. In tal senso Pâris Prassède dispone sul medesimo piano la volontà dell’autore di farsi guida e anteporre l’abilità di generare una prospettiva in divagazione degli eventi, conquistando, di questi, le identità performative attraverso accadimenti, la cui rotondità viene raccontata dallo stile e dalle motivazioni di ciascuno e, non da ultimo, dall’interiorità dello stampo tematico.

In altri termini, l’autore segue una praxis consolidata al punto da caratterizzare l’opera intera e particolare del romanzo. Sicché il romanzo stesso prende il titolo quasi in maniera autonoma, oserei dire: si fa prassi non necessariamente convenzionalizzata (istruita, cioè, da un correntismo banalizzato e indotto per agio): è meta-azione che volge, in quanto prassi, a consolidare le fasi in maniera edotta, scientifica cioè, adducendo tutte le condizioni intese a irrobustire la strutturazione di un romanzo che tale è in quanto miscellanea di soggetti operanti e, di conseguenza, di eventi che vedono i protagonisti tutti coinvolti nell’orientamento degli eventi medesimi. Inoltre, a suggellare i vari snodi intervengono con decisività le marcature immaginali. E sono marcature che, in ogni caso, rivestono la facoltà del mantenere la determinazione oltre il possibile depauperamento, quanto l’oltre del deperimento di conoscenze e di condizioni a fondamento dell’intera attualità. Talora nel bene, tal altre nel male, allorquando pressa la miopica utilizzazione aberrante sovente perpetrata dagli stessi viventi. Tutto questo rinvia a una sequenza calibrata di parametri non già presi in prestito al fine di creare una tela di dissociazione, quanto a realizzare la dilatazione di episodi congeniali, imbastiti per essere efficienza di socialità e, pertanto, di esperienza reale, piuttosto che faticosamente realistica. Vale, dunque, a questo punto, la pena escludere l’irreale, tanto che il romanzo consegue una visualità temperata su aspetti che rendono incidentale qualsiasi tentativo di lettura pari a un umorale compendio di fantasia. Mi spiego: la realtà, insieme alla realtà immaginale dei personaggi (malgrado taluni siano efficacemente recuperati alla storia), consegue l’efficace tema per avvalorare la conoscenza come ambito di condivisione nel mentre si prosegue nella lettura-investigazione. Così ciascun episodio incontra il successivo attraverso rimandi e memorie. Anzi, ciascun episodio – nel momento in cui costituisce il fatto e lo storicizza – va a costruire altresì il compendio di una memoria quale efficace fronte di riflessione. Così, ancora, il lettore intravede e intraprende, in un unico tempo, avvedutezza storica e accuratezza lessicale, alle quali, poi, si affianca l’essere totale dell’autore animato dalla passione per l’oratoria pedissequa e attenta al benché minimo dettaglio, dileguando qualsiasi lacerto di noia. E all’acutezza dello sviluppo narrativo non mancano di affiancarsi tratti che avvampano la curiosità di saperne di più per le ipotetiche – e quanto mai afferrate – intuizioni di là da pervenire sullo scenario della pagina.

In questa nuova operazione letteraria, Giancarlo Micheli non diserta il criterio; né, a sua volta, il contenuto viene oscurato dalla forma, benevolmente inquieta e assai vivace tra le esponenzialità che emergono via via dal sottobosco ombrato, laddove si adagia lo sviluppo in una molteplicità di irrequietezza che dà forma alle parti, tutte conciliate a garanzia dell’ottimale resa letteraria. E sì, perché, accanto al valore letterario, Pâris Prassède conquista per essere sinfonia di storia, di ricerca e di narrativa intensa. Qui si instaura l’attitudine di Giancarlo Micheli. Qui il proemio di precedenti opere conquista un ricamo a sé per essere formula ensoverbale – nel senso di sondare tutte le direzioni correlate – al fine di un andare arricchendosi, che oscura l’iniquità. Iniquità alla quale Giancarlo Micheli si ribella, proponendosi nella vastità narrativa; compiendo un taumaturgico ordito funzionale a una tela che, insieme alla provvidenziale dilatazione argomentativa, intreccia fitti nodi mediante un lessico rigoroso, ben distante da concilianti approssimazioni. Dall’osmosi risulta una narrazione liturgica che nulla trascura e che, anzi, trasmette la valenza preponderante di conoscenze dettagliate che quindi fioriscono in un’intelaiatura tutt’altro che sommaria, mediante la quale la testualità viene assunta come condizione caratterizzante.

Quindi, una serie di parametri svolge a suffragare il valore dell’opera, nel cui svolgimento il dato della schiavitù, del dileggio del dato umano di uguaglianza, quanto l’imponderabile slegamento dall’oscurità di un femminino manipolato a esser scudo a se stesso, si inserisce non senza spiegazione autonoma tra le pagine che evolvono come solchi ponderati a dar significazione alla storia, traendo il giovamento dell’emancipazione dall’inganno del sapere. E Giancarlo Micheli prepara il terreno esplicativo per le circostanze, riservandosi una letterarietà che diviene il vero spirito del mondo con le sue discrepanze, le sue increspature e i casi sequenziali, esplorando le proprie credenziali lungo una rotta libera dalle catene di un letterariamente facile, per avviarsi sul sacro solco di una conoscenza in progressione, esplicitata mediante la coltivazione di una dialettica che, nella sua doviziosa puntualità, appare innovativa. E, di fatto, l’innovazione insiste in quella che potremmo definire come scrittura rivoluzionaria per il fatto di sovvertire il qualunquismo retorico e restituisce dignità alla prontezza che la lingua italiana riserva, fervida e compatta.

Carmen De Stasio


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