recensione di Sergio Dalla Val
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017)
pubblicata in Literary
(n.11, 2017)
Alla
conclusione della lettura di Romanzo per
la mano sinistra, mi sono reso conto che era forse dai tempi in cui mi
cimentai con le pagine di Thomas Mann che non m’impegnavo, non m’incuriosivo,
non combattevo con un testo letterario come mi è accaduto in questo caso. In
effetti, ricercando meglio nella memoria, la stessa impressione la ricevetti da
un grande della letteratura italiana, non a caso ignorato dal sistema
mediatico, Francesco Saba Sardi. Come in Orellana,
Dottor sottile, Gonçalvo o la menzogna, nel Romanzo
per la mano sinistra ho sentito emergere una cultura straordinaria, una
scrittura impareggiabile, la capacità di attraversare la storia, la politica e
le ideologie in modo penetrante, attraverso la forma del romanzo. Del resto,
sia nel caso di Saba Sardi che di Micheli, richiamarsi al genere classico del
romanzo è limitante: c’è sì una trama – il protagonista, Stefan Bauer, psichiatra
moravo, che ha fatto una tranche di
analisi con Ferenczi ed incontra Adele Ascarelli, studiosa d’arte napoletana,
proveniente da una ricca famiglia di ebrei tessitori; l’amore che sboccia tra i
due nei giorni in cui la guerra si va annunciando; il figlio, frutto della loro
passione, Bruno, il quale nascerà a conflitto ormai iniziato e, soprattutto, a
peregrinazione iniziata, poiché, alle prime ostilità antisemite, la famiglia si
vede costretta alla propria personalissima diaspora: in Ucraina, dove Stefan
lavora per l’intelligence sovietica, per poi divenire ufficiale medico tedesco
tra Berlino e la Parigi occupata, ed ancora infiltrato nella flotta inglese ad
Alessandria d’Egitto, nel tentativo di difendere i suoi affetti e la sua
tradizione in mezzo all’immenso guazzabuglio che è la vita politica, culturale
e sociale europea, prima e durante la guerra –, ma c’è soprattutto, dunque, lo
scenario. L’autore ci racconta l’ascesa del fascismo, del nazismo, le vicende
belliche, gli interventi contrapposti dei vari servizi segreti; ciò che però
supera la forma classica della narrazione consiste nella traversata di due
aspetti fondamentali della storia del Novecento: quella delle istanze culturali
dell’epoca e, segnatamente, della psicoanalisi. Se storia privata e storia del
pianeta s’intrecciano, lo fanno anche perché non sono tanto i fatti a parlare,
quanto piuttosto i loro riflessi nei vissuti dei protagonisti, siano essi
volgari, arroganti o prepotenti come i vari gerarchi tedeschi – Heydrich,
Göring, Himmler, ciascuno in cerca del suo spazio o dei suoi piaceri –, siano i
corrispettivi italiani – i Ciano, Vittorio Mussolini, Pavolini –, ma siano
anche gli esponenti dell’arte o del cinema, tra i quali gli autori dei film dei
cosiddetti “telefoni bianchi” come pure i più engagées. Si ritrova, pertanto, anche il racconto della nascita
della Mostra cinematografica di Venezia, le sue collusioni con il regime, le
banche e Confindustria. In un capitolo ambientato proprio sul Lido di Venezia,
si assiste, ad esempio, ad un colloquio tra Jacques Prévert, Michel Carné, Jean
Renoir e Leni Riefenstahl, durante il quale i personaggi citano Bataille nel
dibattere questioni di estetica e temi d’attualità, cosicché – e questo è
l’elemento di eccezionalità – si avverte che tutta la situazione politica ed
economica non può essere compresa se non si tiene conto di tali aspetti, delle
prese di posizione, asservite ovvero dissidenti al potere, che caratterizzano
la scienza e l’arte del periodo. Toccante e tragico è infatti il racconto delle
sperimentazioni condotte nei campi di concentramento, ed il lettore può
cogliere a pieno il senso di tali atrocità grazie alla spiegazione, che gli
viene fatta, delle correnti filosofiche reazionarie, di Nietzsche o di quei
teorici che Galli qualificherebbe nel campo del “nazismo magico”, l’armanismo o
l’ariosofia, poteri o saperi più o meno occulti che lavorano sottotraccia la
storia ufficiale. Di queste molteplici trame il protagonista si trova orecchiante,
partecipe o, in qualche circostanza, perfino travolto, all’interno di una
composizione grandiosa. Si è così messi davanti a simultaneità di eventi che
risultano significative: in un medesimo capitolo apprendiamo delle riunioni in
cui si decidono i destini della Polonia e di ciò che avviene, intanto, tra i
cineasti e le loro troupes; oppure,
la ribellione della val d’Ossola e i contemporanei incontri tra Churchill e
Stalin, o quelli tra il ragionier Cuccia ed altri giovani intraprendenti che
già si preparano a spartirsi l’Italia che deve ancor venire. Non vengono
neppure sottaciute le lunghe fasi di preparazione alla costruzione della bomba
atomica, con vivide e sorprendenti disamine che hanno per protagonisti
Oppenheimer, Fermi o von Neumann. In ciò Micheli miscela con maestria una
paziente ricerca documentale (ed in alcuni casi produce materiali davvero di
grande interesse e finora tenuti in sordina) all’invenzione letteraria, la
quale, del resto, non stona ed anzi aggiunge valore cognitivo al testo; ne
riesce uno spaccato che illustra in profondità un momento determinante per il
resto del Novecento, tant’è che se ne seguono gli sviluppi e le conseguenze
durante il dopoguerra, il ruolo svolto in quel frangente dal Partito Comunista,
i suoi rapporti con il movimento operaista e gli sforzi di ricondurlo nell’alveo
della legalità democratica, tramite un affresco, non meno particolareggiato di
quello in cui venivano con ironia sublime denunciate le aberrazioni
nazifasciste, dove compaiono stavolta Mario Capanna, Toni Negri, i redattori di
“Quaderni rossi”. Ma dicevo che la categoria del romanzo è limitante anche
perché più che queste vicende personali e collettive, tipiche del romanzo, la
protagonista di queste pagine è la scrittura, la scrittura della ricerca, che,
senza giungere alle sperimentazioni dell’avanguardia, è intessuta da una
sintassi e da una frastica che va oltre i limiti della grammatica, e, pur
mantenendo l’eleganza della lingua italiana (Micheli, toscano di Viareggio, non
ha bisogno di andare sull’Arno per lavare i panni sporchi), si avvale della
ricchezza di una retorica straordinaria, perché non ordinaria. Gli ossimori, le
metafore, le metonimie, fino alle catacresi, non sono esercizi di stile, staccano
le vicende dal realismo del fatto per giungere alla fabula, che indica che il racconto è trama e tessuto di scrittura
di sogno e dimenticanza, non di fatti.
La
psicoanalisi viene toccata e coinvolta principalmente per via delle vicende di
Marie Bonaparte, cofondatrice della Société Psychanalytique de Paris e moglie
di Giorgio di Grecia, cogliendone perciò i legami con le vicissitudini che
travagliarono la penisola ellenica anche e soprattutto dopo la stipulazione dei
trattati di Yalta. A completamento del suo ciclo di studi all’Università di
Vienna, Stefan Bauer era stato autore di una tesi sulla psicopatologia del
potere, sottoposta all’esame persino di Sigmund Freud, un testo che però
sarebbe finito poi nelle mani sbagliate: Freud lo legge e lo loda, ma lo passa
a Jones, mentre invece Stefan crederà di poterne seguire le tracce fino a Marie
Bonaparte. Si tratta di un esempio tipico del modo in cui si articola la
presenza del protagonista, affinché egli appaia come la guida del lettore
all’interno delle stanze del potere, là dove Hitler se la prende con
l’infingardaggine dei suoi generali o Mussolini si sente ora potentissimo, ora
tradito. Con una fine tecnica narrativa, che include la funzione dello
straniamento (più freudiano - das
unheimliche – che brechtiano) e alla quale Micheli ricorre in numerosi
passi, espone gli eventi senza esplicitare le identità di chi vi partecipa, le
quali vengono svelate solo alla fine del dialogo o del capitolo, a mostrare
come non siano i soggetti a tirare le file degli eventi storici, bensì la trama
di quelli ad impigliarli secondo il caso, la necessità e le situazioni. Tale
tecnica raggiunge il suo apogeo, e pertanto un’ulteriore evoluzione,
nell’episodio in cui Bruno Bauer visiterà la riunione dei redattori di
“Quaderni rossi”: qua i personaggi da lui incontrati non verranno qualificati
che attraverso i loro nomi di battesimo, sebbene il lettore avveduto sarà
senz’altro in grado di riconoscerli, ma in maniera più autonoma e significante
di quella filtrata dagli schemi del consumo culturale.
Concludo
con alcune considerazioni sul titolo dell’opera, nel quale convergono non pochi
degli interrogativi che essa pone. Senza dubbio, esso richiama le vicende
politiche, quanto alle quali, se un’ironia tragica connota sempre le fazioni
reazionarie, pure la sinistra non è risparmiata, ad esempio nella fallace
bonomia con la quale Concetto Marchesi avvia i protagonisti a cercare rifugio
in Ucraina, laddove proprio da lì cominceranno le loro dure tribolazioni;
nondimeno, ritengo di poterlo interpretare anche sullo spunto offerto da un
altro episodio, in cui Stefan e Ada visitano, nel corso del soggiorno a Padova,
la loggia dei Carraresi e vi vedono un dipinto di Guariento di Arpo,
contemporaneo di Giotto nato a Piove di Sacco, dove è raffigurato l’Arcangelo
Gabriele che, mentre con la mano destra infilza il demonio, una specie di
piccolo animaletto intento a ghermire l’anima di un uomo, con la sinistra tiene
una bilancia, la bilancia della psicostasia, quella che dalle concezioni
teologiche del tribunale di Osiride, attraverso il pensiero greco e
l’iconografia cristiana, è divenuta per noi la bilancia della giustizia. In un
mondo sconvolto dall’odio, dalla ferocia, dalla volgarità, da qualsiasi forma
di bassezza, in cui conta solo sopravvivere, esiste pur tuttavia qualcuno che
porta avanti istanze di giustizia e nutre questo anelito verso l’umanità
futura. Ma forse anche questa speranza è ironia.
Sergio
Dalla Val
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