articolo di Giancarlo Micheli
pubblicato nella rivista Il Ponte - rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei (Anno LXXII, n.3 - marzo 2016)
A pensar bene – prassi
che non si può sostenere senza mendacità sia stata la passione predominante in
ogni individuo che sia vissuto ed in ciascuna epoca della storia –, l’assillo
che il regime economico globale pone oggi a se stesso in merito agli
sconvolgimenti climatici ed alle componenti antropiche della loro genesi
dichiara, nei fatti, il fallimento del capitalismo. Gli apparati che
distribuiscono opinione e scienza impetrano, con la querula ipocrisia che è
loro congeniale, l’attuazione di principî di pianificazione economica, alieni
alla natura del modo di produzione
che seduce e mobilita la specie da alcuni secoli a questa parte; ne risulta una
dilacerante contraddizione intestina per questo organismo surrettizio, il quale
pur tuttavia si dibatte nelle lacrime e nel sangue viventi, quasi fosse l’unico
degno di fede di tutti i corpi che avvelena e gli intelletti che corrompe. Ciò
significa forse che la dialettica materialista compia effettivamente il proprio
corso storico necessario? Che il capitalismo, all’evenienza degli attriti in intrinseche
contraddizioni, riformi se stesso in direzione di una progressiva Aufhebung delle proprie verità
durevolmente parziali? Rispondere affermativamente equivarrebbe ad anteporre
gli ottativi di un cuore malato alla consapevolezza della mente la quale
conservi la capacità di diagnosticare l’infermità del primo e quella che gliene
deriva per effetto collaterale. La dominazione ideologica è, appunto, il Moloch
che si nutre di ogni palpito e secrezione dell’ingegno umano, la digerisce
nelle proprie viscere nocivamente salubri, per eternarsi in una natura
fittizia, prevaricatrice della reale ed autentica. Colui che ravvisasse la
pertinenza alla generale temperie cognitiva, quale si manifesta nelle attuali
forme mediatiche di indottrinamento, di ciò che Karl Marx dichiarava a
proposito del rappresentante del socialismo piccolo-borghese, Joseph Proudhon,
in una lettera pubblicata all’indomani della morte di lui, avrebbe la buona
sorte di fiutare un indizio sui luoghi retorici ove sia andato a parare il
culto della personalità, tanto in voga presso le dittature novecentesche, una
volta che esso sia stato assimilato dai processi metabolici del vigente sistema
tecnocratico, la cui prerogativa non è più quella che ebbe all’aurora della
critica marxiana, di estrarre plusvalore nelle condizioni sociali di
produzione, bensì quella pervasiva di postulare la specie come riserva massiva
destinata alla maggior gloria del medesimo scopo, quando il pluslavoro è
comminato ai produttori finanche nel tempo che venne dapprima percepito feriale
e definito, tramite un doloso solecismo, libero:
Proudhon
ebbe una naturale inclinazione per la dialettica. Ma poiché non comprese mai la
dialettica scientifica, egli non andò mai oltre il sofisma. Esso è infatti
congenito al suo punto di vista piccolo-borghese. Come lo storico Raumer, il
piccolo borghese è fatto di da una parte
e di d’altra parte. È così per quel
che attiene ai suoi interessi economici e, pertanto, alle sue opinioni
politiche, religiose, scientifiche e artistiche. Allo stesso modo nella sua
morale, IN TUTTO. Egli è una contraddizione vivente. Se, come Proudhon, egli è
inoltre un uomo d’ingegno, imparerà presto a giocare con le proprie
contraddizioni e a svilupparle in accordo alle circostanze in eclatanti,
pretenziosi, ora scandalosi ora brillanti paradossi. Il ciarlatanismo nella
scienza e il compromesso in politica sono inseparabili sotto un tale punto di
vista. Esiste una sola ragione di governo, la
vanità del soggetto, e la sola questione per lui, come per tutte le persone
vanitose, è il successo del momento, lo scalpore del momento.[1]
Il governo dei poteri
economici sull’economia planetaria, cui offrono supporto e convalida in guisa
di apparati ideologici non solo le istituzioni statali ma soprattutto gli
stessi cartelli industriali e finanziari che impongono ad esse agende e
protocolli, assume nei confronti delle criticità, quali si manifestano nello sviluppo
della propria sovrana dinamica, il punto di vista dell’uomo-massa, così da
ingenerare il corto circuito per cui l’opinione piccolo-borghese (da intendere
nell’accezione marxiana di cui sopra) divenga il valore cognitivo al passo con
i tempi, il quale identifica i dogmi della fede con i postulati della scienza,
con buona pace del secolo liberale che elaborò come astrazioni il principio di
falsificabilità ed altri sottili criteri ermeneutici.
Nel 1988 le Nazioni
Unite fondarono lo Intergovernmental Panel on Climate Change, i cui compiti
statutari furono definiti dal triplice scopo di appurare quali siano i
fondamenti scientifici dei mutamenti climatici, di valutarne l’impatto sui
sistemi naturali ed umani, nonché di suggerire, infine, le strategie adatte a
mitigarlo. Questo comitato di tecnici riflette le convinzioni maggioritarie nella
comunità scientifica in merito ai cruciali dilemmi di loro competenza. Il
contenimento delle emissioni dei cosiddetti gas ad effetto serra rilasciati
nell’atmosfera in seguito al consumo dei combustibili fossili, che alimentano tutt’oggi
la produzione energetica su scala globale in una proporzione stimata pari a
circa l’80% della complessiva, è la raccomandazione che fu precocemente
inoltrata alle autorità politiche, ma è chiaro come la luce del sole, oltre che
incontrovertibile, il fatto che gli strumenti legislativi o giudiziari di cui
esse dispongono abbiano una forza di indirizzo assai limitata nell’àmbito di un
sistema pervasivo, che regola sul profitto le proprie basi assiologiche,
giungendo ad ipostatizzare, alla stregua di tangibili manne dal cielo od altri
viepiù succulenti appannaggi fatali, i favolosi ratei delle rendite finanziarie
che, grazie all’impiego di sistemi di intelligenza artificiale, maturano, di attimo
in attimo e finanche adesso, durante intervalli di tempo virtualmente
infinitesimi. Esigere dall’attuale regime economico una qualsivoglia capacità
di pianificazione a lungo termine equivale alla pretesa che gli animali da
preda adattino il loro metabolismo perché acquisisca all’istante le medesime prerogative
di quello di mansueti vegetariani. Ecco pertanto che, dopo un solo decennio
dalla lodevole creazione dell’ente sovranazionale, tragedia dell’impotenza
nella narrazione del capitalismo, sùbito la storia fu replicata come farsa
nella stipulazione del Protocollo di Kyoto, tra i comma del quale, tutti di
dimostrata inefficacia a sovvertire l’epocale tendenza apocalittica, non mancò
il patetico meccanismo dello Emissions
trading, la garanzia allo scambio di crediti di emissione tra gli Stati
contraenti, cosicché si arrivò presto al revival della
credenza nei beneficî della legge della domanda e dell’offerta, già cara ai
fisiocratici ed agli economisti classici e tale da fare aggio, al presente,
sull’ingenuità dei migliori selvaggi e l’ipocrisia dei peggiori speculatori che
si avvalsero pure di quell’opportunità diplomatica per perseguire le politiche
di decentramento produttivo verso i paesi cosiddetti emergenti, le quali ultime
costituirono gli autentici punti di viraggio dell’attuale crisi sistemica,
benché la si dissimulasse dapprincipio sotto le fragorose e tutt’altro che
ineffettive esplosioni di bolle finanziarie. D’altronde, deve ancora nascere il
genio diegetico capitalista in grado di persuadere le vittime della recente ondata
di caldo, che colpì nel Maggio scorso l’India e con particolare recrudescenza
l’Uttar Pradesh, in merito al fatto che gli equilibri geostrategici
dell’imperialismo siano profondamente mutati rispetto ad un secolo e mezzo fa,
quando le nocività del modo di produzione taylorista intraprendevano in sordina
le prassi che oggi comminano, ante festum,
la condanna ad un destino progressivamente penoso per le incolpevoli
generazioni a venire; deve ancora essere partorito dai ventricoli della scienza
e della tecnica della comunicazione il portentoso aedo che sappia rincuorarle e
mostri loro, dati alla mano, quanto poco sia verosimile che si ripetano oggi flagelli – per non trascegliere che un esempio
paradigmatico – della misura di quello che, al deflagrare della Guerra Civile
negli Stati Uniti, indusse i proprietari coloniali inglesi a convertire la tradizionale
coltura del riso in piantagioni di cotone e juta, proficue a rifornire gli
eserciti in lotta, tant’è che la susseguente carestia procurò nel solo Stato
dell’Orissa un milione di morti, pari ad un terzo della popolazione totale. Pur
tuttavia, in tale attesa, il capitalismo sa dimostrarsi inaspettatamente
paziente e, quand’anche un simile messianico paracleto tardi a dar segno di sé,
esso esibisce la calma dei forti, sembra dar quasi ad intendere di poterne
persino fare a meno.
Negli Stati Uniti,
patria del Primo Emendamento, non hanno fatto difetto nel frattempo
investimenti intesi a conferire a scienziati dissidenti la facoltà di confutare
le tesi egemoni in tema di mutamenti climatici. Ciò condusse presto a fruttuosi
scandali mediatici, allorché si poté arguire che gli apostati risultassero in
maniera sistematica sul registro dei pagamenti delle multinazionali
petrolifere, la ragguardevolezza dei cui interessi rimane tale da non destare
meraviglia nell’animo del common man
laddove questi li sorprenda in flagrante bisogno di rappresentanza, ma è
nondimeno sufficiente a dare succedanea soddisfazione all’offeso senso della
giustizia di lui allorché egli constati come la legge, sebbene non sia davvero
eguale per tutti, faccia egualmente il proprio corso anche contro lobbies agguerritissime, sicché per
qualche settimana almeno quell’individuo qualunque si senta promosso ad uomo
del destino in qualità di consumatore dell’informazione relativamente più
vorace. Né la diatriba poté esaurirsi con vari salomonici arbitrati, giacché
non latitarono esponenti della fazione scettica e negazionista, quali il
geologo e meteorologo Reid Bryson, il quale avvertì il dovere di porre
all’attenzione dell’opinione pubblica il commento secondo cui ci siano “molti
soldi da guadagnare in questo settore e se vuoi essere un eminente scienziato
devi avere molti studenti specializzandi e molte borse di studio”[2],
le quali verrebbero assegnate con difficoltà a chi non si conformi alle
posizioni dominanti, oppure il fisico dell’atmosfera Richard Lindzen, autore
dell’affermazione, ardua da confutare in specie qualora spetti farlo al
succitato common man, stando alla
quale “il motivo per cui noi (gli Stati Uniti) sappiamo sistemare le cose (i
mutamenti climatici) molto meglio del Bangladesh è perché siamo più ricchi”, nonché
delle domande, tanto retoriche quanto gravide di futuro: “Non riterreste
sensato assicurarsi di essere solidi e ricchi quanto più possibile? E che anche
i poveri del mondo siano solidi e ricchi quanto più possibile?”[3].
È palese quale concetto
corrisponda al significante povero
nella contestuale cognizione del novello Prospero, cosicché egli sciorini un
nitido esempio di contradictio in
terminis con la disinvoltura che è odierno decoro misconoscere a guisa di
autorevolezza: altro non sono che i gruppi di interesse extralegale della
borghesia cosmopolita che nelle molteplici regioni del pianeta hanno acquisito,
mai senza nequizia e corruttela, il diritto di rappresentanza degli umili ed
offesi, sullo sfruttamento dei quali si ergono come sulla parte di loro
proprietà di un generale cumulo di macerie. Evidente risulta, d’altronde, di
che genere sia l’unica risposta che si debba dare dinanzi a tale recrudescente
lubricità senile dell’imperialismo: esproprio diretto dei mezzi di produzione
da parte dei lavoratori, ed ancor più da parte delle masse proletarie e
sottoproletarie dell’ecumene, spauracchio al cui cospetto tutti i saggi od
inconsapevoli lacchè del sistema di avvilimento ed incretinimento in vigore
oggi, che vorrebbero proseguire a deliziarsi alienando la verità in ossequio ai
piani messianici del variopinto folclore religioso che è servito loro da
provvidenza, tremano al pari di Isacco sotto alla lama paterna.
Non la raccapricciante
inquadratura del sangue che assassini integralisti versano dalle giugulari
delle vittime inermi è il nefando e l’osceno all’interno del profilmico del
totalitarismo mediatico, bensì l’immagine della rivoluzione.
Rimane, dunque,
necessario venga il mattino in cui le donne e gli uomini si alzeranno per
conquistare la vita felice e giusta in questo mondo.
Intanto, non nel mero proposito
di dirimere la querelle, il quale
sarebbe vano nella prospettiva del profitto capitalistico, furono commissionate
numerose indagini per classificare le tesi scientifiche riguardo agli
sconvolgimenti climatici e sintetizzarle in prospetti statistici sulla cui base
pure l’uomo della strada potesse farsi la propria idea. Quanto alle azioni
mediante le quali partecipare alla soluzione del problema, costui attese e
ricevette doni insperati, dal momento che ogni eventuale sacrificio personale, quand’anche
servisse mai a qualcosa, gli sarebbe stato richiesto in forme indirette e per
così dire subdole, mentre nel resto della sua vita passabilmente miserabile non
lo si sarebbe onerato di particolari coercizioni, tanto da permettere si
cullasse nel sogno del benessere e di succedanee comodità. Nel novero di
codeste, egli poté contare l’allettante occasione di mettere in fila la propria
vanità assieme a tutte le altre, di esprimerla sui più innovativi social networks, in libertà così permutabile
e trasparente da costellare lo spazio virtuale di impliciti consensi all’ordine
impersonale degli stati dell’arte loro, tramite procedure non dissimili a
quelle cui si piegarono con disciplina qualificati uomini di scienza quando dovettero
confessare, ovvero tacere, le proprie cognizioni in merito ad imminenti
catastrofi antropologiche. Non gli furono, inoltre, risparmiati messaggi
pubblicitari volti a finanziare progetti filantropici in paesi colpiti da
desertificazioni o inondazioni, dai quali non senza orgoglio si sentì chiamato
in causa, fiero in fin dei conti di poter elargire di tasca propria quel minimo
obolo che bastasse a calmierare il pungolo della coscienza morale, assai
compunto e quasi trafitto da compassione, abbastanza perché non avvertisse
stimoli sediziosi a rivendicare che prendessero direttamente a cuore la
faccenda le multinazionali da cui lui o qualcuno tra i suoi conoscenti, anche
stimati, ricevette il salario e le quali avevano depredate per decenni le
risorse di quelle terre afflitte, dove i bambini muoiono ancora di fame.
“Il fatto è che in una
società fondata sulla miseria, i prodotti più miserabili hanno la fatale
prerogativa di servire all’uso della maggioranza”[4]
scriveva Karl Marx nel 1847, prendendo a bersaglio ancora una volta
Pierre-Joseph Proudhon, al cui recente Système
des contradictions économiques ou Philosophie de la misère contrappose il
proprio Misère de la philosophie, giusto negli anni nei quali si cominciò a
registrare la temperatura del pianeta e a redigere pionieristiche diagnosi
delle sue febbri climatiche. Se anche maggiori cataclismi non venissero a
suffragare le meglio aggiornate che seguirono da oltre centocinquant’anni a
questa parte – asserzione che chiunque si troverebbe in difficoltà a pronunciare
in termini apodittici malgrado lo si sollecitasse con laute ricompense –,
quelli finora patiti bastano a rivelare l’istinto di morte che sta alla base
della civiltà quale viene tecnicamente organizzata nel sistema oggi in vigore. Perché
sia possibile invertire la china avanti che precipiti fino alle imminenti crisi dove la specie preconizza il
destino dell’estinzione, è necessaria, oggi, una rivoluzione mondiale e
internazionalista. Solo una forza superiore alla violenza di cui il regime si
avvale sarà in grado di rovesciarlo e dare un avvenire reale alle future
generazioni, la forza della poesia che “trasforma il mondo” e “cambia la vita”.
[1]
Lettera di Karl Marx a Johann Baptist Schweitzer del 24 Gennaio 1865,
pubblicata in Der Social-Demokrat,
n.16-17-18 del 1-3 e 5 Febbraio 1865.
[2] Hooey Denier Deniers, Debra Saunders in Real Clear Politics, 24 Giugno 2007.
[3] How dangerous is Global Warming?,
dialogo in Los Angeles Times, 17
Giugno 2001.
[4]
Misère de la philosophie. Réponse à la
philosophie de la misère de M. Proudhon,
C.G. Vogler, Brüssel / A. Frank, Paris, 1847.
Ed. it. in Karl Marx-Friedrich
Engels, Opere VI, a cura
di Fausto Codino, Editori Riuniti, Roma 1973.
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