articolo di Giancarlo
Micheli
Ad avvicinarne i simulacri nei quali, durante
ogni presente che il fiume della Storia abbia lambito, rinnova le proprie
falsificabili testimonianze, non si rimane mai esenti dalla
disagevole precognizione del luogo dove minaccia di estinguerci, nonché del
tempo su cui incombe, presago di malaugurio, risolutamente nefasto, a tal segno
da sedurre a giudizi frettolosi. Quale mai sarà tale demone che so già sfuggito
nel momento in cui dissimulo di seguirlo sulla falsariga della scrittura,
ovvero fingo di precederlo nella sempre poco accorta speranza di trarlo in
qualche trappola nella quale, del tutto verosimilmente, sarà lui a far cadere
me? Poiché, da quasi trent’anni a questa parte, gioco con lui a mosca cieca,
comincio da qua a prenderlo per le corna e ne disvelo d’acchito l’identità:
ebbene sì, si tratta proprio del demone della politica, forma spettrale del
discorso che ha date epifanie di sé, a vantaggio e scapito di contemporanei e
posteri, in Areopaghi, Senati, Chambres
des deputés, Reichstage, Diete e
Dume, si è annidata nei capoversi di monografie e pamphlets, papiri, palinsesti e nuovi media, si è persino lasciata
vivisezionare sulle tavole anatomiche positiviste, sulle quali si volle
diagnosticarne la precoce morte, una volta che la si fosse inghiottita nelle
mostruose e predittive fauci della scienza borghese. Ora, affinché la politica
possa afferire ad un senso che additi a chi viva una via alternativa al vicolo
senza uscita dove il nuovo ordine pseudo-religioso dell’economia capitalista la
reclude tenacemente entro i propri ottenebranti formati spettacolari,
pateticamente superomistici e postindustriali, saranno necessari paesaggi dove
le donne e gli uomini possano tornare ad incontrarsi in carne ed ossa, e
saranno necessarie nuove calpestabili utopie, giacché sulle sedi delle adunanze
mediatiche oggi in voga – siano esse congegnate per riprodurre, a virtuali
costi di realizzo, le immagini di folle rabbiose o festanti, ovvero per
irretire coscienze di ora in ora meglio debilitate in informatici giochi di
società sussidiari della vita – non crescerà più l’erba, né si avrà memoria di
quella falciata per far loro spazio. Pertanto, non è senza mesta umiltà che ci
accingiamo ad eleggere tale luogo dell’utopia in queste pagine, consapevoli che
esso avrà un suo senso proprio solo quando ve ne escano, mai viste prima né
immaginate, dimore e fabbriche, città intere e campagne popolose, e persino
terre selvagge, incontaminate fino a prova contraria. Di una cosa soltanto si
può essere certi, che tutto ciò che di nuovo vi sarà presagito, tutto ciò che
non è ancora stato, proviene dal ventre di ciò che un tempo fu o avrebbe potuto
essere. È cieco al futuro lo sguardo che non ha memoria.
Nell’autunno del 1914, a tre mesi dalla
nefasta conflagrazione bellica dei conflitti capitalistici che già dava
esaustiva prova di efficienza nella riconversione della manodopera dai campi e
dalle officine fino alle trincee d’Europa avide di strage, il direttore dell’«Avanti!»,
trentenne predappiano di belle speranze e precocemente assurto alle somme ed
abusive dignità della rappresentanza politica della classe lavoratrice
italiana, firmò sulla terza pagina del quotidiano un celebre articolo dal titolo
Dalla neutralità assoluta alla neutralità
attiva ed operante. Con libertà di giudizio di cui avrebbe forniti in
seguito esempi ancor meglio spregiudicati e perniciosi, costui aprì così una
breccia nel muro delle mozioni contrarie all’intervento in guerra, fino ad
allora largamente maggioritarie all’interno del Partito Socialista. Neppure la
più seduttivamente machiavellica applicazione di una cinica logica razionale
può oggi, ad un secolo di distanza da quel massacro, controvertire il fatto che
da esso sia venuto, alla classe lavoratrice e all’umanità tutta, altro che
male; se non assoluto, male virulento, che non esime dal proprio contagio le
generazioni a venire. Sarebbe errore forse non meno nocivo quello di valutare
soltanto a mente fredda il tragico regresso antropologico e cognitivo descritto
lungo la parabola storica che condusse il proletariato italiano dalla stagione
radiosa dei Consigli di fabbrica, quando fu capace di assumere il controllo
tecnico della produzione in autonomia, fino alle odierne serrate tombali
dell’industria metallurgica di Stato, nei cui malsani sepolcri i lavoratori non
hanno sapienza se non per andare ad incontrarvi la morte, simbolo e suggello di
abrogata soggettività. Bisognava pensarci per tempo e mai senza sentimento, prima
che l’anonima società della comunicazione di massa affiggesse in tutti i
cervelli le ecumeniche etichette del proprio inconfutabile paradigma, nei cui
formali protocolli di esercizio ogni concreta antitesi dialettica viene ormai
accolta, integrata e, troppo presto, resa innocua, in guisa di legittimo
corollario del pervasivo teorema della vanità vigente. Vediamo, dunque, di
raccontare una delle miriadi di storie, ciascuna delle quali lascia una propria
traccia, negligibile o eclatante, secondo le quali si compì tale apocalisse
dell’individuo nella specie, quella che colse un ventitreenne Antonio Gramsci, «venuto
dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l’eredità
malata dell’anacronismo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità
del cittadino», come
avrebbe scritto di lui qualche anno più tardi Piero Gobetti, lo colse
impreparato a resistere allo sciagurato fascino dell’astro nascente della
politica italiana, tant’è che sul numero del 31 Ottobre 1914 de Il Grido del popolo aveva scritto: «Non un abbracciamento generale vuole
quindi il Mussolini, non una fusione di tutti i partiti in una unanimità nazionale, che allora la sua posizione sarebbe antisocialista... Né la
posizione mussoliniana esclude che il proletariato possa, dopo un fallimento o
una dimostrata impotenza della classe dirigente, sbarazzarsi di questa e
impadronirsi delle cose pubbliche». Costui, invece, non soltanto fu abile a dissipare presto le illusioni del
giovane intellettuale sardo, allora alle prese con il proprio “garzonato
universitario”, ma corse a raccogliere, come tristemente risaputo, attorno ai
suoi Fasci di combattimento il blocco della borghesia industriale e agraria, in
vista dell’instaurazione di una dittatura di cui non diremo mai bene, né mai
vorremmo che alcuno fosse tanto ottuso da dirne, giacché fu male più durevole e
forse ancor peggiore del primo: la guerra imperialista, alla quale, in
schiacciante maggioranza, gli esponenti della cultura italiana avevano dato
l’avallo, fornendo precoce prova di obbedienza. Tale conflitto, che ad
un’analisi storica che si appellasse all’onestà del cuore e dell’intelletto
potrebbe facilmente riconoscersi tuttora in corso per quanto affatto
contingente e meno che mai eterno, volgeva al suo terzo anno quando dalla
Russia iniziarono a filtrare, fino alla metalmeccanica capitale sabauda,
frammentarie notizie degli incipienti moti rivoluzionari. Nel mese di Agosto
del 1917 il proletariato torinese scese in piazza per protestare contro
l’organizzazione militare imposta nelle fabbriche e contro la carestia.
L’esercito sparò sulla folla. Alla fine dell’insurrezione si contarono decine
di morti e centinaia di feriti. Seguì, immediata, la decapitazione del comitato
socialista locale, i cui dirigenti furono tradotti in carcere, cosicché
Gramsci, per la prima volta, vi ricevette incarichi di primo piano. Quando,
nell’autunno successivo, il sol dell’avvenire parve essere sorto, infine, sulla
repubblica dei Soviet, egli ebbe perfino l’onore di firmare, sull’«Avanti!», un editoriale dal titolo La
rivoluzione contro il “Capitale”, davvero non poco ardito laddove, al di là
della polisemia di indubbia efficacia e sottigliezza giornalistiche, vi si
faceva riferimento proprio alla celebre opera marxiana, testo rivelato quanto poco
noto alla coeva cultura proletaria. Se è incontrovertibile che, allora, il
pensiero del treviriano fosse disponibile agli italici intelletti soltanto
attraverso le pur volonterose glosse di Antonio Labriola o le meno innocue
volgarizzazione di Achille Loria, non sarebbe equanime voler rimproverare al
fondatore dell’«Ordine Nuovo» di aver scritto senza cognizione di causa, in
preda a giovanili furori palingenetici, laddove vi sosteneva che «i bolscevichi rinnegano
alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il
pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono “marxisti”, ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina
esteriore, di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero
marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero
idealistico italiano e tedesco e che in Marx si era contaminato di
incrostazioni positivistiche e naturalistiche». Sul concetto di continuazione
poneva, infatti, l’accento in quell’articolo, sulla necessità intrinseca dell’idea,
quale ricco processo di adeguamento alla dinamica strutturale della realtà di
cui si fa interprete, andava dritto al nocciolo della lezione marxiana, alla
prassi filosofica rivoluzionaria, alla dialettica evolutiva della coscienza di
specie. Come in quel testo elzeviristico la tesi era espressa in riferimento
all’ecatombe concretissima cui l’interesse capitalistico dannava la vita sotto
il proprio giogo di ferrea insensatezza ed aurea viltà, non era mancata, alcuni
mesi prima, dopo la spietata repressione della rivolta torinese, l’arsi del
medesimo discorso: una circostanziata critica delle forme aurorali della
società dello spettacolo, nei cui sinistri barlumi di filistea infingardaggine
già si forgiava la macchina di sterminio delle intelligenze estetiche ed
etiche, l’ordigno progettato per esplodere nelle coscienze, cosicché i frantumi
fossero in grado di tollerare la violenza ed i soprusi che ad una intera sarà
sempre troppo dispendioso far patire, come la realtà presente ne dà a ciascuna
inderogabile conferma. Così Gramsci, nelle cronache teatrali dell’«Avanti!» del 3 Ottobre 1917, dipingeva il pubblico borghese del teatro Alfieri,
calcando il pennello sugli effetti deflagranti delle ideologie comunicative ai
quali esso veniva debuttando nel ruolo di oggetto di un ben spregevole
svezzamento:
Eppure questi spettatori non sono dei
grezzi ammassi di carne e ossa fasciati di epidermide. Si commuovono, hanno la
possibilità di commuoversi. Negli intervalli, aggruppati nella
breve saletta dei fumatori, ammutoliscono, impietriscono, si schiacciano contro
le pareti per lasciar che un giovane passeggi, con gli occhiali neri, in
divisa, barcollante al braccio di un amico, incerto delle relazioni di spazio,
come lo è ancora chi è sprofondato nel buio da poco, con le pupille abbruciate
da uno scoppio di gas esplodenti, da un soffio di gas velenosi. Un velo di
malinconia impallidisce questi spettatori, essi possono sentire l'umanità,
possono comprendere il dolore, possono atteggiare il volto alla serietà, possono
sentirsi velare gli occhi di cupa tristezza. Eppure, quando il velario si
apre, e le ridicole caricature di uomini e di donne del palcoscenico riprendono
a mettere in azione la loro macchina, i volti si distendono alla gaiezza ebete,
e l'atmosfera di bestialità si aggrava e appesantisce. Le scempiaggini si
rincorrono, si ammucchiano in immondezzai colossali, traboccanti goffamente.
La gagliofferia ha il sopravvento assoluto sulla intelligenza, dilaga negli
applausi, si approfondisce in risatine di compiacimento: continua a
perseguitarci nei vapori putridi della sera, nelle nebbiosità dell'autunno che
si avvicina.
Non è tempo che si getti al vento quello impiegato ad
una ancorché breve ricognizione delle recensioni teatrali gramsciane nel lasso
che intercorse tra la firma dell’armistizio di Compiègne, ove fu sancita la
virtuale sospensione del conflitto intercapitalistico, e l’inverno del 1920,
quando il ghilarzese, dopo aver profuse energie per dare sostegno intellettuale
all’esperimento di autorganizzazione operaia nelle fabbriche della Fiat,
dovette constatarne il fallimento dinanzi alla coesa reazione padronale. Il
tono generale di questo gruppo di testi si rivela essere non lontano dal
sarcasmo né esente da cabrate sino alle quote dell’invettiva, sebbene si
distacchi in maniera sempre sensibilissima dai canovacci classicheggianti delle
deprecatio temporum che hanno
costituito proficua catena nella storia della cultura patria, con il durevole
effetto di lasciare il tempo che avessero, di volta in volta, trovato o, forse
meglio, perduto. Da mesi le potenze dell’Intesa sostenevano nell’opera
controrivoluzionaria le Armate bianche dei generali Judenič, Denikin, Kolčak; i
focolai insurrezionali, che ad imitazione dell’esempio sovietico si erano
sparsi un po’ ovunque nell’Europa centro-orientale devastata dalla guerra,
suscitavano viva apprensione presso le centrali del vapore ideologico
capitalista, suonavano la sanguinaria squilla della repressione e chiamavano di
nuovo le forze a raccolta. Proprio nei giorni in cui, nel dicembre del 1918, le
ragioni dell’ordine trovavano docili esecutori persino nelle file della
socialdemocrazia tedesca, i cui sgherri, con prussiano senso di responsabilità,
si accingevano a schiacciare la Repubblica dei Consigli degli operai e dei
soldati sorta improvvidamente nello stesso seno della gloriosa Berlino,
Gramsci, nel dare notizia di una rappresentazione allestita al teatro Carignano
che non era in alcun modo riuscita ad affascinarlo, scrisse una pagina assai
illuminante sui nessi strategici tra psicologie e costumi sociali così come
vengono indossati, ancora oggi, sulla ribalta dell’incubo spettacolare messo
all’incanto affinché ogni devoto consumatore possa sostituirlo, ad un prezzo
che gli paia modico, alla propria esistenza di individuo nella specie, che il
regime di circolazione forzata delle merci e dei simulacri gli rende
impossibile e gli vieta.
Le commedie e i drammi che si scrivono in
Italia sono una casistica della vita sessuale che si svolge nell'ambito della legge umana e che è perennemente insidiata
dalle leggi della natura, cioè dai capricci, dalle emozioni, dalla mancanza di
controllo su se stessi. Poiché il costume italiano è essenzialmente sessuale,
poiché la sessualità è l'argomento che più interessa lo spirito degli italiani,
è naturale che gli scrittori di teatro
non concepiscano altra vita che la sessuale. Ciò significa che gli scrittori
italiani di teatro non hanno fantasia, non riescono a superare fantasticamente
la mediocrissima umanità della quale fanno parte, mediocrissima umanità che
inspira la sua vita spirituale al popolarissimo proverbio: «Chi non ha altro bene, va a letto
con la moglie»; e non avendo fantasia, non riuscendo a concepire bene più
grande di quello che i sensi godono nell'alcova, gli scrittori italiani di
teatro non sono artisti e il teatro italiano non è un fatto estetico, ma un
fatto meramente pratico, d'ordine commerciale.
Ma il teatro italiano aveva finora visto
la vita sessuale in due sole forme: quella più crassamente sguaiata
che si propone di solleticare e di provocare la frenesia erotica, e quella romantico-sentimentale che dipende
dall'aforisma: «Dopo la voluttà, ogni animale è triste».
Perché il teatro italiano si perfezionasse, era necessario che il fenomeno
sessuale assumesse una terza forma (il tre è numero perfetto nella mitologia
cristiana e nel simbolo massonico, che tanta importanza hanno avuto nell'informare
il costume italiano) e questa fu escogitata dal gruppo degli innovatori:
Pirandello, Chiarelli, Antonelli. Nei loro lavori i personaggi assumono in
confronto della vita sessuale una posizione critica, assolutamente intellettuale,
di introspezione.
In certo senso c'è un superamento, sebbene esso possa solo paragonarsi al gesto che fa il
cane dopo aver rosicchiato un osso: è un inizio di risanamento del costume, di
evasione dalla fogna miasmatica dei sensi.
[…] anche nella mediocrità intellettuale è necessario stabilire delle gerarchie di valori. La
commedia è stata tuttavia applaudita: il pubblico non è uscito dal marasma
spirituale del sesso, e le commedie di questo genere, la cui statura non supera
la sua statura media, lo soddisfano doppiamente: perché il sesso ci predomina e
perché banalmente si sorride della vita sessuale: nella banalità
pubblico e autore si compenetrano, identificandosi.
Sorge qua, spontanea si
sarebbe tentati a dire, un’amara considerazione riguardo al destino di
pervertimento del senso cui l’opera dell’ingegno critico, la quale in Gramsci
fu viva e vegeta, incorre sovente allorché la si riceva nelle pratiche
sepolcrali che, dall’homo sapiens agli
animalia laborantia e da questi ai sata insumentia, aggregano la specie
lungo il decorso storico dove va dissolvendo, verso l’entropia assoluta della
permutabilità impersonale di ogni messaggio o enunciato, verso l’immenso
cenotafio a cielo aperto nel quale il nulla, in tempo reale, si connette infine
con nulla. Ed ecco che, proprio adesso, l’avello ecumenico si scoverchia e ne
sortono miriadi di aspiranti autori nazional-popolari, esperti di tecnica
poliziottesca e di crimini sessuali, riflessi nel vaniloquente specchio della
civiltà contemporanea in maniera tanto fedele da provarne estasi che paiono
loro incrollabilmente autentiche, lusingati di differire gli uni dagli altri
per meno di un’inezia della quale, peraltro, non avrebbero fantasia né
cognizione sufficienti per confessare la natura neppure qualora li si
sottoponesse alle torture più crudeli. Gli elementi salubri e lungimiranti
dell’insegnamento gramsciano, l’invito alla ricerca artistica dei caratteri
umani là dove ne emergono, da profondità di senso e sentimento, le
contraddizioni dei rapporti sociali e produttivi, la cura e lo studio
filologico della lingua quale organismo dialettico, sono stati dunque ritorti
contro la vita stessa, la quale, invece di prendere slancio verso un’evoluzione
consistente alla creatività letteraria e spirituale, viene ormai imposta ai
modelli narrativi a guisa di inviolabile codice di comportamenti automatici, al
pari di un dogma che non ammette replica giacché è ovunque uniformemente
replicato.
Cosa può mai essere, se
non la repressione delle facoltà spirituali, quella che avvince alle coscienze
quali sono, a tutt’oggi, evolute nei nessi della Storia, finché non
assurgessero alla vigente religione, i cui vieti sacerdoti godono della
eccellente prerogativa di dilettarsi del misfatto che ripetono ad inesausta
prova di impotenza? In questo la vita attuale è assai legittima erede del
positivismo, attraverso le conferme aberranti delle apocalittiche profilassi
naziste e la pervasiva guerra omnium
contra omnes che si è liberalmente organizzata nelle tecniche della
comunicazione di massa, fino ai social networks
e agli odierni strumenti di controllo di cui dispone, in florida copia, il
regime mediatico globale. Per tenersi a galla in questa valle di lacrime, delle
quali la maggior parte non è stata neppure versata, giacché ne è mancato il
tempo, per trovare una terra emersa dove fare tutto nuovo, occorre sostenersi
alle ali dello spirito, le quali, d’altronde, si mostrano, nelle loro forme
immanenti, così logore ed invecchiate da riuscire a stento a reggere se stesse.
A dispetto delle ricezioni foriere di non succedanea
nocività delle quali si è detto, il pensiero del ghilarzese è stato seme da cui
sono scaturiti significativi germogli nel tronco sano della cultura europea e
mondiale. Valgano a titolo di corroborazione, tra le numerose che si potrebbero
citare, le tesi che Michel Foucault sviluppò nel corso degli anni Settanta del
secolo passato, altro momento di effervescenza delle metamorfosi
capitalistiche. Nel saggio del 1976 La
volonté de savoir, l’autore della monumentale Histoire de la folie à l’âge classique, avanzò l’ipotesi secondo la
quale, a partire dal Settecento dei lumi a petrolio della classe borghese, la
censura dei comportamenti sessuali e del linguaggio inerente, nonché il
correlativo controllo sociale che se ne educe, si attuino attraverso la
proliferazione dei discorsi sulla sessualità, rigidamente composti entro un
canone ove si stabilisce la gamma delle varietà perverse convalidate. E, a
pensar bene, tutto un tecnico delirio di conversazioni, più o meno blasée e compiaciute, durante le quali,
con l’infarinatura psicoanalitica che tende a divenire patrimonio dell’uso
colloquiale e non senza prurigine adattata a circostanze ed interlocutori, si
cucinano i padri reduci da matrimoni infelici come seri candidati alla seconda chance della sodomia, sulla base
esemplare di modelli illustri quali potrebbe fornire, per dire, un Thomas Mann,
oppure tutte le madri, altrettanto soggette a sempre più comuni défaillances coniugali, come legittime
aspiranti all’amore saffico, sulla stregua, per intendersi, di una Marguerite
Yourcenar o di una Gertrude Stein, tutto ciò non getta forse l’ombra di una
precognita estinzione sulla scena di un teatro i cui fantasmatici personaggi
vanno sostituendosi ai soggetti umani fino alla presente universalista vacuità?
Tali caricature della vita che destavano lo sdegno dell’intellettuale sardo
allorché le riconosceva effigiate persino nelle commedie dell’eccellente
caposcuola Luigi Pirandello, del cui Il
giuoco delle parti, rappresentato al Carignano nel Febbraio del 1919,
scriveva che «il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di dialogo, puro sforzo letterario di
verbalismo pseudofilosofico. L'incomprensione reciproca delle marionette sceniche
si è proiettata nel teatro: pieno dominio di monadi senza porte e senza finestre,
incomunicabili e incoercibili, l’autore, il personaggio e il pubblico», tali caricature sono ormai in auge nell’incubo diegetico che la società
dello spettacolo ammannisce oggi ai propri membri attivi e passivi, in pegno di
esistenze di atto in atto meglio rimosse e virtualizzate. Affinché non lo si
prenda per mero espediente espositivo se ribadiamo qua il fatto che si sia
scelto di dipanare il fil rouge delle
scene teatrali di quegli anni travagliosi perché in esse furono approntate le
armi linguistiche che, avvalendosi di altri mezzi ed innovate tecniche,
avrebbero esploso i loro colpi fino a sventrare gli spazi architettonici
deputati alla rappresentazione, tant’è che da lì a poco le burattinesche
esibizioni di Mussolini dal verone rinominato “prua d’Italia”, riprodotte dalla
radiofonia di Marconi e dai cinegiornali dell’Istituto Luce, sarebbero bastate
a sedurre oceaniche maggioranze ad un’acconcia accondiscendenza dinanzi
all’obbrobrio del regime, affinché il nostro intento sia chiaro quanto l’oscura
scabrosità della materia richiede, facciamo leva su ciò che, negli stessi mesi
dell’acuta requisitoria gramsciana, veniva elaborando la non meno perspicua
consapevolezza del diciassettenne Piero Gobetti:
E intanto la critica drammatica continua
ad essere sonnacchiosa ed inutile, quando non è dannosa. È diventata
un mestiere. E, quel che è peggio, influisce molestamente sul gusto del
pubblico di media cultura che invece di trovar un aiuto nel critico non sa più
raccapezzarsi nel confronto tra la sua impressione e il trafiletto teatrale.
Si è dimenticato che la
critica teatrale specialmente è un mezzo di elevazione del gusto del pubblico.
Quello che è diventato un mestiere dovrebbe essere una missione.
Date tali premesse, che
l’esordiente teorico dell’idealismo critico sapeva enunciare con precoce
concisione già sul foglio che gli servì da palestra intellettuale, riesce
comprensibile la ragione per cui, una volta sfumata con la sconfitta degli
scioperi del 1920 l’istanza prioritaria acciocché «L’Ordine Nuovo» fosse l’officina di riflessione
politica per la riorganizzazione del lavoro su basi di democrazia operaia,
allorché il periodico dovette arretrare mutando dalla forma settimanale alla
quotidiana e attestandosi in funzioni di resistenza propagandistica, Gramsci
decise di affidarne il ruolo di recensore teatrale, il medesimo nel quale aveva
profuso così concreto ardore dalle colonne dell’«Avanti!», all’astro nascente
del pensiero liberale. A dispetto di ogni pregiudiziale ideologica, più urgente
anche rispetto ad eventuali criteri di verifica della coerenza spirituale, pesò
l’aspirazione ad inaugurare prassi concrete di trasformazione dell’economia dal
suo interno, a riconfigurare i rapporti di produzione dall’àmbito, ristretto
seppur non succedaneo, dei mestieri intellettuali, cosicché il lavoro
liberamente promesso fosse retribuito in vece di uno servile ed imposto.
Perciò, il direttore dell’organo di stampa dell’avanguardia proletaria torinese
offrì al giovane Gobetti l’opportunità di sviluppare il proprio progetto di
ricerca e gli passò l’ideale testimone, ma non prima di aver proseguito la
lotta in prima persona fino a tutto l’anno 1920.
Negli stessi giorni in
cui il futuro Duce, infine espulso dal Partito Socialista, si apprestava a
tenere a raccolta e battesimo i Fasci di combattimento, alle idi di Marzo del
1919, Gramsci, nell’aborrire la messa in scena di una commedia del futurista
Cavacchioli, tra i bersagli abituali delle sue caustiche disamine, intervenne
allo scopo di precisare in maniera viepiù esplicita ed inequivoca il carattere
tardivo che la patria avanguardia assumeva, all’interno del panorama già
sufficientemente passatista della cultura europea, secondo uno schema che si
sarebbe replicato con immutato conformismo fino al nostro presente:
Il teatro modernissimo italiano
(Pirandello, di San Secondo, Veneziani... e
Cavacchioli) risulta in parte da un piccolo errore: questi autori, nello studio della belletristica inglese,
volendo arrivare a
Bernard Shaw si sono smarriti
nel dedalo delle
avventure di Sherlock Holmes. […] Una fantasia
matematica, una fantasia di ingegneri che sanno il fatto
loro, una fantasia da curiosi di sapere come la fantasia era
fatta, i quali pertanto l'hanno recisa per notomizzarla e veder com'era
fatta. Divertono, pur annoiando un
po' per la pedanteria, della quale sono figli
non degeneri. […] È difficile analizzare le loro commedie, senza
dilungarsi sazievolmente; non si può essere severi, perché
esse sono una istituzione del gusto, che non ha ancora esaurito il suo ufficio
storico.
Mentre a Budapest il movimento
internazionalista dei lavoratori parve acquistare nuovo vigore attraverso la
pur effimera esperienza della repubblica sovietica, mentre Gramsci si impegnava
nell’organizzare gli scioperi in appoggio ai compagni ungheresi durante i quali
il proletariato di Torino, istruito dalla carneficina di due anni prima,
conseguì il risultato non poco incoraggiante di fraternizzare con i
sottoproletari sardi della brigata Sassari inviata a monito di preventiva
deterrenza, tanto che le autorità si vedessero poi costrette a rispedirla
sull’isola allo scopo di scongiurare temuti sviluppi da un simile embrione di
consapevolezza e solidarietà, al recensore dell’«Avanti!» non mancò il tempo per esecrare le
velleitarie ambizioni pedagogiche del vellicatorio teatro erotico di un
Niccodemi, esaurito nel proprio ipocrita sforzo di «far ridere fisiologicamente a molto buon
mercato», o le grettezze nazionalistiche di un
Mazzolotti, o
le subliminali istigazioni alla più corriva ferocia contenute nei drammi di un
Monaldi, incentrati sui macabri
tipi di celebri briganti e sventratori di donne, sul consunto armamentario dei clichés della malavita, il quale
conserva, tristemente intatto, il proprio ipnotico appeal sull’infinitamente corruttibile gusto contemporaneo.
Nell’imminenza del rovesciamento del
governo comunista di Béla Kun ad opera della dittatura proto-fascista
dell’Ammiraglio Horty, quando nel capoluogo piemontese l’esperimento di
democrazia diretta dei consigli di fabbrica muoveva i primi passi, Gramsci
trovò l’ispirazione per scrivere una delle pagine più limpide ed istruttive tra
le numerose delle sue cronache drammaturgiche, a conclusione della quale
rendeva merito al serio e fruttuoso impegno artistico di Emma Gramatica:
Il teatro, come organizzazione pratica di
uomini e di strumenti di lavoro, non è sfuggito dalle spire
del maelström capitalistico. Ma l'organizzazione pratica del teatro è
nel suo insieme un mezzo di espressione artistica: non si può turbarla senza
turbare e rovinare il processo espressivo, senza sterilire l'organo «
linguistico » della rappresentazione teatrale. L'industrialismo ha determinato le sue necessarie
conseguenze. La compagnia teatrale, come complesso di lavoro retto dai
rapporti che intercedevano nell'arte medioevale tra il maestro e i discepoli,
si è dissolta: ai vincoli disciplinari generati spontaneamente dal lavoro in
comune – lavoro di natura particolare, perché tendente a fini di creazione artistica
– sono successi i «vincoli» che legano l'intraprenditore ai salariati, i
vincoli della forca e dell'impiccato. Le leggi della concorrenza hanno
rapidamente condotto a termine l'opera loro disgregatrice: il comico è
diventato un individuo, in lotta coi suoi compagni di lavoro, col «maestro»,
divenuto mediatore e coll'industriale del teatro. Sfrenata la speculazione
sordida, essa non ha conosciuto più confini. Il carattere stesso peculiare del
lavoro da svolgere è diventato reagente corrosivo. Primeggiare nel guadagno va
di pari passo col primeggiare nella compagnia, nelle funzioni direttive e
autoritarie, nella libertà di scegliere per sé le parti a successo e spiccare,
monumento funerario, in un cimitero di fosse comuni. La tecnica teatrale ne è
stata scombussolata, la produzione si è adattata «facilmente» alle condizioni
nuove; facilmente, nel senso che l'equilibrio è stato raggiunto in un piano
infimo, di compagnie, di pubblico, di scrittori di teatro. Si parla di
depravazione del gusto, di decadenza dei costumi, di dissoluzione artistica.
L'origine di questi fenomeni vistosi è da ricercare unicamente nel mutarsi dei
rapporti economici tra l'impresario del teatro, divenuto industriale associato
in un trust, il capocomico, divenuto mediatore, e i comici soggiogati
alla schiavitù del salario.
Certo che all’epoca attuale, assuefatta
alla patologica mendacità che, in virtù di un pervasivo dispiego di mezzi
tecnici ben al di là dei limiti delle coscienze, sostituisce ad ogni schietta
ed onesta interpretazione dei fenomeni la vulgata del codice schizofrenico ed
impersonale imposto alla stregua di valore di verità attraverso un capillare
esercizio di violenze fisiche e psichiche, certo che all’epoca attuale giudizi
come quelli del ghilarzese potranno pur apparire semplicistici, ma a nostro
avviso chiunque non acquisisca consapevolezza delle condizioni di impossibilità
in cui il sistema di dominazione economica è giunto a porre l’espressione
artistica non ha diritto di accampare pretese in tale àmbito specifico ed
intrinseco al carattere umano, al destino della specie e della sua coscienza.
Non voglia il lettore abbandonarci per
questo soltanto, giacché il bello della storia deve ancora venire, i.e. l’annus mirabilis 1920, nel cui mese di
settembre, in risposta alla serrata padronale, i lavoratori della Fiat
occuparono le fabbriche torinesi e furono in grado di proseguire la produzione
in autonomia. Fu questo il capolavoro politico non solo di Gramsci ma di tutti
gli operai che contribuirono a realizzarlo. Da quella prova di maestria non fu
possibile trarre alcuno sviluppo rivoluzionario a causa, principalmente, delle
divisioni interne al Partito Socialista, tra “elettoralisti” e “astensionisti”,
bordighiani e ordinovisti, ma sbaglierebbe di grosso chi oggi, ignorando quella
lezione ormai vecchia d’un secolo, disertasse la prospettiva della conquista
dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori per incantarsi dei vari
pifferai mediatici che declamano peana di rivolta in modalità più o meno congruenti
al rodato sistema della comunicazione spettacolare capitalistica. Qualora si
giudicasse senza immunità dall’epidemica intossicazione depressiva grazie al
cui espediente il profilmico capitalista accoglie le masse infette da cronico
inebetimento nel proprio confortevole lazzaretto, qualora mancasse quel
desiderio di guarigione che è scaturigine di ogni arte, il compito sembrerebbe
tale da far tremar le vene ai polsi; laddove si considerasse poi che, nelle
attuali mutate contingenze, non sarebbe sufficiente avvicendarsi nel controllo
dei mezzi di produzione e bensì necessario trasformarli affinché cessino di
dispensare nocività e diffondano piuttosto salubre bellezza, allora i cuori
batterebbero tanto forte da farsi udire, e non sarebbe segno promettente quello
che ci facesse così sentir vivi di nuovo?
Dopo il movimento dell’Aprile, il cosiddetto sciopero delle lancette,
represso con la minaccia delle armi, l’avanguardia operaia patì l’assenza di un
adeguato sostegno di iniziative analoghe su più vasta scala nazionale; ad
Agosto il gruppo ordinovista, fervido promotore dei consigli, fu messo in
minoranza nel comitato direttivo locale del Partito Socialista, di cui prese le
redini Palmiro Togliatti, l’uomo che la provvidenza stalinista, a propria
immagine e somiglianza, avrebbe poi eletto ad un vicario ed italico culto della
personalità negli autorevoli panni del Migliore. Cionondimeno, a Settembre la
lotta si riaccese. I cedimenti del Partito e della Confederazione Generale del
Lavoro dinanzi all’intransigenza della controparte decretarono, e stavolta per
sempre, la fine delle aspirazioni rivoluzionarie. Vennero quindi i giorni
convulsi durante i quali all’interno della dirigenza socialista maturarono i
rapporti tra le fazioni, così da condurre alla scissione di Livorno. Su stimolo
della Terza Internazionale – ed è da rimarcare il fatto che Lenin, come già in
precedenza nelle occasioni dei moti tedeschi e ungheresi, diramasse le sue
autorevoli disposizioni con un ritardo che si può ragionevolmente giudicare possa
essere stato decisivo, sempre in posizione attendista rispetto alla evoluzione
soggettiva delle forze sociali e politiche – nacque pertanto il Partito
Comunista d’Italia, ventuno giorni dopo che “il poeta soldato” aveva firmato
l’atto di resa della Reggenza del Carnaro, cosicché tutta la marmaglia
manganellatrice contesa al fascismo dai miti dannunziani venisse a disposizione
dell’opera repressiva che, non senza bieca tolleranza, lo Stato giolittiano
commise alle ringalluzzite squadracce del Mussolini.
In veste di critico teatrale, Piero
Gobetti aveva appena esordito, il 9 Gennaio del 1921, nella collaborazione con «L’Ordine Nuovo» di
Gramsci:
Un altro carattere generalissimo distingue
poi l'elaborazione faticosa di questi giorni. Non c'è neppure un solo grande artista, vivo nei nostri spiriti, che ci abbia
saputo commuovere; non c'è una personalità sovranamente potente, che
costituisca il centro della nostra letteratura drammatica, intorno a cui le
minori figure si coordinino e costituiscano come un raggruppamento. Tutte le
attività si esplicano invece liberamente, confusamente: tutti piccoli, si
credono invece tutti grandi artisti. Certo sorgerà da queste elaborazioni il
nuovo poeta; il quale risolverà i suoi problemi, purché li senta nella
religiosità e nella spiritualità dei nuovi miti che si vanno creando e sorgono dalle viscere stesse del popolo e
dello spirito dei tempi.
Ma chi va ripetendo oggi i grossi
propositi di riforma del teatro, e intende per teatro gli elementi esteriori
non artistici che vi si sono andati infiltrando per la corruzione del gusto, è un impostore. Poiché noi rispettiamo chi profondamente e seriamente
lavori, compreso della sua missione d'artista, anche quando all'arte piena non
riesca: ma c'ispira solo ribrezzo chi specula sulla decadenza del gusto e
appresta, come arte, un povero svago che serva di tranquillità serale al
pacifico spettatore.
Nel sacrosanto richiamo ai doveri e ai diritti
dell’espressione d’arte, lo scrivente non poteva di sicuro avvalersi di
sofisticati strumenti semiologici per svolgere la propria funzione critica,
tant’è che l’enunciato resta avvinto nelle morfologie e nei concetti della
tradizione idealista, alla quale peraltro lo stesso Gramsci si manteneva
fedele, se è vero che, in uno degli ultimi pezzi per le cronache dell’«Avanti!», aveva scritto che l’opera drammaturgica è «opera d'arte, cioè di poesia, soggetta a nessuna logicità che non sia quella della fantasia
del poeta, che ha in sé la sua legge e soltanto a essa deve obbedire»; tutt’oggi, pare nondimeno arduo ad una coscienza che aspiri a non esser
cattiva sostenere che in entrambi i casi l’essenziale fosse sottaciuto. Non può
esservi arte senza libertà, e in un mondo qual è il presente, avarissimo di
concederne alcuna che non sia fittizia, l’arte è il miracolo di cui può
rendersi capace soltanto l’umile umanità, concreta di cuore ed intelletto, non
davvero i messianici paracleti gonfiati con gli estrogeni della sovrumana
imbecillità imperante, non i servi di scena del grande spettacolo apocalittico
in una e trina dimensione.
Gobetti proseguiva l’articolo passando in caustica rassegna lo stuolo dei
“novatori” del teatro nazionale suoi contemporanei: il Niccodemi, che vi era
definito come colui che «ha raccolta la sua messe di allori sino a diventare (miseramente) uomo
rappresentativo del suo tempo», la cui parola è quella «del conservatore, che è assai peggio che borghese, perché significa l'uomo
che ricerca solo il successo e perciò accetta indifferentemente l'idea
prevalente, che ha il favore del pubblico», le cui opere erano
meri congegni per la «declamazione vuota e volgare, per la
guerra, contro i pescicani imboscati, per l'elevamento ordinato
(l'imborghesimento) delle classi popolari»; poi, in un sol
mazzo, Chiarelli, Antonelli, Cavacchioli, nei cui
lavori «non c'è arte perché c'è
l'indistinto, il vago, il ricercato per mero passatempo, non ridotto ad unità
estetica»,
dei quali «l'eleganza delle scene, la ricchezza degli
abbigliamenti dovrebbe nascondere la povertà interiore»;
delle commedie di soggetto storico-mitologico del Morselli e del Berrini
aggiungeva che «neanche la storia e la mitologia possono
velare deficienze così profonde e far nascere un carattere dove vi sono
soltanto dei fantocci». Concludeva con un capoverso ove
concentrava il senso costruttivo del proprio progetto critico:
Noi crediamo che la sola espressione
notevole del teatro contemporaneo sia II piacere dell'onestà del Pirandello, che veramente muove dalla sostanza dello spirito dei tempi,
dal bisogno idealistico di nuovi valori, d'una nuova morale, di una nuova
logica, da sostituire all'ipocrisia superficiale delle valutazioni del passato
che sono diventate convenzione meccanica. Ma mentre in molte commedie (Cosi è se vi pare, Tutto per bene, Come prima meglio di prima) resta l'intento nel suo
spunto iniziale, il motivo critico filosofico presentato nei suoi elementi
intellettualistici (anche quando reagiscono all'intellettualismo per difendere
l'intuizionismo o il contingentismo), II piacere dell'onestà è perfettamente
realizzato come dramma umano, in cui questo bisogno insoddisfatto di più intima
moralità, questa ricerca critica di sincerità si esprime in passione profonda
e viva commozione. Perché questa commedia è nata dal tormento interiore dello
scrittore e non da un desiderio pratico di successo o di riforma del
teatro.
Mentre, dunque,
l’Italia andò a consumare, nel Maggio del 1921, il rito elettorale attraverso
il quale si dette alimento ad improvvidi giochi di potere illusorio, tutti
intesi alla sottovalutazione del rischio della deriva autoritaria che avrebbe
menato dritto per dritto alla patetica ma sciaguratissima farsa della marcia su
Roma, il figlio del droghiere di via XX Settembre attese alla meticolosa
cernita degli oggetti estetici con cui il teatro borghese nazionale si dava
ornamento di cultura, maturando – lungo il percorso di collaborazione con il
giornale di Gramsci, il quale si sarebbe protratto fino all’imminenza degli
eventi che instaurarono il Ventennio – le metodologie di studio che lo
condussero poi alla redazione del volume saggistico La frusta teatrale, pubblicato per i tipi dell’editore Corbaccio
nel 1923 e che, nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto servire da nucleo
di riflessione per la poi abortita stesura di una Storia del teatro contemporaneo. Non vi era piccola né meschina
l’ambizione di contribuire, con la militanza di critico, ad una profonda
trasformazione della cultura contemporanea e delle sue interne relazioni ai
nessi sociali e politici. La vis
polemica delle prime incursioni gobettiane nei santuari sabaudi di Talia e di
Melpomene, procurò subito roventi dissidi con l’establishment in voga, sostanziati nel ritiro della tessera di
accredito per assistere alle rappresentazioni della compagnia del commendator
Ermete Zacconi, che la direzione del Teatro Balbo comunicò in una lettera al
direttore dell’«Ordine Nuovo»
spedita
il 22 marzo, oppure nella rabbiosa replica con cui il commediografo Alfredo
Testoni reagì alla stroncatura della messa in scena del suo La ruota che Gobetti aveva firmata sul
numero del 14 Maggio. Interpellatolo tempestivamente per via epistolare,
l’oltraggiato autore gli dava del «marmocchio» e del «maleducato», per chiudere
infine con il motto, non senza orgogliosa erudizione volto in lingua russa, ove
traboccava il suo spirito di drammaturgo professionale: «mi fai schifo!!!». In
tale temperie comunicativa, che ricorda non poco l’attuale quanto a spudorate
propensioni allo sberleffo e all’intimidazione, fatti salvi i progressi intanto
conseguiti nella liberalità del turpiloquio, si dipanò la ricerca esegetica del
ventenne intellettuale torinese, e al nostro esame retrospettivo non può
apparire poco prodigioso il fatto che essa approdasse purtuttavia a risultati
seri e significativi. Bersaglio prediletto degli strali gobettiani è, nei primi
testi, la retorica delle tronfie concezioni positiviste, che avevano ridotto la
funzione poetico-drammaturgica a mera rappresentazione fotografica e
l’interpretazione attoriale ad un vieto studio fisiologico di situazioni
contingenti e disarmoniche. Campione di questa scuola si era lasciato
riconoscere proprio lo Zacconi, contro il quale la guerriglia intellettuale
seguitò spietata e senza esclusione di colpi, tant’è che si sarebbe quasi
tentati a leggere una qual certa volontà di infierire psicologicamente sul
soggetto delle proprie analisi impietose laddove Gobetti esaltò invece doti
mirabili e non degne altro che d’encomio nella primattrice che affiancava il
capocomico, la celeberrima Eleonora Duse, la quale, liberatasi alfine
dell’ingombrante passato a fianco del lirico superuomo che abitava oggi il
favoloso ritiro di Gardone, era tornata a calcare le scene con propositi ed
esiti capaci di esaltare percezioni e speranze estetiche del critico al
debutto:
Ogni principio di mediazione (in senso
critico) è soppresso in quanto la sua recitazione ci appare
come una vera esperienza mistica, ed in ogni atto suo si ritrova l'immanenza
del divino. […] Noi non accettiamo il mistero, come cosa valida logicamente;
crediamo che nella chiarezza della mediazione
spirituale tutto il mondo immediato debba avere la sua risoluzione e il suo
inveramento. Ma il mistero esiste come fatto sentimentale; questa è la trascendenza e il misticismo della personalità della Duse.
[…] Per trovare un altro esempio del suo
fascino infatti bisogna ripensare alla predicazione del primo cristianesimo di
Gesù e degli apostoli o all'esuberanza del movimento francescano. E, realizzata
sul teatro, tale potenza spirituale supera tutti gli schemi e sconvolge tutti i
giudizi.
Quasi travolto da
un’ondata di empatia, il critico pare soggiacere qua all’incantamento della
divina, spingendosi a varcare i limiti di prudenza dei procedimenti intuitivi e
deduttivi a lui consueti, come a sondare un dionisiaco al di là del campo
d’indagine della propria ricerca, forse per rispondere ad un bisogno
psicologico di fissarne l’estremità superiore, esigenza la quale non
risulterebbe forse eccentrica né enigmatica qualora si ponga mente al clima
convulso in cui gli avvenimenti erano vissuti. Dove, al contrario, la tenace
aspirazione alla compiutezza espressiva dell’analisi, che nel passo precedente
sembra incespicare sugli ostacoli dell’inconscio non rimosso, consegue la forma
di una chiarezza rivelatrice è in ciò che si può leggere appena sopra nel
medesimo articolo:
C'è nell'attore una personalità di critico d'arte, che rivive l'opera che ha
di fronte secondo la sua comprensione, che si sforza di ampliare questa
comprensione, di esservi sempre presente. Siffatto attore non impone la sua
personalità sino a sopprimere l'opera che ha dinanzi per prendere solo più
vibrazioni sue; ma sta ad un punto di vista esterno, ossia non diventa moralmente
uno con il personaggio che rivive: legittima posizione che è anzi la sola artisticamente
valida perché solo in essa l'attore si scorda della sua persona, empiricamente
pratica ed umana, per cercare essenzialmente una contemplazione critica (contemplazione perché
serena; critica perché riflessa, non immediata) di quell'opera che,
indipendentemente (in un certo senso) da ciò che l'autore ha realizzato, egli,
attore, realizza. Onde la formula da noi spesso svolta dell'attore come
critico-artista.
Ecco, nella puntuale limpidezza di
passaggi come quello testé riportato, di cui nella vasta mole delle Cronache è possibile rintracciare altri
numerosi esempi, stimiamo consistano gli autentici miracoli compiuti da un
giovane di appena vent’anni dinanzi alla materia del suo studio, foggiata in
sublimi posture seduttorie da impersonali astuzie psicotecniche che
principiavano a proiettare sulle coscienze gli spettri di un culto in procinto
di farsi totalizzante; miracoli che ancora oggi serbano integro il loro valore
di antidoto contro le pervasive prassi della società dello spettacolo giunta
alla suprema trascendenza della sua forma economica immateriale. Gobetti vede
pertanto emergere un talento profondamente umano e storicamente vivo in Alda
Borelli, rivale della Duse. Dell’attrice di Cava de’ Tirreni afferma che la sua
arte «sostituisce la critica alla fede». Ella risponde alla crisi
della civiltà sua contemporanea, durante la quale il tramonto dei miti,
idealisti o veristi, pone gli individui di fronte alle conseguenze paradossali
dell’isolamento nella nascente società di massa. «Il romanticismo esuberante e finissimo
della Duse è diventato nella Borelli atteggiamento di ironia di
fronte alle cose». «All'ipocrisia ciarlatanesca di cui si
appagò ancora il pubblico, ammantandola coi nomi commossamente ridicoli di
genio, di ispirazione, di divina ebbrezza, Alda Borelli sostituisce una
sensibilità non mai turbata, finissima, uno studio coscienzioso, severo». Quindi, alle suggestioni
di un’arte esoterica va contrapponendosi un modello di vigile pesatura delle
istanze irrazionali, al cui calco soltanto, fatto di levità disincantata, sarà
dato aderire all’umanità del volto senza che la distorcano gli isterismi
sonnambolici in cui la Storia e lo Spirito scoperchiano un duplice e
complementare abisso.
Queste le linee teoretiche
fondamentali che orientano Gobetti alla vigilia dell’estate del 1921, quando i
risultati della terza consultazione elettorale che nel Regno d’Italia si fosse
tenuta a suffragio universale riconfermarono il Partito Socialista quale
detentore della maggioranza relativa e segnarono una sostanziale sconfitta per
il Blocco giolittiano-fascista, tantoché Mussolini si credette autorizzato a
giocare la carta del “patto di pacificazione” con i vecchi compagni, il quale,
ratificato il 2 Agosto, provocò le fiere rimostranze di molti gerarchi. Balbo e
Grandi si recarono addirittura a Gardone, per pregare il vate che vi risiedeva
di accondiscendere ad avvicendare lo screditato predappiano alla guida dei
Fasci littori. Pare che, poco prima, anche Gramsci, introdotto da un
ex-legionario fiumano, tale Mario Giordano, fosse andato a chiedere udienza al
pontefice della imaginifica religione superomistica. Questi, con sdegnosa
cautela, avrebbe declinata ogni profferta, ben avvertito ed amareggiato di aver
già espletati i doveri richiesti ad un’italica anima magna nel profilmico della mediocre politica a sé coeva.
Lasciamo immaginare a chi ne senta necessità la sorte che sarebbe toccata
all’Italia ed al suo popolo nell’evenienza che il poeta soldato avesse esibito
l’ardimento che non gli mancò in precedenti vicissitudini, cosicché, alle
tragiche e pur inevitabilmente farsesche insorgenze collusive dell’ideologia
piccolo-borghese con gli interessi agrario-industriali, fossero risparmiate le
atellane del pantocratore a torso nudo o in camicia nera e degli squallidi
comprimari di lui. Persino l’Internazionale comunista,
d’altronde, stentava a trarsi fuori da quella scena lagrimevole e nel III
Congresso, tenutosi a Mosca tra Giugno e Luglio, indicò la strategia del fronte
unico con i socialisti, i quali, appunto, si apprestavano a stipulare il patto
di pacificazione. Ricordiamo piuttosto, per soprammercato, come nel Comitato
centrale del Partito Comunista d’Italia, qual era stato licenziato dal
Congresso di Livorno, figurasse pure quel Nicola Bombacci che, dopo aver potuta
vantare l’amicizia personale con Lenin, venne a farsi scudiero della Repubblica
sociale nei tempi torbidissimi di Salò, tanto intransigente e leale da seguire
il Duce fin nell’estremo viaggio verso Dongo. Tornato presto in auge il Mussolini
grazie alle tribunizie smargiassate socialiste che consigliarono gli avversari
a ricompattare le file, nel marzo del 1922 all’interno del Secondo congresso comunista prevalsero le
tesi settarie e isolazioniste di Bordiga. Mentre le violenze fasciste si
facevano di giorno in giorno impudenti e sfrontate, lo Stato liberale esibì con
sprezzatura la ciclica sequela delle crisi ministeriali, da Bonomi a Facta, e
da questi a se stesso dopoché, decisosi infine l’amletico Turati a consentire
la partecipazione socialista ad un gabinetto presieduto dal Giolitti, lo
statista di Mondovì, alla soglia delle settanta primavere, non se la sentì di
cederla in saggezza al d’Annunzio e prolungò le vacanze a Vichy. Dal Maggio
intanto, anch’egli provato nel morale e nel fisico, Gramsci era a Mosca per
assumere incarico nell’esecutivo della Terza internazionale, cosicché il
proletariato italiano, dilapidate le energie autorganizzative mature nei mesi
remoti dei Consigli, in balia della inerme faziosità della dirigenza comunista
e della tragicomica indecisione della socialista, subì la recrudescenza delle
offensiva squadristiche. Si resistette ancora
valorosamente a Parma, a Sarzana ed altrove, ma il dado era tratto, tant’è che
il vate pescarese ebbe un ripensamento e, ristabilitosi con taumaturgica
celerità dall’arcano ma rovinoso volo dal balcone gardonese, programmò per il 4
Novembre, anniversario della vittoria, una maestosa adunanza capitolina di
ex-combattenti, affinché potesse cogliere in
extremis il sommo alloro che solo a lui competeva per inalienabile diritto
d’uomo superiore, per non dire eccellente. Resipiscenza tardiva fu la sua,
giacché la sera del 27 Ottobre il pubblico che affollava il Teatro Manzoni di
Roma, disertando con gli occhi la scena su cui era allestito Il Cigno di Molnar, li inviava
all’unisono alla volta del palco dove Benito, al suo fianco Edda e Donna
Rachele, attendeva ragguagli sui movimenti delle milizie che si accingevano
l’indomani a convergere sulla città eterna.
Dal principio di quel fatidico anno 1922,
Gobetti aveva dato vita alla rivista Rivoluzione
liberale, la voce più nitida e perspicua tra quante si poterono opporre
alla resistibile ascesa del predappiano. Se è pur vero che, rielaborando
materiali già pubblicati sulla rivista, nel suo mirabile saggio
sulla lotta politica in Italia, pubblicato alla vigilia dell’assassinio
di Matteotti, Gobetti scriverà, con penetrante intelligenza, che il fascismo «è
stato l’autobiografia della nazione», sebbene egli vi
aggiungesse l’amara considerazione secondo la quale «una nazione che crede alla
collaborazione delle classi, che rinuncia
per pigrizia alla lotta politica, dovrebbe essere guardata e guidata con
qualche precauzione», ancorché proseguisse
l’acuta disamina osservando che dal nuovo regime «il trasformismo giolittiano è
stato ripreso con più decisi espedienti teatrali», laddove sostiene che «il
mussolinismo è dunque un risultato assai più grave del fascismo
stesso perché ha confermato nel popolo l'abito cortigiano, lo scarso senso della
propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza», per finire a domandarsi
se «dovrà ineluttabilmente l'Italia rimanere condannata dalla sua inferiorità
economica a questi costumi anacronistici e cortigiani», egli ci lascia qua sospettare di non esser mai
stato sfiorato dal dubbio che proprio in tale profluvio di elementi
eristico-estetici consistesse la modernità, sia detto con costernata ironia,
della dittatura; ma noi, testimoni del culto feticistico dell’impersonalità
che, al tempo in cui la compiuta miseria capitalistica si dissimula sotto alle
etichette e sotto al vuoto pneumatico di confezioni dell’estrema opulenza, ha
sostituito quelli novecenteschi delle personalità fittizie o falsificabili, noi
avvertiamo un profondo affetto ed umanissimo per la seria e studiosa
intelligenza del torinese quando conclude, dissipando attorno a sé ogni
equivoca aura esoterica, che «a questo punto è evidente che una nostra
profezia riuscirebbe troppo interessata e per quel che non nasce dal contesto
spetta piuttosto all'iniziativa del lettore».
Con animo che ambisce ad una filologia
possibile, operante nell’èra in cui lo stream
of consciousness, in cui si espresse un secolo fa la libera fantasia
dell’arte letteraria, si è venuto cristallizzando in una lista di comandi
eseguibili da compilatori consenzienti alle loro stesse condizioni di impotenza
o di impossibilità, filologia la quale ci garantisca nondimeno di discernere
tra ciò che non nasce e ciò che non muore, cogliamo dalle cronache teatrali
gobettiane dell’ultimo periodo, quello durante il quale, avviata ormai
l’impresa della Rivoluzione liberale,
diradò l’assiduità dell’impegno e la sua firma o lo pseudonimo di Giuseppe
Baretti si alternarono alla meno illustre di Umberto Calosso, vi cogliamo una
sostanziale coerenza tanto dei propositi e dei conseguimenti quanto dei limiti
e delle manchevolezze. Se non può non destare meraviglia l’erudizione e la
fluidità espositiva allorché egli disegna un rapido ma vivido schizzo di storia
delle culture nazionali europee senza mai compromettere la limpidità delle
deduzioni concettuali con la ricchezza descrittiva delle invarianti specifiche,
sebbene veneriamo in lui il coraggio di voler andare a sradicare fin nelle
scene del Goldoni le radici delle erbacce che hanno infestato il raccolto della
produzione drammaturgica italiana, segno che la sua indagine critica non
sottostà a criteri meschini, né vincolati ad obiettivi contingenti, nondimeno
notiamo che Gobetti si disfa di tutta l’abituale sagacia quando giunge ad
affermazioni troppo brusche e sbrigative che, seppur ne chiarifichino le
posizioni ideologiche, lo fanno scapitare nei confronti del nucleo genuino
della sua stessa ricerca. Commentando la supposta crisi del teatro italiano
come un fatto inesistente, buono soltanto a dar occasione di chiacchiera a
pennivendoli a corto d’idee, aveva scritto che «gli impresari sfruttano in
quanto altri si lascia sfruttare, ossia in quanto altri non è in grado di
compiere questa funzione che essi esercitano», proposizione dalla quale
osservava con cinico piglio contemplativo la questione della proprietà dei
mezzi di produzione, professando una certa devozione e una certa fede nella
borghesia di cui già si era reso il critico intransigente. Parimenti crediamo
che egli difettasse per assuefazione alla divisione capitalistica del lavoro
intellettuale laddove andò sostenendo che:
Il teatro deve essere giudicato come fatto
d'arte di libera creazione, non per le sue qualità teatrali (esteriorità e rapporto col pubblico): dove l'arte è fallita non deve preoccuparsi il
critico di indicare le funzioni pratiche dell'opera che ne risulta, o se ne può
occupare non più come critico, ma come osservatore di fenomeni sociali. D'altra
parte è incontestabile che storicamente il teatro vive di una funzione
pubblica, corrisponde a specifiche situazioni sociali: lo spettatore vi cerca
un suo ideale pratico (di cui l'arte è soltanto un momento). Tra opposte
esigenze morali, sentimentali, politiche la libera creazione è costretta,
impedita; trionfa attraverso infiniti sforzi, incompresa, disprezzata.
È chiaro che il tormento di questa creazione si svolge a fatica e niente
affatto a suo luogo nel teatro moderno, tra le presenti esigenze di capocomici,
impresari, pubblico. Il pubblico dovrebbe parteciparvi e non può se non è
preparato. L'arte è fatta per pochi, per i pochi che possono viverne,
soffrirne.
Condividiamo buona parte delle testi sopra affermate, ma il loro tono
d’insieme è già improntato a quella disillusione nei riguardi della materia
eletta a proprio campo d’indagine che già altri hanno sottolineata. Soprattutto ci rincresce
che, pur avendo saputo stigmatizzare i capocomici che andavano allora per la
maggiore, uno Zacconi per le maniere ed i vezzi cui addestrava un pubblico
infingardo e rotto ai più sciatti espedienti della ciarlataneria, oppure un
Gandusio di cui spiegò il successo nel fatto che «egli si presenta al pubblico
come qualcosa che interessa in quanto compie una serie di atti che ci si
aspettano e suscitano simpatia», Gobetti non riuscì a
farsi al contempo osservatore dei fatti sociali abbastanza fine da elaborare,
se non retrospettivamente, che su altrettanto vieti ed impudichi canovacci si
veniva allestendo la recita triviale dell’ascesa fascista. Compito odierno, per
gli intellettuali che vogliano prendere sul serio se stessi e il mondo in cui
si trovano a vivere, è di acquisire una tale tempestiva lungimiranza.
La concreta libertà
espressiva, sotto la divisione del lavoro capitalistica, è possibile solo in
forme preistoriche ed illusorie, le quali, per appannaggio di contraffattiva
retorica o esplicito interesse propagandistico, si sono volute e potute
magnificare nei miti del genio, della donna o dell’uomo di superiori levature e
virtù. Poiché, d’altronde, in regime di “libera iniziativa” un qualsivoglia
cretino che abbia da parte il suo bel gruzzolo, in contanti o falso prestigio,
riuscirà a far fuoco e fiamme – talora tanto alte e maestose da lasciarsi
vedere anche al di là degli orizzonti, in virtù dei ritrovati di tecniche
ottiche up-to-date –, laddove il
genio, o anche il semplice uomo d’ingegno, vi finirà dritto al rogo, il primo
fumo da dissipare attorno ai nostri passi, incamminati sui sentieri a venire, è
quello che ce li fa credere liberi durante quest’unica volta – a sentir bene
esaltante – cui capita loro di proseguire, quali sensibili esploratori in
predicato ed in sospeso tra ciò che è morto e ciò che non è nato. Aggiungendo
una parola che non sia mai d’ordine, ché si possa intenderla bensì quale tenace
viatico alla liberazione, detta a bassa voce in cognizioni soggettive e
consapevoli, scritta in caratteri minuscoli nei nostri viventi desideri: omnia fiant communia.
Cfr. Giorgio Pullini, La critica militante nel teatro italiano del
primo novecento, studi offerti a Mario Fubini, Liviana, Padova 1970; Edo
Bellingeri, Dall’intellettuale al
politico: le “Cronache teatrali” di Gramsci, Edizioni Dedalo, Bari 1975.