un saggio di Giancarlo Micheli
e nel volume Envoi Gramsci (Campanotto, Udine, 2017) a cura di Neil Novello
Scrivere
dell’epistolario gramsciano adesca a ricomporre – tramite le vicende di vita
che furono il materiale diegetico del vasto corpus
soggiaciuto, nelle stratigrafie filologiche, a numerose collazioni ed a qualche
espunzione – una più generale biografia della nazione, che ambisca a fondamenti
narratologici di migliori coerenza e completezza rispetto a quelle nei cui
termini Piero Gobetti consegnò, con pur euristica lucidità, una descrizione
oramai classica del complesso storico del fascismo, il quale d’altronde ha
perseverato a proiettare la propria ombra peculiare, con buona pace del vigente
regime globale, sulla società italiana, ben oltre la caduta del Ventennio e
fino ai giorni nostri.
Nel novembre del 1926
Gramsci venne arrestato e recluso, in isolamento assoluto, nel carcere di
Regina Coeli, sotto l’accusa di tessere trame antipatriottiche in quanto membro
della Terza Internazionale. Si era nell’anno in cui il regime mussoliniano
compì una svolta decisa in senso repressivo, fatto che ha autorizzato alcuni
analisti a suffragare l’interpretazione in base alla quale una prima fase del
governo fascista non possedesse i caratteri tipici del totalitarismo, indice di
una certa persistente recalcitranza a scrollarne le polveri autoritarie dalle
circonvoluzioni cerebrali e dai vezzi della patria psicologia, segnale di un
atteggiamento che, pur volendosi astenere da soverchia malizia critica,
parrebbe quasi corroborare la tesi secondo cui un’aristotelica temperanza delle
libertà democratiche non sia in fondo un male[1]. È in ogni epoca
preferibile a chi detiene il potere aiutare il popolo bisognoso ad assolvere il
proprio nocivo o inutile passaggio terreno, piuttosto che consentire che esso
appronti gli strumenti attraverso i quali creare le figure immanenti della
propria autocoscienza.
Negli anni in cui alcuni presentivano la
crisi di Wall Street mentre altri ne procuravano i presupposti, gli atti della
comunicazione, per mezzo dei quali la conoscenza, umanistica o scientifica, è
assurta nel frattempo al ruolo di ancella della sovrana dialettica del dominio
sulle risorse cognitive e naturali, avvenivano in qualche modo alla luce del
sole, soprattutto se paragonati all’irretimento nelle nebbie narcotiche
sprigionate delle ciminiere ideologiche del presente, emananti cortine
pseudoplotiniane in molteplici livelli sovrapposti, simili agli epiteli di una
cipolla, cosicché allo sfogliarli uno ad uno, secondo metodi induttivi o deduttivi,
si producano gli effetti del pianto, e così adiabatici al calore dei sentimenti
reali quanto le emozioni di un manager
o di un advisor delle multinazionali
sono separate da quelle di un bracciante delle monoculture intensive. Oggi,
alle soglie del quarto lustro del millennio, le durezze fisiche della
detenzione carceraria, assieme a tutta la mitizzazione di esse che ne è passata
alle coscienze – si pensi in un eteroclito arco costituzionale che va da Sade a
Blanqui, da Nievo a Pertini –, esprimono un arcaismo nel linguaggio del potere,
tale da evocare regressioni, più comunemente ascritte alla temperie medioevale
ma per le quali un’analisi dettagliata consentirebbe di rinvenire recrudescenze
finanche atavistiche. La misura contemporanea della coercizione sta in una ben
affinata e più efficace censura dei messaggi a livello connettivo, giacché il
sistema di virtuale permutabilità assoluta dei valori semantici e semiologici
annulla i luoghi del senso, assorbendo ogni scarto, cui l’esistenza si
appiccichi a guisa di etichetta – taggare –, nella falsa narrativa o propaganda
di regime. Il profilo sottotraccia, rispetto agli abusi emotivi che il “discorso
del padrone” dispensa all’ecumene degli animales
laborantes e dei sata insumentia,
infarinati con spolveri di teologie messianiche o apocalittiche, sfornati al
giusto grado di cottura per la consumazione in carneficine sufficienti a trarre
esiziali plusprofitti nel corso della fase suprema della loro caduta
tendenziale – i tassi d’interesse pagati dalla Federal Reserve sono prossimi
allo zero sin dall’inizio dell’attuale crisi economica, epifenomeno di una più
profonda, antropologica e biosistemica, a titolo di dichiarazione fallimentare
del modo di produzione capitalistico, quale emerge persino spudoratamente nella
fabula della grande impresa
universalista di rimediare alle nocività e agli sconvolgimenti climatici, nuove
colonne d’Ercole apparse all’orizzonte dell’oceano di lacrime, menzogne e
cataboliti che viene svenduto alle future generazioni, sopra le quali vadano a
crollare come su una nuova miriade di filistei affinché sia rivelata, alla fine
dei tempi, l’identità del colpevole –, il basso profilo riservato
all’intellettuale nella contemporanea e mediatica selva oscura consente che
assai di rado si sia costretti a braccarlo tra pruni e sterpi con metodi
primitivi, segregarlo o anche semplicemente farne una vittima da immolare al
gusto artificioso degli appassionati di cronache giudiziarie. [...]
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[1] Scrive Ernesto
Ragionieri in Storia d’Italia,
Einaudi, Torino 1976 (IV, p. 2121-2): “Giustino Fortunato, che vide nel fascismo
una “rivelazione” delle ataviche tare della società italiana, parlò nel giorno
della marcia su Roma della ʻfine della borghesiaʼ. Ma fu proprio Benedetto
Croce, ad ammonirlo, secondo la logica di un marxismo ad uso delle classi
dominanti, che ʻla violenza è la levatrice della storiaʼ”. Cfr. Giorgio
Amendola, La “continuità” dello Stato ed
i limiti storici dell’antifascismo italiano, in “Critica marxista”,
Quaderno n.7, Roma 1974.
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