sabato 8 novembre 2014

Un compound linguistico: Elegia provinciale di Giancarlo Micheli

recensione di Neil Novello
a Elegia provinciale (Fratini, Firenze 2013) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Leggere:tutti (n.91, novembre 2014)

   Il dato che con maggiore prepotenza emerge dalla prima lettura di Elegia provinciale di Giancarlo Micheli (Baroni, 2007, ora Fratini 2013) è la paroleria culta: la koinè del narratore. La lingua alta rifluente in uno stile alto è tutta la materia prima di un Kunstwollen in cui lo scrittore si fa, perché lo è, artifex. A una seconda lettura, la lingua del narratore rivela però una profondità inattesa. Non è infatti una lingua cortocircuitante né il narratore è prigioniero di un immedicabile narcisismo. Questo narratore dittatoriale è “illuminato” perché componendo la scena linguistica fa di sé un medium per inventare la lingua del personaggio.
   Non una sola lingua, quindi. Molteplici le lingue di Elegia provinciale. Anzitutto, il discorso libero indiretto, l’oratio obliqua attraverso cui già si distingue un narratore secondo. A differenza del primo, l’estensore del nudo récit, il secondo entra, forte in coscienza sociologica e invidiabile in vocazione antropologica, nel pensiero del personaggio. Tra il récit oggettivo e la semi–oggettività (o semi–soggettività) del discorso libero indiretto (sempre in stile sublimis), Micheli gravita in un rango linguistico italiano. Suo allora un duplice lavoro, aggregare la libera lingua della narrazione alla lingua pensata del personaggio: è il superlinguismo del narratore.
   Ma c’è tanto di più nell’Elegia, come tanto di più c’è nell’artifex che narra le provinciali elegie del maestro Giacomo Puccini. Alla formidabile, e ulteriore, presenza di una texture eurolinguistica occorre infatti annettere un nuovo dominio del narratore. Non una lingua, ma più lingue concorrono a espandere l’attribuzione superlinguistica. È una via, questa reagente entro l’eurolingua, in cui il superlinguismo del narratore (récit, discorso libero indiretto) germina in lessico transnazionale: inglese, francese, tedesco, spagnolo, greco antico e latino. E in ibridismi linguistici ancora più affascinanti, le versioni mescidate: anglo–francese, franco–inglese, ispano–inglese, franco–tedesco, anglo–italo–francese. Ma il primato del pastiche non sarebbe completo se non annoverasse un primato verghiano o di suoi illustri epigoni, Gadda e Pasolini, la lingua del personaggio o il discorso diretto: il vernacolare come ultimo tassello del pastiche. In terza lettura, tra le classi sociali basse e alcuni personaggi tra le alte, si fa strada una texture dialettale o il discorso diretto, che completa la già eccellente capacità di scolpire l’indiretto libero. E che è dire quanto Micheli renda il pensiero dei personaggi e renda, etnolinguista di talento o pasticheur, la loro parola, in una voluta linguistica in cui il sublimis del narratore coabita con il piscatorius del personaggio, e in cui oltretutto l’inventio non si dà se non alla luce di un’eccellente capacità di variatio.
Neil Novello



martedì 24 giugno 2014

La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012; pp.163, euro 15) di Giancarlo Micheli

recensione di Gabriella Valera Gruber
pubblicata in Zeta rivista internazionale di poesia e ricerche (n. 107, Anno XXXVI n. 2, 2014)

 Giancarlo Micheli ci è già noto per i suoi romanzi a sfondo storico e dotati di un’ampia capacità di investire le vicende narrate di riflessione filosofica. Ricordo, a titolo di introduzione, il suo ultimo in ordine di tempo, La grazia sufficiente, dove l’autore ha operato una trasfigurazione nella cultura orientale, presso la quale è posta l’ambientazione, del principio occidentale della ragione sufficiente. Al pari di quanto accade nella scrittura in prosa dell’autore, anche di fronte alla raccolta di versi La quarta glaciazione ci troviamo in presenza di una scrittura spessa, nervosa, forte, piena di cose. Uno degli aspetti che più colpisce, e dal quale merita forse prendere lo spunto d’avvio, è sintetizzato nella poesia Latitudine, dove si incontra un verso che può essere scelto quale dichiarazione di poetica, laddove l’autore si ripropone di risalire “dall’affetto alla causa” [corsivo mio].
 È questo il modo peculiare in Micheli di lavorare con il linguaggio, di piegarlo alle esigenze espressive, ricorrendo al quale egli ama ricondurre anche forme consuete a significati nuovi.
 E’ evidente nel verso citato la sostituzione della formula nota del pensiero razionale che risale dall’effetto alla causa con la proposizione di una nuova più complessa “ragione” dell’essere.
 Il procedimento razionale che sta alla base della composizione, nell’opera narrativa di Micheli così come in quella in versi, tiene quindi conto dell’affezione, delle specifiche circostanze in cui il soggetto viene colpito (affectus) non nella sua mera emotività, ma dentro il proprio complessivo modo di essere.
 Questo aspetto mi sembra particolarmente interessante, perché mette in gioco il linguaggio, il luogo e il ruolo del poeta all’interno di una certa realtà. Il mondo poetico viene a costituirsi di elementi concreti, non di simboli né di metafore, bensì dei possibili luoghi, appunto, dove si incrociano tutti i codici parziali: non quello poetico soltanto ma quello tecnico, quotidiano, finanche nelle locuzioni più banali, che rappresentano il brusio di fondo dal quale il poeta, nonostante tutto, non ha pieno arbitrio di sottrarsi.
 Il mondo che viene pur tuttavia comunemente percepito come reale, a dispetto delle condizioni che gli sono assolutamente intrinseche e nelle quali si rivela assoluta barbarie, assurdità comunque accettata e condivisa in quanto rappresentata come necessaria, il mondo della finanza, dell’industria multinazionale, dello sfruttamento si incontra quindi con ciò che gli è estraneo, il mondo delle affezioni, la ricerca di libertà e di ‘tenerezze salde’.
 Invischiato necessariamente e con consapevolezza nella realtà vieta e talora vile il poeta che ne rimane affetto è alla ricerca, e fors’anche gode, dell’occasione di trascenderla. Il lirismo si apre allora a uno spazio ulteriore, fatto di paesaggi immensi ed ariosi, con cieli, dirupi, curvature di orizzonti, vele spiegate e vento, fino ad arrivare ai versi migliori di Micheli, che possono richiamare alla mente certi dipinti ottocenteschi dove il soggetto umano appare in solitudine al cospetto della natura sublime in cui è immerso.
Se tale paesaggio non è un cosmo armonioso, esso non è neppure pervaso da angoscia, sottrazione e sofferenza, si identifica piuttosto con una presenza sostanziale.
 L’architettura de La quarta glaciazione consta di testi di varie proporzioni, dai piccoli haiku fino ai poemetti, distinti, secondo una precisa struttura, in cinque sezioni, ciascuna delle quali ha un titolo inerente a quello generale della raccolta; la stessa versificazione è assai differenziata, alternando metri complessi ad altri semplici, sempre nondimeno riuscendo a dare compiutezza ad ogni singolo verso, cosicché l’assenza di una sintassi che li colleghi in maniera univoca moltiplica le possibilità di lettura e gli effetti di polisemia. “Nel lento battere dell’onda sulla riva/ Il riconosciuto/ La geometria del raggio/ Fino al verde cerchio dell’essere/ Fino ad un’angolare luna/ Sfumata sopra l’azzurro bordo di orizzonte/ Nel viola del visibile/ Una conseguita trasparenza/ Oltre la combinatoria del senso/ Fugata oltre la scelta/ La perfezione nell’altro/ In ragione della presenza/ Dell’eccezione al punto di vista/ E al punto di dissolvenza” scrive Micheli nella poesia Nel respiro del mare – inspirazione, dove risulta appunto all’evidenza un sistema di geometrie ed angolature che restituiscono il senso di uno spazio il quale, ancorché mentale e ricostruito, si forma sempre in specifiche e concrete modalità dell’affezione. La poesia immediatamente successiva, Nel respiro del mare – espirazione, si conclude toccando uno dei motivi ricorrenti in tutto il libro: “Nel respiro del mare disteso/ Risalirà lungo i miei fianchi il vento/ Lungo altre creste di monti che non vedi/ Giacché in serbo li tiene la terra/ A ricoprirli di una segreta primavera/ Dove sbocciano i pensieri degli amanti/ E quando qualcuno ti chieda parte e azioni/ Perché  s’imbraccino giorni d’inossidabili intenzioni/ Potrai se lo vorrai giacermi accanto/ Il capo ad oriente e i rami/ Dal tuo tronco d’araucaria verso il sole/ Placati e ricercanti nella luce/ Così crescerà l’albero nel puro mutamento”.
 La metamorfosi nell’universo poetico dell’autore non compare mai disgiunta dalla stabilità, perché, come viene detto nella poesia Notturno, “Risalendo alle sorgenti fino al ripartirsi delle acque/ Nel corpo e nella mente/ Dove il sentimento è sufficiente/ Alla necessità della ragione/ E non offende il limite/ Tra l’uomo e la parola”  [corsivo mio] possiamo affacciarci là dove la realtà celebra le nozze con il sogno, nel luogo dal quale è dato proseguire a vivere e a rendere il cielo grande.
 Sebbene vi emerga assai spesso il tema della critica sociale, del dolore e della violenza, c’è un’aurea vena di luce che percorre il libro, ci sono l’amore e la purezza degli sguardi, sempre presentati per via di coraggiose inversioni rispetto ai luoghi comuni della letteratura e volti costantemente all’apertura all’Altro, non chiusi in “una stanza per il sé”.
 Anche nel titolo di questa ricca silloge, mi piace cogliere un  segno positivo nel riferimento alla glaciazione con cui ebbe avvio il periodo geologico del Quaternario, durante il quale la specie umana è venuta all’esistenza, un auspicio affinché, superato il gelo che intacca le anime non meno che i corpi, possa infine iniziare davvero l’epoca della nostra umanità.
Gabriella Valera Gruber


Memorie dall'avvenire

cronotopi nella prosa surrealista

articolo di Giancarlo Micheli pubblicato nel volume Memoires (Limina Mentis, Monza 2014; a cura di Antonio Melillo, pp. 317)


 Per il senso letterario assodato – il quale, nondimeno, pena la propria autoestinzione, non potrà mai essere comune quanto la mediocrità degli organismi economici e sociali, in ogni epoca, esige dalle forme della coscienza relativa in guisa di prezzo di realizzo – l’esperienza delle avanguardie novecentesche si compì entro i limiti di vincoli costrittivi, nel recinto d’infanzia delimitato da un costituzionale difetto di legittimità. Ciò si rivela in maniera evidente ad un esame, anche sommario o tendenzioso, del ruolo svolto dal movimento surrealista nell’ambito del sistema delle patrie lettere francesi. I testi surrealisti che godettero di maggiore eco, e che tutt’oggi esercitano malintesi fascino e richiamo dalle foreste al di sopra delle quali volarono, pagine di romanzi incompiuti dalla vita e disattesi dalla storia, ebbero respiro nell’ambito di generi quali il pamphlet e il saggio tirtaico [1], i quali, d’altronde, già al tempo della redazione dei manifesti bretoniani [2] o del Traité du style [3] di Aragon, vantavano una loro propria e specifica tradizione. Assunti, pertanto, sin dalla nascita in ambiti contraddittorî e ambivalenti, essi si dibatterono presso l’involutiva temperie contemporanea per strappare ai sedimenti del passato, alle cripte della memoria fattasi canone e prescrizione lungo secoli di assuefatto ottundimento, i residui di avvenire che vi sono da sempre depositati, per riportare alla luce di un nuovo mattino le vene auree che genealogie ipocrite e mendaci avevano consegnate alle anodine tenebre di consuetudini e dogmi. Lo stesso sviluppo che portò dalle esordienti intemperanze performative del processo a Maurice Barrès del 1921 alle peculiari forme liriche della scrittura automatica e, progressivamente, alle sperimentazioni sul tema dell’essai cui si è fatto cenno, può, a buon diritto, essere interpretato in senso almeno duplice: da un lato esso si configura quale riassorbimento del discorso surrealista nell’alveo della legittimità letteraria, laddove, dal lato opposto, traspare come tentativo di presa di terreno ad ampio raggio sui molteplici dominî soggetti alla norma consolidata.
 Esiste, poi, una ulteriore serie di opere le quali hanno ricevuto accoglienza meno ospitale nella terra che gli agrimensori delle belle lettere non hanno smesso un solo giorno di rendere meno vergine dacché una qualche decimazione di capostipiti ha dato la stura a stirpi di epigoni sempre meno feconde man mano che i passi originari si addentrarono, a ritroso, nelle canute nebbie della memoria, opere quali Le paysan de Paris [4] di Louis Aragon, Nadja [5] e L’amour fou [6] di André Breton. Vi si trovano intrecciati il registro narrativo e quello saggistico, mai però secondo il protocollo di cui il meglio credibile tra i teorici moderni del romanzo, Michail Bachtin, estrasse la giustificazione dalle miniere del realismo ottocentesco; racconto e riflessione vi paiono, piuttosto, rifusi e amalgamati in una lingua ambiziosa al di là della misura di designazione e significazione, luogo degli affioramenti inconsci sulle superficie significanti nelle quali il testo si tesse e si disfa; si potrebbe definirla una lingua simmetrica, qualora si volesse far riferimento agli studi dello psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco, che fu tra gli intimi discepoli di Freud al tempo dell’esilio londinese e tentò una coraggiosa descrizione del sistema inconscio alla luce dei concetti della logica formale [7], in base alla quale esso si esprimerebbe in relazioni simmetriche tra i propri elementi, al contrario di quanto accade alla coscienza vigile, razionalmente governata da relazioni asimmetriche e dal principio di non contraddizione. In un sistema del primo tipo, dunque, se la proposizione “Hegel è padre di Breton” è vera, allora è vera pure l’inversa, “Breton è padre di Hegel”, cosicché non vi è possibile ordinamento temporale né spaziale, ogni parola vi è provvista di ubiquità e di eternità.
 È chiaro, pertanto, che non sia facile né immediato applicare agli esemplari della prosa narrativa surrealista i criteri che Bachtin andava elaborando proprio nei medesimi anni in cui vennero pubblicati Le paysan de Paris (1926), Nadja (1928) e L’amour fou (1937). Dopo aver assistito, nell’estate del 1925, ad una conferenza del professor Aleksej Alekseevič Uchtomskij sul cronotopo in biologia, lo studioso di Orel intraprese la stesura del complesso trattato Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo [8], che poté portare a conclusione, nel sordo grigiore della cultura ufficiale del capitalismo di Stato sovietico e tra innumerevoli boicottaggi da parte del complesso burocratico, soltanto nel 1938.
 La prima, in termini cronologici, nella triade di opere su cui focalizzeremo l’attenzione comparve sui numeri della Revue européenne, dal giugno 1924 al giugno 1925, e fu pubblicata in volume nel corso dell’anno successivo, per i tipi della Nouvelle Revue française del prestigioso editore Gaston Gallimard. A capo del Bureau des recherches surréalistes [9], al numero 15 di rue de Grenelle, proprio dirimpetto alla redazione della Nouvelle Revue française, l’accreditato periodico attraverso le cui pagine alcuni surrealisti si affacciarono oltre la soglia domiciliare delle lettere francesi non senza scalfire, in tal modo, la solidità delle pulsioni eversive sulle quali il gruppo fondava la propria collettiva intransigenza, a capo dell’eterodosso stato maggiore surrealista stava allora Antonin Artaud, il quale, nella circostanza dell’insediamento, aveva lanciato proclami incandescenti:

 Considerata la falsa interpretazione del nostro tentativo che è stata stupidamente divulgata in pubblico, teniamo a dichiarare ciò che segue a tutta la farfugliante critica letteraria, teatrale, filosofica, esegetica e anche teologica contemporanea: noi non abbiamo niente a che vedere con la letteratura. Il surrealismo non è un mezzo di espressione nuovo o più facile, neppure una metafisica della poesia. È un mezzo di liberazione totale dello spirito e di tutto ciò che gli somiglia. Il surrealismo non è una forma poetica. È un grido dello spirito che ritorna verso se stesso ed è ben deciso a schiacciare ciò che gli si oppone, alla bisogna con martelli materiali. [10]

[...]

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[1] Dal poeta greco del VII sec. a.C. Tirteo; in ragione di ciò che della sua opera si è tramandato, l’aggettivo tirtaico viene inteso a designare testi che esortino alle virtù etiche e civiche.
[2] André Breton, Manifesti del surrealismo, Milano, Einaudi, 2003.
[3] Louis Aragon, Traité du style, Paris, Gallimard, 1928.
[4] Louis Aragon, Il paesano di Parigi, Milano, il Saggiatore, 1996.
[5] André Breton, Nadja, Torino, Einaudi, 1972.
[6] André Breton, L’amour fou, Torino, Einaudi, 1974.
[7] Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, Torino, Einaudi, 1981.
[8] Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979.
[9] Ufficio aperto al pubblico ogni pomeriggio, dalle 16h30 alle 18h30, al fine di “raccogliere attraverso tutti i mezzi appropriati le comunicazioni relative alle diverse forme che è suscettibile di prendere l’attività incosciente dello spirito” (André Breton, Entretiens, Bolsena, Erre emme, 1991). I suoi lavori si protrassero dall’Ottobre 1924 al Marzo 1925, quando Breton ne decise la chiusura a seguito delle divergenze intervenute con Artaud.
[10] Henri Béhar & Michel Carassou, Le Surréalisme, Paris, Librairie Générale Française, 1982, p.19.

lunedì 17 marzo 2014

nota critica_Indie occidentali (Campanotto, 2008) di Giancarlo Micheli

nota critica di Giulio Ferroni
al romanzo Indie occidentali (Campanotto, 2008) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Literary (n.3/2014)
 
Il romanzo Indie occidentali di Giancarlo Micheli mi ha rivelato una scrittura di forte spessore letterario, capace di toccare la sostanza della realtà, piena di riferimenti culturali e storici: il tutto con un forte senso della verità storica, dei conflitti e delle contraddizioni economiche (l'ambiente e l'orizzonte della vicenda è davvero di grande interesse).
Giulio Ferroni
 
 

Elegia provinciale (Fratini, Firenze 2013; pp. 293) di Giancarlo Micheli

recensione di Rodolfo Tommasi
al romanzo Elegia provinciale (Fratini, Firenze 2013) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Il Convivio (n.55, Anno XIV n.4, ottobre-dicembre 2013)
 
Poiché tutti i miei studi hanno cercato di far procedere in parallelo musica e letteratura, mi sento in grado di definire Elegia provinciale di Giancarlo Micheli uno strano romanzo, avvertendo che a questo aggettivo attribuisco un valore molto particolare, il quale contempla e completa in sé anche ciò che si esprime di norma con i termini intrigante, affascinante, seduttivo. Si tratta in effetti di un’opera piena di aspetti riposti, che non possono non venire scoperti che attraverso molteplici riletture, fatto che mi dispone a ripropormi di tornare a prendere in esame il lavoro di Micheli in una trattazione più ampia di quella che consentano queste brevi note, soprattutto nell’intento di dimostrare come la sua poesia e la sua prosa siano perfettamente sposate da una situazione di scrittoio che è sempre progettuale fino a sfidare il tormento. Benché la figura di Puccini stia al centro della narrazione, con incredibile pudore l’autore non entra nel discorso musicale, giacché la musica rimane piuttosto una sorta di chimera o miraggio, la quale potrebbe forse essere proprio la chiave o il codice per penetrare meglio alle sorgenti della sua ispirazione creativa ma che nel testo si deposita appunto solamente in filigrana, per via di sporadiche citazioni dal libretto di Fanciulla del West, durante la cui composizione accadono le vicende dell’intreccio. Qua consiste uno degli elementi di fascino del romanzo, laddove la figura umana di Puccini viene posta in primo piano mentre quella del musicista, di molto maggiore rilevanza, assume contorni fantasmatici. Lo stesso fatto di cronaca da cui si trae spunto, la triste sorte della domestica Doria Manfredi, ingiustamente accusata dalla moglie del Maestro di aver avuto una tresca con questi, viene ad impregnare un ambiente così da dare adito al titolo: Elegia provinciale. Un titolo bellissimo, che descrive con icastica sinteticità il milieu del racconto; eppure, la struttura formale del romanzo non ha niente di elegiaco né tanto meno di provinciale. Tutto torna e, al tempo stesso, tutto può essere rimesso in discussione. Se questo romanzo fosse stato pubblicato alla metà del secolo scorso, quando la critica d’avanguardia insorse contro il Metello di Pratolini nel frangente di storia letteraria in cui i lettori italiani scoprivano Joyce e Proust, mentre nella collana mondadoriana della Medusa sarebbe stata da lì a poco pubblicata la prima traduzione della Montagna incantata di Thomas Mann ed al di là delle Alpi nasceva la Nouvelle Critique dal contesto in cui operavano scrittori come Queneau o Robbe-Grillet, mentre si attendeva di veder proiettati nel corso di una medesima stagione cinematografica film tra loro diversissimi quali L’anno scorso a Marienbad di Resnais e Accattone di Pasolini, se dunque Elegia provinciale fosse andato in stampa allora, allorché fu affermato che il romanzo dovesse avere quale unico protagonista la scrittura – e da qui, naturalmente, Sanguineti, Balestrini, lo stesso Eco, sebbene a quel tempo di romanzi non ne scrivesse ancora –, ebbene io credo che l’opera di Micheli, in quella congiuntura, avrebbe completamente scompigliato tutte le carte e tutti i vetri, giacché essa, nella sua conduzione, affonda tranquillamente le sue lunghe radici nella fabula e, nella sua forma, abbatte i muri del tempo, così come riescono a fare soltanto gli scrittori veri. Io ho trovato affascinante pensare a questo romanzo alla metà del Novecento e trovo affascinante pensarlo oggi. “Prima dell’unità di azione, tempo e luogo della nostra storia, in un remoto passato, tra argini che ripartivano una vasta laguna estesa dalla bocca d’Arno fino ai silvestri contrafforti delle Alpi Apuane, nella terra ove si ambienta la vicenda che narriamo avevano finito per mescolarsi i flussi germinativi dei Liguri-Apuani, della druidica radice celtica, dei Tusci, aruspici  e cheraunomanti venuti dal mare delle matrilineari genealogie lidie, e dei Latini, legislatori ed ebbri seguaci del plusvalore di codice impegnato nel concetto di stato e riscattato, con usurario profitto, nel genitale universalismo imperialista” dice, ad esempio, l’incipit del XII capitolo; ecco, io ritengo che se oggi ci fossero stati tra i letterati italiani Gadda e Manganelli, il romanzo di Micheli non si sarebbe salvato da effusioni trionfali. Non cito a caso questi due nomi, perché a mio avviso essi sono i due scrittori che costituiscono la sutura tra la tradizione narrativa novecentesca ed un terzo millennio che, salvo poche eccezioni, sta ancora chiedendosi dove debba andare. Micheli, invece, lo sa benissimo. Usa un sistema narrativo che è pieno di sorprese, ma anche di ritorni e leit-motifs, secondo una tecnica che amo definire di avvolgenza, quasi vi si potessero rinvenire principî percettivi di ordine tattile, come parrebbe corroborato dalla ricorrenza dei riferimenti meteorologico-atmosferici: “Il cielo del freddo pomeriggio di febbraio era battuto da alti venti, da ponente. Lo percorrevano candidi convogli di nubi vaporose, mutevoli viaggiatrici delle sue azzurre strade. Quell’incessante correre inebriava gli occhi e dava un senso di consolazione, suggeriva fantasie di durevoli eternità”; ovvero “trascorsero giorni di fitti piovaschi, interrotti da brevi schiarite che duravano finché il cielo era di uniforme campitura, come pietra di turchese, e solo un lontano bordo di nubi grigie la orlava verso ponente”; senza che in apparenza l’autore si accorga, o piuttosto accorgendosi egli benissimo, di aver scritto qualche capitolo prima: “trascorsero algide giornate di novembre, lacrimanti pioggia sui tetti dagli embrici sconnessi della capitale lombarda, deserti tetti, sopra i quali solo sparute coppie di piccioni si inseguivano in un frullare di umidore”. In altre pagine, poi, tali condizioni del cielo vengono tradotte in lancinante situazione umana, come ad esempio nella descrizione del momento in cui Doria Manfredi si avvelenerà: “La frenesia dei suoi gesti si trasformava nell’ottenebrata percezione di lei in uno spossante agitarsi dentro un liquido viscoso che resisteva ad ognuno, penosamente. Infine, stremata, raccolse un barattolo di vetro sul quale era stata incollata un’etichetta di carta”. Tutto ciò che era scena, visione, si è all’improvviso trasformato in sensorialità. L’interno si converte alla perfezione con l’esterno, e viceversa; in questo senso, il titolo aderisce pienamente al contenuto del libro; la scrittura, però, sempre sale, cerca ed emana, fino a domandare al lettore una complicità che verrebbe quasi da dire utopistica, considerato che ormai da tempo il grado medio di acculturazione del lettore italiano tende al ribasso. E così, come nel film La famiglia di Ettore Scola si è scelto il tema del corridoio per indicare la via di accesso alle stanze e alle singole esistenze dei personaggi, in Elegia provinciale l’autore seleziona quello della strada di fango, di un fango che è sempre presente,  tanto sotto a cieli tersi ed estivi quanto sotto a piogge battenti, finché si sia persino indotti a sospettare possa trattarsi di materia metaforica, a designazione del fatto che la scrittura è una realtà oltre la realtà, cosicché davvero essa, più di Doria, di Puccini, Elvira, Tonio, più del prete o del medico, diventa la autentica protagonista del romanzo.
Rodolfo Tommasi
 
 
 

nota critica_La quarta glaciazione (Campanotto, 2012) di Giancarlo Micheli

motivazione Premio nazionale Alpi Apuane
La quarta glaciazione (Campanotto, 2008) di Giancarlo Micheli
(libro finalista della XXXI edizione, 2013)
pubblicata in Literary (n.10/2013)

Complesso e composito, poetico viaggio onirico e reale di quotidiana ulissità sulla globale percezione d'un mondo che sta per estinguersi e di una coscienza che si pone come argine salvifico di resistenza, espresso con sperimentale ricerca di registri molteplici, terso e purgato delle "incrostazioni più esacerbate del consumo linguistico corrente".
Umberto Piersanti