recensione di
Daniele Luti a Elegia provinciale (Baroni,
2007; Fratini, 2013) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Alleo discovering contemporary cultures
(Giugno 2008)
Tra gennaio e l’aprile di quest’anno ho dovuto
leggere quasi cento romanzi pubblicati tra il gennaio 2006 e il dicembre 2007,
per un premio letterario. Non so se definire l’esperienza sconvolgente o
desolante. L’unica luce pierofrancescana (per intenderci quella che nasce da
ogni particella di colore e sembra respirata da tutto il dipinto) me l’ha
regalata Elegia provinciale, la bellissima opera di Giancarlo Micheli, uno
scrittore, fino ad oggi, per me sconosciuto.
I personaggi, tutti raccontati con una attenzione
dialettica tra il romanzo di tradizione e quello innovativo introdotto dai
rondisti ed ex vociani nel primo Novecento, sono Giacomo Puccini, sua moglie
Elvira, Doria Manfredi, una ragazza al servizio nella villa del Maestro, Torre
del Lago (che è sì il luogo della scena, ma è carezzata e sentita come un corpo
vivo) la sensuale Fosca, figlia di primo letto di Elvira, e Mario Crespi
presentato come uno spiritello viaggiatore quasi sempre sui treni o in
prossimità delle stazioni. La fluida geometria della narrazione ha come centro
la disperazione e, poi, il suicidio di Doria, accusata da un’Elvira, devastata
dalla gelosia e ridotta a pura elettricità istintuale, di essere l’amante di
suo marito e, in seguito, gradualmente emarginata dal paese e abbandonata
persino dalla parrocchia nella persona di un prete impegnato a camminare dentro
se stesso e lungo le strade fangose del luogo, perché perseguitato da due bravi
collocati nella sua coscienza morale.
La cosa, però, davvero innovativa è la tecnica
utilizzata da Micheli per raccontare i fatti. Siamo di fronte a un fenomeno di
anaglittica lessicale, a scelte di finissimo intaglio espressivo: l’autore,
prima, descrive la scena, dando l’impressione al lettore che le vicende non
sarebbero state plausibili se non inserite in quel preciso contesto, quindi,
introduce la sua musica, aprendosi al vento travolgente della poesia e della
creatività totale. Tutta la storia è raccontata attraverso una scrittura
polifonica che non ha niente a che vedere né con la bigiotteria linguaiola, né
con l’esibizione acrobatica propria di quei personaggi che fanno venire in
mente lo sprezzante giudizio di Cocteau sul narcisismo letterario di Flaubert
“sempre con il fucile in spalla, ma incapace di colpire il bersaglio”. Micheli
si è reso conto che il “romanzo è una malattia del linguaggio”, che la capacità
di raccontare si è pietrificata, che la lingua deve tornare a produrre
coinvolgimento e sogno. Da qui il mosaico fatto di descrizioni rapite dove ogni
situazione sembra essere partorita da quella che la precede, dove ogni lemma è
l’eco, l’ombra dell’idea sulla cosa. Da qui i passaggi da un codice all’altro e
l’inserimento nel pentagramma dell’italiano colto, di gioielli che possono
implicare espressioni legate a superlingue classiche (il latino e il greco) o
contemporanee (l’inglese, il tedesco) e al dialetto versiliese.
Daniele
Luti
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