mercoledì 6 dicembre 2017

Atti dei convegni Lincei 292 - Attualità del pensiero di Antonio Gramsci

recensione di Giancarlo Micheli


Il testo rende conto all’oceanica maggioranza di quanti, qualsivoglia siano stati gli specifici impedimenti di ciascuno che in potenza la componga, non poterono assistere al convegno di studi, tenutosi nei giorni del 30 e 31 gennaio 2014 presso la sua sede di palazzo Corsini, che l’Accademia dei Lincei volle dedicare all’attualità del lascito cognitivo di Antonio Gramsci, esibendo purtroppo una duplice lacuna relativa agli interventi pronunciati nella circostanza da Carlo Ossola e Edoardo Vesentini. Non siamo in grado di lumeggiare al semplice lettore curioso, né all’attento e filologicamente consapevole, i motivi di tali espunzioni. Sul corpo storico in cui venne organandosi la società di dotti che, durante il Ventennio, subì un rituale smembramento[1], topico della congiuntura politica, la doppia mutilazione è armonicamente ripartita, giacché l’esimio esegeta di Ungaretti avrebbe discusso di temi pertinenti[2] alla Scuola di Scienze Morali, introdotta nella struttura del sodalizio in forza dei decreti esecutivi di Quintino Sella[3], laddove l’insigne matematico si sarebbe dedicato ad illustrare i rapporti del pensiero del nativo di Ales con le scienze naturali, tema di ovvia competenza della Scuola di Scienze Fisiche, la quale costituì l’unica sezione del benemerito istituto dal 1603, anno della fondazione, fino al 1874. Il pregio indubbio che ne fa consigliare caldamente la lettura è la ricca bibliografia che si può ricavare dai tredici interventi superstiti, dai quali emerge la quasi unanime occorrenza, per quel che riguarda i meriti teoretici riconosciuti all’autore dei Quaderni del carcere, dell’elaborazione del concetto di “rivoluzione passiva”[4], strumento euristico particolarmente congeniale ai nostri tempi, in cui i conflitti sociali sono globalmente amministrati tramite il dosaggio di vaghe cognizioni e manifesto ottenebramento operato dall’industria delle comunicazioni di massa. Il volume riuscirà dunque molto istruttivo a coloro che desiderino farsi un’idea propria delle modalità attraverso le quali le forme del dominio ideologico includono nelle proprie prassi e metodologie le personalità intellettuali alle quali, nella residua autorevolezza del sapere scientifico che caratterizza una civiltà ormai capillarmente estetizzata secondo gli scopi del profitto capitalistico, sia consentita la ribalta della genialità entro i ripetitivi palinsesti di una cultura umanistica che non esca dal circolo vizioso di un’onnipotente disperazione. Così, chi sappia non lasciarsi intimidire dalla cospicua mole di erudizioni specialistiche e ben vigilate fraternità interdisciplinari, potrà far tesoro di un bel saggio di Giuseppe Cacciatore sulla centralità in Gramsci del principio di “filologia vivente” e sugli sviluppi del metodo dialettico che esso ha procurato nei lavori di Edward Said[5], volti alla paideia di una “filosofia della prassi” che sia resa servibile alle esigenze di liberazione del presente, quindi di una sagace interpretazione di Giuseppe Vacca delle peculiarità antideterministiche del marxismo gramsciano, di una perspicua analisi di Giorgio Lunghini[6], la quale, infulcrata sui rapporti tra il recluso di Turi e Piero Sraffa, mette in rilievo le acute intuizioni del primo pure sul terreno tecnico dell’economia politica, nonché dei contributi di matrice storiografica proposti da Alberto Burgio, Giuseppe Galasso e Giuseppe Ricuperati, particolarmente apprezzabile quest’ultimo nel ricapitolare le varie fasi della ricezione dell’opera gramsciana presso la comunità degli specialisti italiani. Dall’apporto di Guido Liguori, e in minor misura oltre che secondo un taglio prettamente sociologico da quello di Arnaldo Bagnasco, si apprenderà poi dell’eco che le riflessioni di Gramsci abbiano avuta su scala planetaria: negli Stati Uniti soprattutto, grazie alla International Gramsci Society, ma anche nel comparto dei subaltern studies, esemplati dalle ricerche condotte in India dal gruppo di storici raccolti attorno a Ranajit Guha. Un discorso a parte meriterebbero il testo di Roberto Antonelli, inteso ad isolare gli aspetti “disinteressatamente” letterari dell’autore sardo, o quello in cui Michele Ciliberto indaga gli atteggiamenti di lui verso la tradizione del pensiero politico umanista (Machiavelli e “l’uomo del Guicciardini”), o ancora la disamina, schizzata da Luciano Canfora, della posizione gramsciana rispetto al parlamentarismo quale emerge dal confronto con quelle di alcuni tra i politologi più significativi a cavallo tra Otto e Novecento. Completano il volume un resoconto sullo stato della nuova edizione critica affidata a Gianni Francioni[7] ed una noterella del giurista Pietro Rescigno sull’esperienza del diritto come si evince dagli scritti della celeberrima vittima del regime carcerario fascista.
Qualora, dunque, sulle graticole della moderna scienza borghese le braci della passione per la verità non siano del tutto spente, soffocate da un estremo investimento postfordista, oggi come ieri, potrà soffiare sul fuoco delle metamorfosi cognitive e fisiche – necessarie per superare la preistoria dell’umanità e per far accedere, con piena tutela di diritto, le donne e gli uomini di questo nostro “mondo grande e terribile” in uno nuovo ed infine abitabile – soltanto chi, per dire con Walter Benjamin, parli avendo alle proprie spalle il vento della Storia.



[1] L’Accademia dei Lincei venne commissariata dal regime nel 1933. In seguito alle Leggi razziali si procedette poi all’epurazione dei membri ebrei. Infine, l’anno successivo, essa fu incorporata all’Accademia d’Italia, dalle cui ceneri poté rinascere solo dopo la Liberazione.
[2] Il programma del convegno, riportato di seguito all’indice del volume, menziona, a conclusione della prima giornata di studi, il titolo dell’intervento di Carlo Ossola, Gramsci e il teatro, il contenuto del quale però non compare nel testo stampato.
[3] Il Regno d’Italia provvide ad una rifondazione dell’Accademia, la quale comportò, appunto, anche l’introduzione della Scuola di Studi Morali.
[4] «In effetti, il nesso tra “rivoluzione passiva” di Vincenzo Cuoco, “rivoluzione-restaurazione del Quinet” e guicciardinismo appare già nel Quaderno 8, quando Gramsci si chiede se questi concetti non possano essere utilizzali per definire le “rivoluzioni dell'uomo del Guicciardini”: per esprimere “il fatto storico dell'assenza di una iniziativa popolare unitaria nello svolgimen­to della storia italiana e l'altro fatto che lo svolgimento si è verificato come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico, elementare, di­sorganico delle masse popolari con ‘restaurazioni’ che hanno accolto una qualche parte delle esigenze dal basso, quindi ‘restaurazioni progressive’ o ‘rivoluzioni-restaurazioni’ o anche ‘rivoluzioni passive’”. Appunto: “rivolu­zioni dell'uomo del Guicciardini”, come quella di Cavour, il quale “avrebbe appunto ‘diplomatizzato’ la rivoluzione dell’‘Uomo del Guicciardini’”. Del resto, come specifica subito dopo, Cavour stesso “si avvicinava come tipo al Guicciardini”». Michele Ciliberto, Gramsci e Guicciardini. Per una interpretazione “figurale” dei Quaderni del carcere, in Atti dei convegni Lincei 292 - Attualità del pensiero di Antonio Gramsci, Roma, Bardi, 2016, p. 74. Oltre a Ciliberto, affrontano l’argomento in maniera esplicita Burgio (Giudizi analogici e comparatistica storica nei Quaderni del carcere, in Id., p. 78 e p. 93), Canfora (La riflessione gramsciana sul parlamentarismo tra Otto e Novecento, in Id., p. 111-2 e p. 115), Vacca (Materialismo storico e filosofia della praxis, in Id., p. 142-3), Antonelli (Antonio Gramsci: letteratura e vita nazionale, in Id., p. 157-8), Ricuperati (Gramsci e gli storici, in Id., p. 174 e p. 190) e Bagnasco (Gramsci e la sociologia, in Id., p. 237).

[5] «La pratica umanistica insomma, scrive Said, è una “pratica di di­sturbo”. L'umanista, per usare una formula gramsciana che studiava e analizzava lo stile e il compito del grande intellettuale, “deve tuffarsi nella vita pratica” e mantenere aperte le tensioni tra il piano esteti­co e il piano politico (soprattutto quando questo è dominato da ideologie nazionalistico-identitarie), servendosi del primo per mettere in discussio­ne, riesaminare e resistere al secondo. Non è dunque né una forzatura interpretativa né un “fuori luogo” ideologico, restar convinti che si pos­sa dare un significato e una funzione di critica democratica alla filologia che resta, è bene non dimenticarlo, non solo metodo e tecnica di lettura dei testi, ma anche e fondamentalmente un sapere storico-prospettico.» Giuseppe Vacca, Materialismo storico e filosofia della praxis, in Id., p. 55.
[6] «Lo sviluppo delle forze produttive materiali è uno sviluppo necessario e progressivo; tuttavia il tipo umano formato dallo sviluppo capitalistico delle forze produttive è la negazione di tutto quanto di grande, elevato e signifi­cativo è stato prodotto finora dall'evoluzione dell'umanità. Questa connes­sione inseparabilmente contraddittoria del progresso con una degradazione dell'umanità, questo ottenere il progresso al prezzo di questa umiliazione, è il nocciolo reale della hegeliana “tragedia nell'etico”.» Giorgio Lunghini, Gramsci critico dell’economia politica, in Id., p. 217.
[7] Il piano dell’opera prevede una suddivisione in tre sezioni: Scritti 1910-1926 (7 voll., il secondo dei quali è stato pubblicato nel 2007), Quaderni del carcere 1929-1935 (in 3 voll.: Quaderni di traduzioni , Quaderni miscellaneiQuaderni speciali, dei quali è stato pubblicato il primo nel 2007), Epistolario 1906-1937 (9 voll., dei quali sono stati pubblicati i primi due, rispettivamente nel 2009 e nel 2011). L’editore è l’Istituto dell’Enciclopedia italiana.

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