Il dato che con maggiore prepotenza emerge dalla prima lettura di Elegia provinciale di Giancarlo Micheli (Baroni,
2007, ora Fratini 2013) è la paroleria culta:
la koinè del narratore. La lingua alta rifluente in uno stile alto è tutta la materia prima di un Kunstwollen in cui lo scrittore si fa,
perché lo è, artifex. A una seconda
lettura, la lingua del narratore rivela però una profondità inattesa. Non è infatti
una lingua cortocircuitante né il narratore è prigioniero di un immedicabile
narcisismo. Questo narratore dittatoriale è “illuminato” perché componendo la
scena linguistica fa di sé un medium per
inventare la lingua del personaggio.
Non una sola lingua, quindi.
Molteplici le lingue di Elegia
provinciale. Anzitutto, il discorso libero indiretto, l’oratio obliqua attraverso cui già si distingue
un narratore secondo. A differenza del primo, l’estensore del nudo récit, il secondo entra, forte in
coscienza sociologica e invidiabile in vocazione antropologica, nel pensiero del personaggio. Tra il récit oggettivo e la semi–oggettività (o
semi–soggettività) del discorso libero indiretto (sempre in stile sublimis), Micheli gravita in un rango
linguistico italiano. Suo allora un duplice lavoro, aggregare la libera lingua
della narrazione alla lingua pensata
del personaggio: è il superlinguismo
del narratore.
Ma c’è tanto di più nell’Elegia,
come tanto di più c’è nell’artifex
che narra le provinciali elegie del maestro Giacomo Puccini. Alla formidabile,
e ulteriore, presenza di una texture eurolinguistica
occorre infatti annettere un nuovo dominio del narratore. Non una lingua, ma più lingue concorrono a espandere l’attribuzione superlinguistica. È
una via, questa reagente entro l’eurolingua, in cui il superlinguismo del
narratore (récit, discorso libero
indiretto) germina in lessico transnazionale: inglese, francese, tedesco,
spagnolo, greco antico e latino. E in ibridismi linguistici ancora più
affascinanti, le versioni mescidate: anglo–francese, franco–inglese,
ispano–inglese, franco–tedesco, anglo–italo–francese. Ma il primato del pastiche non sarebbe completo se non annoverasse
un primato verghiano o di suoi illustri epigoni, Gadda e Pasolini, la lingua
del personaggio o il discorso diretto: il vernacolare come ultimo tassello del pastiche. In terza lettura, tra le
classi sociali basse e alcuni personaggi tra le alte, si fa strada una texture dialettale o il discorso diretto,
che completa la già eccellente capacità di scolpire l’indiretto libero. E che è
dire quanto Micheli renda il pensiero dei
personaggi e renda, etnolinguista di talento o pasticheur, la loro parola, in una voluta linguistica in cui il sublimis del narratore coabita con il piscatorius del personaggio, e in cui
oltretutto l’inventio non si dà se
non alla luce di un’eccellente capacità di variatio.
Giancarlo Micheli ci è già noto per i
suoi romanzi a sfondo storico e dotati di un’ampia capacità di investire le
vicende narrate di riflessione filosofica. Ricordo, a titolo di introduzione,
il suo ultimo in ordine di tempo, La
grazia sufficiente, dove l’autore ha operato una trasfigurazione nella
cultura orientale, presso la quale è posta l’ambientazione, del principio
occidentale della ragione sufficiente. Al pari di quanto accade nella scrittura
in prosa dell’autore, anche di fronte alla raccolta di versi La quarta glaciazione ci troviamo in presenza
di una scrittura spessa, nervosa, forte, piena di cose. Uno degli aspetti che
più colpisce, e dal quale merita forse prendere lo spunto d’avvio, è
sintetizzato nella poesia Latitudine,
dove si incontra un verso che può essere scelto quale dichiarazione di poetica,
laddove l’autore si ripropone di risalire “dall’affetto alla causa” [corsivo mio].
È questo il modo peculiare in Micheli di
lavorare con il linguaggio, di piegarlo alle esigenze espressive, ricorrendo al
quale egli ama ricondurre anche forme consuete a significati nuovi.
E’ evidente nel verso citato la
sostituzione della formula nota del pensiero razionale che risale dall’effetto alla causa con la proposizione
di una nuova più complessa “ragione” dell’essere.
Il procedimento razionale che sta alla
base della composizione, nell’opera narrativa di Micheli così come in quella in
versi, tiene quindi conto dell’affezione,
delle specifiche circostanze in cui il soggetto viene colpito (affectus) non nella sua mera emotività,
ma dentro il proprio complessivo modo di essere.
Questo aspetto mi sembra particolarmente
interessante, perché mette in gioco il linguaggio, il luogo e il ruolo del
poeta all’interno di una certa realtà. Il mondo poetico viene a costituirsi di
elementi concreti, non di simboli né di metafore, bensì dei possibili luoghi,
appunto, dove si incrociano tutti i codici parziali: non quello poetico soltanto
ma quello tecnico, quotidiano, finanche nelle locuzioni più banali, che
rappresentano il brusio di fondo dal quale il poeta, nonostante tutto, non ha
pieno arbitrio di sottrarsi.
Il mondo che viene pur tuttavia
comunemente percepito come reale, a dispetto delle condizioni che gli sono
assolutamente intrinseche e nelle quali si rivela assoluta barbarie, assurdità
comunque accettata e condivisa in quanto rappresentata come necessaria, il
mondo della finanza, dell’industria multinazionale, dello sfruttamento si
incontra quindi con ciò che gli è estraneo, il mondo delle affezioni, la
ricerca di libertà e di ‘tenerezze salde’.
Invischiato necessariamente e con
consapevolezza nella realtà vieta e talora vile il poeta che ne rimane affetto è alla ricerca, e fors’anche gode,
dell’occasione di trascenderla. Il lirismo si apre allora a uno spazio
ulteriore, fatto di paesaggi immensi ed ariosi, con cieli, dirupi, curvature di
orizzonti, vele spiegate e vento, fino ad arrivare ai versi migliori di
Micheli, che possono richiamare alla mente certi dipinti ottocenteschi dove il
soggetto umano appare in solitudine al cospetto della natura sublime in cui è
immerso.
Se tale paesaggio non è un cosmo
armonioso, esso non è neppure pervaso da angoscia, sottrazione e sofferenza, si
identifica piuttosto con una presenza sostanziale.
L’architettura de La quarta glaciazione consta di testi di varie proporzioni, dai
piccoli haiku fino ai poemetti, distinti, secondo una precisa struttura, in
cinque sezioni, ciascuna delle quali ha un titolo inerente a quello generale
della raccolta; la stessa versificazione è assai differenziata, alternando metri
complessi ad altri semplici, sempre nondimeno riuscendo a dare compiutezza ad
ogni singolo verso, cosicché l’assenza di una sintassi che li colleghi in
maniera univoca moltiplica le possibilità di lettura e gli effetti di
polisemia. “Nel lento battere dell’onda sulla riva/ Il riconosciuto/ La
geometria del raggio/ Fino al verde cerchio dell’essere/ Fino ad un’angolare
luna/ Sfumata sopra l’azzurro bordo di orizzonte/ Nel viola del visibile/ Una
conseguita trasparenza/ Oltre la combinatoria del senso/ Fugata oltre la
scelta/ La perfezione nell’altro/ In ragione della presenza/ Dell’eccezione al
punto di vista/ E al punto di dissolvenza” scrive Micheli nella poesia Nel respiro del mare – inspirazione, dove
risulta appunto all’evidenza un sistema di geometrie ed angolature che restituiscono
il senso di uno spazio il quale, ancorché mentale e ricostruito, si forma
sempre in specifiche e concrete modalità dell’affezione. La poesia immediatamente successiva, Nel respiro del mare – espirazione, si
conclude toccando uno dei motivi ricorrenti in tutto il libro: “Nel respiro del
mare disteso/ Risalirà lungo i miei fianchi il vento/ Lungo altre creste di
monti che non vedi/ Giacché in serbo li tiene la terra/ A ricoprirli di una
segreta primavera/ Dove sbocciano i pensieri degli amanti/ E quando qualcuno ti
chieda parte e azioni/ Perché
s’imbraccino giorni d’inossidabili intenzioni/ Potrai se lo vorrai
giacermi accanto/ Il capo ad oriente e i rami/ Dal tuo tronco d’araucaria verso
il sole/ Placati e ricercanti nella luce/ Così crescerà l’albero nel puro
mutamento”.
La metamorfosi nell’universo poetico
dell’autore non compare mai disgiunta dalla stabilità, perché, come viene detto
nella poesia Notturno, “Risalendo
alle sorgenti fino al ripartirsi delle acque/ Nel corpo e nella mente/ Dove il sentimento è sufficiente/ Alla necessità
della ragione/ E non offende il limite/ Tra l’uomo e la parola” [corsivo mio] possiamo affacciarci là dove la
realtà celebra le nozze con il sogno, nel luogo dal quale è dato proseguire a
vivere e a rendere il cielo grande.
Sebbene vi emerga assai spesso il tema
della critica sociale, del dolore e della violenza, c’è un’aurea vena di luce
che percorre il libro, ci sono l’amore e la purezza degli sguardi, sempre
presentati per via di coraggiose inversioni rispetto ai luoghi comuni della
letteratura e volti costantemente all’apertura all’Altro, non chiusi in “una
stanza per il sé”.
Anche nel titolo di questa ricca
silloge, mi piace cogliere un segno
positivo nel riferimento alla glaciazione con cui ebbe avvio il periodo
geologico del Quaternario, durante il quale la specie umana è venuta
all’esistenza, un auspicio affinché, superato il gelo che intacca le anime non
meno che i corpi, possa infine iniziare davvero l’epoca della nostra umanità.
articolo di Giancarlo Micheli pubblicato nel volume Memoires (Limina Mentis, Monza 2014; a cura di Antonio Melillo, pp. 317)
Per
il senso letterario assodato – il quale, nondimeno, pena la propria
autoestinzione, non potrà mai essere comune quanto la mediocrità degli
organismi economici e sociali, in ogni epoca, esige dalle forme della coscienza
relativa in guisa di prezzo di realizzo – l’esperienza delle avanguardie
novecentesche si compì entro i limiti di vincoli costrittivi, nel recinto
d’infanzia delimitato da un costituzionale difetto di legittimità. Ciò si
rivela in maniera evidente ad un esame, anche sommario o tendenzioso, del ruolo
svolto dal movimento surrealista nell’ambito del sistema delle patrie lettere
francesi. I testi surrealisti che godettero di maggiore eco, e che tutt’oggi
esercitano malintesi fascino e richiamo dalle foreste al di sopra delle quali
volarono, pagine di romanzi incompiuti dalla vita e disattesi dalla storia,
ebbero respiro nell’ambito di generi quali il pamphlet e il saggio tirtaico [1],
i quali, d’altronde, già al tempo della redazione dei manifesti bretoniani [2]
o del Traité du style [3] di
Aragon, vantavano una loro propria e specifica tradizione. Assunti, pertanto,
sin dalla nascita in ambiti contraddittorî e ambivalenti, essi si dibatterono
presso l’involutiva temperie contemporanea per strappare ai sedimenti del
passato, alle cripte della memoria fattasi canone e prescrizione lungo secoli
di assuefatto ottundimento, i residui di avvenire che vi sono da sempre
depositati, per riportare alla luce di un nuovo mattino le vene auree che
genealogie ipocrite e mendaci avevano consegnate alle anodine tenebre di
consuetudini e dogmi. Lo stesso sviluppo che portò dalle esordienti
intemperanze performative del processo a Maurice Barrès del 1921 alle peculiari
forme liriche della scrittura automatica e, progressivamente, alle
sperimentazioni sul tema dell’essai
cui si è fatto cenno, può, a buon diritto, essere interpretato in senso almeno
duplice: da un lato esso si configura quale riassorbimento del discorso
surrealista nell’alveo della legittimità letteraria, laddove, dal lato opposto,
traspare come tentativo di presa di terreno ad ampio raggio sui molteplici
dominî soggetti alla norma consolidata.
Esiste,
poi, una ulteriore serie di opere le quali hanno ricevuto accoglienza meno
ospitale nella terra che gli agrimensori delle belle lettere non hanno smesso
un solo giorno di rendere meno vergine dacché una qualche decimazione di
capostipiti ha dato la stura a stirpi di epigoni sempre meno feconde man mano
che i passi originari si addentrarono, a ritroso, nelle canute nebbie della
memoria, opere quali Le paysan de Paris [4]
di Louis Aragon, Nadja [5] e
L’amour fou [6]
di André Breton. Vi si trovano intrecciati il registro narrativo e quello
saggistico, mai però secondo il protocollo di cui il meglio credibile tra i teorici
moderni del romanzo, Michail Bachtin, estrasse la giustificazione dalle miniere
del realismo ottocentesco; racconto e riflessione vi paiono, piuttosto, rifusi
e amalgamati in una lingua ambiziosa al di là della misura di designazione e
significazione, luogo degli affioramenti inconsci sulle superficie significanti
nelle quali il testo si tesse e si disfa; si potrebbe definirla una lingua simmetrica, qualora si volesse
far riferimento agli studi dello psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco, che
fu tra gli intimi discepoli di Freud al tempo dell’esilio londinese e tentò una
coraggiosa descrizione del sistema inconscio alla luce dei concetti della
logica formale [7], in base
alla quale esso si esprimerebbe in relazioni simmetriche tra i propri elementi,
al contrario di quanto accade alla coscienza vigile, razionalmente governata da
relazioni asimmetriche e dal principio di non contraddizione. In un sistema del
primo tipo, dunque, se la proposizione “Hegel è padre di Breton” è vera, allora
è vera pure l’inversa, “Breton è padre di Hegel”, cosicché non vi è possibile
ordinamento temporale né spaziale, ogni parola vi è provvista di ubiquità e di
eternità.
È
chiaro, pertanto, che non sia facile né immediato applicare agli esemplari
della prosa narrativa surrealista i criteri che Bachtin andava elaborando
proprio nei medesimi anni in cui vennero pubblicati Le paysan de Paris (1926), Nadja
(1928) e L’amour fou (1937). Dopo
aver assistito, nell’estate del 1925, ad una conferenza del professor Aleksej
Alekseevič Uchtomskij sul cronotopo in biologia, lo studioso di Orel intraprese
la stesura del complesso trattato Le
forme del tempo e del cronotopo nel romanzo [8],
che poté portare a conclusione, nel sordo grigiore della cultura ufficiale del
capitalismo di Stato sovietico e tra innumerevoli boicottaggi da parte del
complesso burocratico, soltanto nel 1938.
La prima, in termini cronologici, nella triade di
opere su cui focalizzeremo l’attenzione comparve sui numeri della Revue européenne, dal giugno 1924 al
giugno 1925, e fu pubblicata in volume nel corso dell’anno successivo, per i
tipi della Nouvelle Revue française
del prestigioso editore Gaston Gallimard.A capo del Bureau des recherches surréalistes [9],
al numero 15 di rue de Grenelle, proprio dirimpetto alla redazione della Nouvelle Revue française, l’accreditato
periodico attraverso le cui pagine alcuni surrealisti si affacciarono oltre la
soglia domiciliare delle lettere francesi non senza scalfire, in tal modo, la
solidità delle pulsioni eversive sulle quali il gruppo fondava la propria
collettiva intransigenza, a capo dell’eterodosso stato maggiore surrealista
stava allora Antonin Artaud, il quale, nella circostanza dell’insediamento,
aveva lanciato proclami incandescenti:
Considerata la falsa
interpretazione del nostro tentativo che è stata stupidamente divulgata in
pubblico, teniamo a dichiarare ciò che segue a tutta la farfugliante critica
letteraria, teatrale, filosofica, esegetica e anche teologica contemporanea:
noi non abbiamo niente a che vedere con la letteratura. Il surrealismo non è un
mezzo di espressione nuovo o più facile, neppure una metafisica della poesia. È
un mezzo di liberazione totale dello spirito e di tutto ciò che gli somiglia.
Il surrealismo non è una forma poetica. È un grido dello spirito che ritorna
verso se stesso ed è ben deciso a schiacciare ciò che gli si oppone, alla
bisogna con martelli materiali. [10]
[1] Dal poeta greco del VII sec.
a.C. Tirteo; in ragione di ciò che della sua opera si è tramandato, l’aggettivo
tirtaico viene inteso a designare testi che esortino alle virtù etiche e
civiche.
[2] André Breton, Manifesti del surrealismo, Milano,
Einaudi, 2003.
[3]
Louis Aragon, Traité du style, Paris,
Gallimard, 1928.
[4] Louis Aragon, Il paesano di Parigi, Milano, il
Saggiatore, 1996.
[8] Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi,
1979.
[9] Ufficio aperto al pubblico ogni
pomeriggio, dalle 16h30 alle 18h30, al fine di “raccogliere attraverso tutti i
mezzi appropriati le comunicazioni relative alle diverse forme che è
suscettibile di prendere l’attività incosciente dello spirito” (André Breton, Entretiens, Bolsena, Erre emme, 1991). I
suoi lavori si protrassero dall’Ottobre 1924 al Marzo 1925, quando Breton ne
decise la chiusura a seguito delle divergenze intervenute con Artaud.
[10]Henri Béhar
& Michel Carassou, Le Surréalisme,
Paris, Librairie Générale Française, 1982, p.19.
nota critica di Giulio Ferroni al romanzo Indie occidentali (Campanotto, 2008) di Giancarlo Micheli pubblicata in Literary (n.3/2014)
Il romanzo Indie occidentali di Giancarlo Micheli mi ha
rivelato una scrittura di forte spessore letterario, capace di toccare la
sostanza della realtà, piena di riferimenti culturali e storici: il tutto con
un forte senso della verità storica, dei conflitti e delle contraddizioni
economiche (l'ambiente e l'orizzonte della vicenda è davvero di grande
interesse).
recensione di Rodolfo Tommasi al romanzo Elegia provinciale (Fratini, Firenze 2013) di Giancarlo Micheli pubblicata in Il Convivio
(n.55, Anno XIV n.4, ottobre-dicembre 2013)
Poiché
tutti i miei studi hanno cercato di far procedere in parallelo musica e
letteratura, mi sento in grado di definire Elegia
provinciale di Giancarlo Micheli uno strano romanzo, avvertendo che a
questo aggettivo attribuisco un valore molto particolare, il quale contempla e
completa in sé anche ciò che si esprime di norma con i termini intrigante,
affascinante, seduttivo. Si tratta in effetti di un’opera piena di aspetti riposti,
che non possono non venire scoperti che attraverso molteplici riletture, fatto
che mi dispone a ripropormi di tornare a prendere in esame il lavoro di Micheli
in una trattazione più ampia di quella che consentano queste brevi note,
soprattutto nell’intento di dimostrare come la sua poesia e la sua prosa siano
perfettamente sposate da una situazione di scrittoio che è sempre progettuale
fino a sfidare il tormento. Benché la figura di Puccini stia al centro della
narrazione, con incredibile pudore l’autore non entra nel discorso musicale,
giacché la musica rimane piuttosto una sorta di chimera o miraggio, la quale
potrebbe forse essere proprio la chiave o il codice per penetrare meglio alle
sorgenti della sua ispirazione creativa ma che nel testo si deposita appunto
solamente in filigrana, per via di sporadiche citazioni dal libretto di Fanciulla del West, durante la cui
composizione accadono le vicende dell’intreccio. Qua consiste uno degli
elementi di fascino del romanzo, laddove la figura umana di Puccini viene posta
in primo piano mentre quella del musicista, di molto maggiore rilevanza, assume
contorni fantasmatici. Lo stesso fatto di cronaca da cui si trae spunto, la
triste sorte della domestica Doria Manfredi, ingiustamente accusata dalla
moglie del Maestro di aver avuto una tresca con questi, viene ad impregnare un
ambiente così da dare adito al titolo: Elegia
provinciale. Un titolo bellissimo, che descrive con icastica sinteticità il
milieu del racconto; eppure, la
struttura formale del romanzo non ha niente di elegiaco né tanto meno di
provinciale. Tutto torna e, al tempo stesso, tutto può essere rimesso in
discussione. Se questo romanzo fosse stato pubblicato alla metà del secolo
scorso, quando la critica d’avanguardia insorse contro il Metello di Pratolini nel frangente di storia letteraria in cui i
lettori italiani scoprivano Joyce e Proust, mentre nella collana mondadoriana
della Medusa sarebbe stata da lì a poco pubblicata la prima traduzione della Montagna incantata di Thomas Mann ed al
di là delle Alpi nasceva la Nouvelle Critique dal contesto in cui operavano
scrittori come Queneau o Robbe-Grillet, mentre si attendeva di veder proiettati
nel corso di una medesima stagione cinematografica film tra loro diversissimi
quali L’anno scorso a Marienbad di
Resnais e Accattone di Pasolini, se
dunque Elegia provinciale fosse
andato in stampa allora, allorché fu affermato che il romanzo dovesse avere
quale unico protagonista la scrittura – e da qui, naturalmente, Sanguineti,
Balestrini, lo stesso Eco, sebbene a quel tempo di romanzi non ne scrivesse
ancora –, ebbene io credo che l’opera di Micheli, in quella congiuntura,
avrebbe completamente scompigliato tutte le carte e tutti i vetri, giacché
essa, nella sua conduzione, affonda tranquillamente le sue lunghe radici nella
fabula e, nella sua forma, abbatte i muri del tempo, così come riescono a fare
soltanto gli scrittori veri. Io ho trovato affascinante pensare a questo
romanzo alla metà del Novecento e trovo affascinante pensarlo oggi. “Prima dell’unità di azione, tempo e luogo della nostra
storia, in un remoto passato, tra argini che ripartivano una vasta laguna
estesa dalla bocca d’Arno fino ai silvestri contrafforti delle Alpi Apuane,
nella terra ove si ambienta la vicenda che narriamo avevano finito per
mescolarsi i flussi germinativi dei Liguri-Apuani, della druidica radice
celtica, dei Tusci, aruspicie
cheraunomanti venuti dal mare delle matrilineari genealogie lidie, e dei
Latini, legislatori ed ebbri seguaci del plusvalore di codice impegnato nel
concetto di stato e riscattato, con usurario profitto, nel genitale
universalismo imperialista” dice, ad esempio, l’incipit del XII capitolo; ecco,
io ritengo che se oggi ci fossero stati tra i letterati italiani Gadda e
Manganelli, il romanzo di Micheli non si sarebbe salvato da effusioni
trionfali. Non cito a caso questi due nomi, perché a mio avviso essi sono i due
scrittori che costituiscono la sutura tra la tradizione narrativa novecentesca
ed un terzo millennio che, salvo poche eccezioni, sta ancora chiedendosi dove
debba andare. Micheli, invece, lo sa benissimo. Usa un sistema narrativo che è
pieno di sorprese, ma anche di ritorni e leit-motifs,
secondo una tecnica che amo definire di avvolgenza,
quasi vi si potessero rinvenire principî percettivi di ordine tattile, come
parrebbe corroborato dalla ricorrenza dei riferimenti
meteorologico-atmosferici: “Il cielo del freddo pomeriggio di febbraio era
battuto da alti venti, da ponente. Lo percorrevano candidi convogli di nubi
vaporose, mutevoli viaggiatrici delle sue azzurre strade. Quell’incessante
correre inebriava gli occhi e dava un senso di consolazione, suggeriva fantasie
di durevoli eternità”; ovvero “trascorsero giorni di fitti piovaschi,
interrotti da brevi schiarite che duravano finché il cielo era di uniforme
campitura, come pietra di turchese, e solo un lontano bordo di nubi grigie la
orlava verso ponente”; senza che in apparenza l’autore si accorga, o piuttosto
accorgendosi egli benissimo, di aver scritto qualche capitolo prima:
“trascorsero algide giornate di novembre, lacrimanti pioggia sui tetti dagli
embrici sconnessi della capitale lombarda, deserti tetti, sopra i quali solo
sparute coppie di piccioni si inseguivano in un frullare di umidore”. In altre
pagine, poi, tali condizioni del cielo vengono tradotte in lancinante
situazione umana, come ad esempio nella descrizione del momento in cui Doria
Manfredi si avvelenerà: “La frenesia dei suoi gesti si trasformava
nell’ottenebrata percezione di lei in uno spossante agitarsi dentro un liquido
viscoso che resisteva ad ognuno, penosamente. Infine, stremata, raccolse un
barattolo di vetro sul quale era stata incollata un’etichetta di carta”. Tutto
ciò che era scena, visione, si è all’improvviso trasformato in sensorialità.
L’interno si converte alla perfezione con l’esterno, e viceversa; in questo
senso, il titolo aderisce pienamente al contenuto del libro; la scrittura, però,
sempre sale, cerca ed emana, fino a domandare al lettore una complicità che
verrebbe quasi da dire utopistica, considerato che ormai da tempo il grado
medio di acculturazione del lettore italiano tende al ribasso. E così, come nel
film La famiglia di Ettore Scola si è
scelto il tema del corridoio per indicare la via di accesso alle stanze e alle
singole esistenze dei personaggi, in Elegia
provinciale l’autore seleziona quello della strada di fango, di un fango
che è sempre presente,tanto sotto a
cieli tersi ed estivi quanto sotto a piogge battenti, finché si sia persino
indotti a sospettare possa trattarsi di materia metaforica, a designazione del
fatto che la scrittura è una realtà oltre la realtà, cosicché davvero essa, più
di Doria, di Puccini, Elvira, Tonio, più del prete o del medico, diventa la
autentica protagonista del romanzo.
Complesso e composito, poeticoviaggio onirico e reale di
quotidiana ulissitàsulla globale percezione d'un
mondo che staper
estinguersi e di una coscienza che si ponecome argine salvifico di resistenza,espresso con sperimentale
ricercadi registri
molteplici, terso e purgatodelle "incrostazioni più esacerbatedel consumo linguistico
corrente".