recensione alla raccolta di versi La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012) di Giancarlo Micheli; pubblicata in: Literary (n.12, dicembre 2012)
In effetti il corposo volume edito da
Campanotto, reso ancor più intenso da un set di caratteri tipografici piuttosto
piccolo e dal flusso lessical-creativo-torrenziale dell’autore, risulta come un
testo molto arduo all’esser metabolizzato e ancor più compreso, per taluni
addirittura potrebbe risultare indigesto, per altri invece apparire come
un’autentica miniera sapienziale.
O lo si ama o lo si odia, del resto alla
genialità non si comanda, da sempre.
Non si può che effettuare incursioni e
carotaggi, prelievi ematici a campione, per definire punti su una mappa di cui,
a tratti, si stenta ad intravvedere la reale dimensione, nonché a determinare
la raffigurazione scaturente dalle linee di congiunzione tra i medesimi punti
vivi via via definiti, eventualità possibile in un futuro in cui si fossero
accumulate un sufficiente numero di serie statistiche, per approssimazioni e
indagini successive, letture e riletture che non tutti sono disposti a
concedere, ma che pure si rivelerebbero, nella fattispecie, molto gratificanti.
Molteplici sono le ragioni di tanta
complessità: in primis una stratificazione concettuale che deriva da una variopinta
giostra metaforica allestita con arte raffinata ed ironica, puntellata da
riferimenti propri di un invidiabile sostrato culturale che mostra attitudini
onnivore ed interdisciplinari (nuances mediche, assicurative, contabili
ed economiche, fisiche, botaniche, astronomiche, matematiche, informatiche,
linguistiche, mitologiche, inerenti l’arte della navigazione ed altre ancora,
si distinguono nella costruzione lessicale potentemente aderente al gergo
specifico); in secondo luogo una tecnica narrativa spesso frutto di un joyciano
flusso di coscienza, apparentemente quasi alla deriva, faticoso da seguire come
lo è, dal punto di vista computazionale, un’operazione di decodifica in tempo
reale di un flusso di dati crittografati per una cpu non abbastanza performante,
eppure affascinante nel momento in cui la sorpresa e la scoperta affiorano
finalmente alla nostra comprensione (talvolta un po’ intimorita, tal’altra un
po’ bistrattata) e, in ultimo, una punteggiatura quasi assente (soprattutto
nell’interpunzione netta del punto, imputato in reiterato stato di contumacia)
con l’aggravio del “vizio di forma” della maiuscola ad inizio verso, che un
pochino favoriscono il fraintendimento del senso complessivo dell’architrave
poetico.
L’impressione generale è quella di trovarsi al
cospetto di una mente multiversa nell’isocrono istante in cui qualcosa coglie
la sua attenzione, una mente che indaga le iperboli del ragionamento come i
lapilli di un fuoco d’artificio indagano l’oscurità, contemporaneamente a
raggiera, che si fa fontana luminosa, tuttavia per lo più razionalmente
disillusa, nella caducità del suo splendore che pure non è per nulla vano, in
quanto capace di determinare ed acclarare fulgidi e compiuti esempi, nel senso
iconografico del termine.
Tale tipologia cogitativa non in ogni
occasione si addice alla brevità tensiva dell’afflato lirico (ma questa, più
che una critica, è una considerazione basata su un’aspettativa, una preferenza
soggettiva), tuttavia, volendo per divertissement modellizzare la variabilità
esplosiva e luminescente di questo pirico pensiero, se fosse un poligono
potremmo dire che si tratterebbe senz’altro di un solido archimedeo quale
l’icosidodecaedro troncato, oggetto che nello spazio tridimensionale si fatica
a comprendere nella sua struttura complessiva, ma che ad uno studio attento, se
svolto su una superficie piana, si scopre essere composto da una sorprendente
regolarità variabile, quasi fosse il seme di una curva frattale (in effetti si
tratta di un solido composto da 62 facce, divise in 12 decagoni, 20 esagoni e
30 quadrati, 180 spigoli e 120 vertici).
Vale la pena di incamminarsi con umiltà, ed
anche un po’ di sofferenza, lungo le calli impervie dell’opera di Giancarlo
Micheli, lo spirito dovrebbe essere quello di un geologo spaziale che studia la
stratigrafia di un meteorite provenuto da un altrove ignoto.
Così facendo, destreggiandosi nel periplo di
una invadente sensazione di inadeguatezza, si avrà il piacere di urtare gemme
ustionanti di risvolti coinvolgenti, dai toni classici e liricamente
cristallini, come “Non altro se non dire essere | Nello smorire dell’estate |
Dentro la concava brace del cielo | Non altro | Nelle prime chiare sere
d’autunno | Quando la luna s’impiglia | Nei tramagli delle nuvole | E attorno è
un presentire | Una vaga pesca di incertezze | Come un pencolare di farfalle |
Appese ai fili d’erba | Fino alla strada alzaia | Dove il muro dei passi | È
scavalcato”, oppure dai colori elettroluminescenti, come nell’originale canzone
intitolata Pelaganemonia in cui colpisce quel “Ha lasciato i saloni
della regina | Le pareti coperte di muschio | Il palazzo riscaldato dal fuoco
di madrepore | Il vento del mare porta la preghiera di Anfitrite | Oscura il
cielo col sibilo di silfidi invisibili | Il vento del mare soffia l’ebbrezza
nei polmoni”.
L’anima prima del poeta è quella di un
filosofo che si esprima in versi, sua l’attitudine a giungere alla sala in cui
si tengono i balli degli epiloghi, motivandone talvolta i singoli gradini che
compongono l’itinerario di avvicinamento, mentre altre volte lasciando, un po’
imprudentemente, patire al lettore la “sindrome da vittima del genio di
Fermat”, stramba patologia che conduce l’ignaro leggente all’obnubilamento
della vista interiore (quella emotiva o razionale a seconda degli stimoli in
prevalenza suggeriti), senza compiacimento alcuno, pare, da parte dell’autore,
eppure con la consapevolezza vigile di chi sa di parlare agli iniziati,
tuttavia ritiene che l’impellenza espositiva e la democrazia evolutiva debbano
tendersi la mano ad una mezza via che, sfortunatamente, risulta trovarsi
comunque ubicata tra le turrite dimore dei Grifoni e gli spigolosi faraglioni
delle temibili Arpie delle Terre di Mezzo.
Ne è un esempio la lirica Poema del confine,
oscura per buona parte e poi liberatoria nell’epilogo, come una vampa di luce
improvvisa, pirica meraviglia, quasi giustapposta mannequin aliena al
precedente contesto: “Ti ho donato un’arancia più avanti | Oltre Grado perché
la qualità | Fosse al fine del nostro compimento | Un luogo che tiene
nell’illusione del consistere | Prendila dalla mia mano | Che ha adesso dita
liquide | E bagnala nella tua bocca”.
“Tutto quel che è puro si contamina”, “E
quand’anche tutto avesse mai bisogno | Di riscatto o compimento | Durante un
transfinire di elementi | Che spoglia la dogliosa gioia di esistere | La vena
della vita | È l’oro dell’uomo”, “Sterminiamo memoria | Sulle prode allicciate
dal vento”, “È troppo relativo l’uomo | E pure l’artificio vuole | La sua
sostanza umana”, sono solo alcuni dei versi che rischiarano le cuspidi di un
pensiero complesso, e talvolta contorto, soprattutto quando i riferimenti e gli
appigli cognitivi e culturali, ma anche divulgativi ed espositivi, come
traversine di legno su una rotaia abbandonata, mancano per reciproca
incomprensione o limite, nel sostenere il ponte leggero tra lettore e poeta.
A questo proposito non si può non ritenere che
il lettore debba essere messo in condizione di poter decifrare il senso
complessivo di una sequela di matrioske logiche assemblate in maniera
invidiabile, magari tramite qualche noticina a piè di pagina (oppure per mezzo
di una solida prefazione ad inizio opera, qui assente piuttosto greve, con
funzione che avrebbe potuto essere di sestante orientativo circa la collocazione
dell’autore e della sua poetica nel panorama letterario contemporaneo),
diversamente il suo disappunto, quello del povero lettore anzidetto, potrebbe
farlo propendere per un giudizio sommario, e in questo caso, alla distanza,
ingiusto.
Tra il
sostenere che “Nel volere ciò che non si è | Consiste la libertà | E la poesia
è qualcosa in più | Anche sospendere semplicemente la volontà” ed il
costringere il lettore, ma anche il critico esegeta, ad improvvisarsi padrone
di doti divinatorie proprie di un aruspice dell’era tecnocratica, si ravvisa
esserci una buona lacuna distanziale, che si vorrebbe fosse stata colmata.
Talvolta il tono è profetico, esoterico,
attraente nel misterico alchemico celare nell’evidenza, per cui ciò che resta è
una sensazione di fascino atavico ed istintivo, come in Liriope e Narciso
in cui “Giocare per mettere a rischio | Non solo se stessi | Unirsi al sottile
equilibrio | Di Liriope e Narciso | Venire alla memoria di un altro | Unirsi in
viventi corone | Di olimpica pace | Nel disprezzo del drago | E amorevole della
sua nidiata | Di carne insidiosa | E riscattabile | Immagina a tua somiglianza
| E già tocchi qualcosa | Un profilo di vento orientale | Una limpida luce |
Montuosa di azzurra distanza | La durevolissima lenza | Per cui pesca il sole |
Dalu buio alla terra | La seduce in eterno | Di apocalisse in danza”.
L’autore indaga attraverso l’orecchio poetico
perché è l’unico modo che conosce per mantenersi in equilibrio, equilibrio
precario che va posto a garanzia di una sanità mentale che faticosamente si
mantiene viva sotto i colpi di scure di un inestinguibile fuoco intellettivo
che inocula dubbi: “Un giorno saprò chi è che mi scruta | Chi mi accerchia e se
ha uno scopo | Saprò se sia moltitudine o individuo”, “Giacché le mie fondamenta
sono d’aria | E nel fuoco il movimento mi dissolve | Polvere ritornerò e
liquida brezza”.
Feroci sono alcune invettive scagliate contro
lo schema che il poeta intravvede nelle cose, siano esse parte di logiche umane
o sovrumane (anche la patria viene vista come un concetto inconsistente e
beffardo, in mano ai demiurghi sociali), talvolta sfiorando il delirio
consapevole (e quindi liricamente efficace nella frammentazione tagliente dei
suoi dardi impazziti), come nei passi in cui si urla: “Attendetevi le mutazioni
inoltre | Non nel corpo dell’encefalo della cistifellea | L’emozione non sarà
quella che è stata | Estesa all’asse dei tempi e del mondo | Sarà l’eone di una
primavera | Non per le figlie e i padri | Non in quest’idea di gregge | Che la
vostra precessione di vacanti | Sacrifica ed ossecra | Non nell’osso
dell’ossimoro | Dato ai cani di provetta sensibilità | Perché lo riportino al
buon padrone | O al buon pastore che ne mangia lo sterco | Perché il
marciapiede non si sporchi | Non in tutto ciò di caduta | Oltre nel turbine che
sibila | Tra il vento e l’elettrone | Niente a paragone del nonnulla | Che si
dà ai mancanti da moneta | Per ripagar la pena di esser nati”.
Il relativismo assoluto e sconcertante dimora
un po’ ovunque, nulla ha un senso stabile, tant’è che poi qualche àncora
occorre gettarla e lasciare una traccia di opere buone pare divenire un valido
antidoto all’oblìo immaginato per il proprio sé un giorno, con ragionevole
certezza, scorporato dalle sue vesti materiali: “E pensa se il tuo mancare |
Togliesse nel suo abisso | Tutto ciò che è convissuto | a te di luci e ombre |
Di immagini persone gesti e cose | E pure il resto che ti ha concepito | Tale
mancare ad altri | Che a te non sarebbe | Pensa questo abbaglio | Più nero del
buio che pensi | Riempi pertanto il mondo di virtù | Guarisci nel presente che
in te nasce | E di ciò che manca non ti curare”.
Qualche volta il senso di assurdità rasenta lo
stucchevole (pare di assistere ad una scena dei Monty Python, non per nulla
laureati ad Oxford e Cambridge, pur essendo poi divenuti celebri come comici),
senza mai giungervi per la verità, e ci si trova nel piacevole imbarazzo dato
dal tentare di decifrare quel che sembra uno scherzo musicale più che altro
(pratica che piace molto al nostro, ed in cui eccelle nella metrica rimata, a
schemi tradizionali od incrociati, in varie declinazioni), semanticamente
parlando, come nei versi: “In complici moltitudini di consumatori | Consumabili
finché ne hanno piaceri | Assimilati all’omertà del ministro | Intorno alle
guerre sante e a quelle giuste | Fin dove la teoria marginalista | Digerisce la
vita dirigibile | E precipita al finale inconsolabile | Dove con un gran rutto
| Stacca la testa all’atomo”.
Anche la religione deve di necessità passare
per le forche caudine dell’ironia sagace dell’autore, come in Noumeni da
baraccone, complesso passepartout multirefernziale ove il peccato
pare quasi esser comandato, predestinato e cablato nel nostro Dna, ma non per
questo, infine accettato: “Nello scontato giro dell’anima comune | trova spazio
anche l’angustia | dell’infinita declinata serie | degli umani minimi declini.
| Come Dio comanda verrò meno, | moltiplicato mi farò da parte, | in innumeri
biologici refusi”, “senza esser messo a parte | dei segreti contabili del
gioco”, perché “Quelli che contano sull’anima sanno | che avrò di nuovo un
numero | e un posto nella satura serie, | in un serio numero da circo circuito
| dall’impresario del circolare cosmo”, rappresentano amare constatazioni da
cui il poeta si dissocia affermando con fermezza: “Non c’è alcun peccato
originale; | la vita è questo vasto | seguito d’originali peccati”.
Anche la donna è vista come un traguardo
evolutivo, nel senso spirituale del termine e in un’ottica estroversa della
questione, frammisto ad un mistero insondabile e magnetico, da trattarsi
talvolta con spavalderia, forse ad esorcizzare una timidezza di fondo,
tal’altra con dolcezza e profondo rispetto, sentimenti che conducono ad alcuni
dei versi più eroticamente mistici dell’intera raccolta: “I tuoi capelli bevono
nei miei occhi | Tutta la luce che li asseta | Solo dopo sentii la tua voce |
Era polvere e anima racchiuse | Nello stampo aperto tra cielo e terra | Nella
matrice che poi si disse carne”.
A tratti
l’essenza femminile alimenta un potente erotismo che affiora, seppur con rare
comparsate, incidendosi nella memoria, così parlando delle segrete e magiche
arti ammaliatrici il poeta dice: “Un’ubriacatura dell’aria che muovete |
Assieme ad altre promesse più segrete | Intrico di roveti ardenti | Vortice
d’ogni intelligenza vertice | Attorno alle chiavi di volta eterne | Eccentriche
dei vostri capezzoli | Nembitornita mirifica Via Lattea | Del vostro corpo
astrale contrassegno | Conchiglia inguainata nell’astuccio | Profumato di
muscoli brillanti | Fremito panico che riflettete | Nella macchia ialina degli
occhi | O giada dal giardino dei cristalli”.
Altre volta la donna è il complemento ideale
ad una via di fuga, come in Desiderio di leggerezza, forse
inconsciamente a volersi liberare del fardello indotto dall’emisfero cerebrale
sinistro, quello razional-schiavista di sé stesso: “Fuggiamo assieme | in un
esilio di sogni | Per avere terra su cui correre | e sulla via pietre miliari |
Dove lasciare tracce d’amore | E sgravarsi lungo il viaggio”.
Non c’è spazio per un dio in quest’opera, a
tal punto che il poeta lo dovrà salvare come un agnellino spaurito e
precipitato nel torrente in piena delle umane follie: “Allora misi dio nel
novero dei giusti | E lo salvai dal mondo”.
Pare invece sia una donna ed il miracolo
derivante dalla saggezza indotta da una generazione che biologicamente si
rinnova (invero, evento tutt’altro che rivoluzionario e proprio di tutte le
specie viventi) a determinare una sorta di salvezza dell’anima poetica che
diversamente brucerebbe nell’eterna insensatezza e nel vuoto implacabile: “Tu
che non ti sei piegata | Ai primi freddi della quarta glaciazione | Perché nel
mondo interiore non vige legge di consolazione | Della termodinamica non vi si
osservano i principi | Né una salomonica distribuzione | Dei delitti e delle
pene | tu che sei libera ti sei spogliata | Della negazione di questa vita |
All’occhio che fiorisce infinito | Contemplando sovrano il mondo in sé | Appari
nel disgelo di quest’ora | Fiore di loto dalla neve di Aprile”.
Episodicamente poi, compare una felice, e per
il poeta di quest’opera inusuale, anima paesaggistica, espressionismo
dell’anima memorialistica che piace, e molto, per il garbo nostalgico, dai toni
carichi di sentimento, che sa diffondere con un senso di generale
rasserenamento, che stralcia le nubi oltre l’orizzonte: “C’è una palma e un
albero di cachi | Goccianti in un umidore di voci | appannate sui fantasmi dei
vetri | E due bambini che si erano tenuti | Nel tornare di un inverno | Con la
pioggia sulle foglie e il si bemolle | Di Mozart dalla radio Granducale | Ed
alte stanze e conigli nei giornali | E derisorie fumisterie | C’era un po’
d’amore e un bastone da passeggio | Per quando fosse spiovuto | E fosse ripreso
il viaggio”.
Per evitare deragliamenti incontrollabili,
siamo costretti ora ad arrestare l’alluvione di considerazioni che questo
volume suggerisce ad alta voce, anzi con voce alta, in quanto tali e tante esse
sono, che occorrerebbe una monografia ragionata per stendere un discorso che
non paia il salto disorientato di un rana ubriaca in mezzo al vociare del
traffico e dei clacson impazziti nell’ora di punta.
Un volume non privo di difetti (nella
relatività di uno iato o frattura soggettiva-relativa creantesi tra percipiente
e mittente del messaggio poetico), nel senso della difficoltà interpretativa
cui si va incontro durante la lettura e che si può sintetizzare come dipendente
sia dai limiti di chi scrive, sia da quelli probabilmente divulgativi, del
poeta, in un certo senso perso (intenzionalmente, forse) nel suo universo
dilagante a velocità ultraluminale, alla ricerca di anime consonanti e
disinteressato, in un certo qual modo ed in taluni tangenziali espressive
intraprese, alla plebe incolta (magari non così drasticamente intesa).
Non si potrà, in questa circostanza, avallare
il verso di Giancarlo Micheli in cui afferma che “Il poeta tocca il cuore di
tutti | Senza sporcarsi le mani di sangue”, tuttavia resta senza dubbio
avverato ed indelebilmente presente il grido di una voce la cui eco si
prolungherà nei tempi e nella memoria di chi avrà la pazienza di sgretolare
l’edificio enigmistico su cui sono imbastite e si reggono talune liriche: “Cosa
vuoi poeta? E cos’hai tra le mani? | Una piccola colomba calibro ventidue | E
un grilletto dalla voce tonante”.
Si tratta, in sintesi, di un volume raro,
costruito con maestria, così denso di energia creativa e citazioni e
riferimenti colti e stimoli evolutivi, tali da renderlo consigliabile a molti
come sfida intellettuale, sfida che sarebbe stata più equilibrata e proficua
nei risultati comunicativi, se si fosse speso del tempo nel cercare di ridurre
la distanza tra le sfere più inaccessibili del cogitare poetico, spesso
dimostrazione matematica a passaggi impliciti e affioramenti spontanei, ed il
mondo di chi è affamato di conoscenza e brame disvelatorie sul cosa si celi
dietro (o dentro) ad una mente di cui tutto si potrà dire, tranne che non sia
di elevata caratura.
Questa carenza comunicativa è senza dubbio
l’occasione mancata, per un marketing di sé stesso, più imponente di tutta
l’opera, in effetti non si potrebbero spiegare versi come “E recensori ed
esegeti sono gli amici | In dialoghi supposti e rinviati” se non motivandoli
con l’influsso negativo operato da una genialità che tende ad isolare, nella
solitudine che nasce dall’incomunicabilità di visioni oculari di mondi
iperuranici, in quello che sembra un cliché nell’autenticità di ciò che è
funzione ricorsiva del vero che si rinnova: “Il mio passo sgomento | Non
rallento | Né mi pento | Sono solo capisci ? | Chiunque tu sia | Senti il mio
grido?”.
Un libro come un iceberg antartico in una
landa oceanica popolata da sirene dai lunghi capelli di neve e dagli occhi di
zaffiro, un libro difficile quanto prezioso, fondato sulla razionalità
irrazionale della questione esistenziale, ma con talune fugaci concessioni al
sentimento, da rileggersi dopo anni quasi per tradizione, ritrovandovi senza
dubbio nuovi ed inattesi risvolti, per ottenere precisa misura del tempo trascorso,
così come delle nostre, presumibilmente aumentate, saggezza e sapienza.
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