recensione di Gabriella Valera Gruber
a Romanzo per la mano sinistra (Manni,
Lecce, 2017)
pubblicata in “Il Ponte rosso” (n.27, settembre 2017)
«A coloro che
parleranno lingue non ancora conosciute».
È la dedica in
epigrafe a Romanzo per la mano sinistra di Giancarlo Micheli. Il lettore
che ha seguito Micheli fra prosa, poesia e saggistica si è ormai abituato alle
sue straordinarie visioni che abbracciano il mondo e percorrono diversi
continenti; ai vasti scenari in cui si rappresentano storie coerentemente
focalizzate su alcuni personaggi che emergono dallo sfondo di un’umanità
molteplice e in movimento: quasi un contrappunto fra la presenza e l’anonimato.
Storie in cui il
tempo della Storia si dilata in un futuro che è rigenerazione perenne.
Recita il prologo di
Il fine del mondo (Giuliano Landolfi Editore, 2016):
Mentre il momento a
lungo presagito si compiva nel regno del visibile dinanzi alla spiaggia di
Aiyetoro, pochi chilometri a nord del delta del Niger, i pensieri di Mark e
Sophie si componevano in univoca armonia
di percezioni e
formulavano all’unisono una medesima domanda: Chi sono io?” “Io sono colui che
sarà”[1].
E un vichiano
ritorno alle origini della specie ravviva desiderio di puro amore, «l’alba
dell’umanità».
Nella raccolta di
versi La quarta glaciazione (Campanotto, 2012) Micheli elaborava l’idea
che l’umanità non abbia ancora attraversato tutti i suoi stadi di
trasformazione; la metafora di una nuova èra glaciale annunciava quindi la
mutazione da cui potrà sorgere la vera umanità.
Tutta l’opera di
Micheli si accende di queste visioni: convinzione, modo di costruire il
paesaggio che ci sta di fronte, lungo un cammino che, pur passando attraverso
la storia, le sofferenze, le degenerazioni della specie, prosegue fino
al luogo che le sarà idoneo, fino alla umanità nuova.
In Romanzo per la
mano sinistra il grande sfondo è l’Europa contemporanea. La lingua è
complessa, talvolta ‘cercata’ come si cerca una verità, sempre capace di farsi
strumento e sostanza di conoscenza, dal momento che, senza nominarle, non
possiamo conoscere le cose, le persone, le intime sfumature dell’essere. Voci e
registri diversi adeguano il timbro linguistico ai personaggi che vivono le
mutazioni antropologiche in atto durante le fasi di passaggio della storia. Né
mancano inflessioni dialettali o lessici tecnici e specialistici, quando
necessari. Questo impegna il lettore all’immersione nei contesti che abitano lo
scenario. I romanzi di Micheli quasi intimidiscono dapprincipio per la
ricchezza di cultura contenuta nelle loro pagine, ma si è poi attratti nella
complessità dei mondi rappresentati e se ne diviene compartecipi.
Romanzo per la mano
sinistra è
un’opera dalla mole evidente che l’autore ha spiegato aver richiesto almeno sei
anni di impegno per la documentazione e la stesura. Ogni capitolo è introdotto
con un titolo scelto da una raccolta di proverbi che Giuseppe Giusti dette alle
stampe a metà dell’Ottocento, agli albori quindi delle ricerche storiche sulle
origini vive della lingua. Ne risulta una struttura che può essere letta anche
come una serie di commenti, per contrasto o per analogia, a ciascun detto
popolare. Fin dal titolo viene denotata una posizione fondamentale di
significato politico: se le prassi politiche di destra conducono, come l’opera
dimostra con studiosa serietà, alla catastrofe, il romanzo prende decisamente
la via complementare, senza per questo aderire necessariamente alle scelte con
cui le sinistre hanno risposto o sono tuttora inclini a controbattere.
La vicenda abbraccia
gli eventi storici novecenteschi dal periodo tra le due guerre alle lotte
studentesche degli anni Sessanta e Settanta, in virtù dell’artificio delle
lettere che il protagonista, il medico psichiatra Stefan Bauer, scrive al
figlio Bruno, esponendovi le tribolazioni che coinvolgono lui e la madre, Adele
Ascarelli, nella realtà del nazismo, del fascismo e del comunismo: entrambi
ebrei erano destinati alla fine nei campi di sterminio.
Nella forma
epistolare viene veicolata, tra le generazioni, l’esperienza dell’oltraggio e
delle persecuzioni patite.
Non si saprebbe dire
se, come anche è stato scritto, vi sia in questo romanzo un afflato epico.
Troppo ‘contemporaneo’ il suo snodarsi tra momenti lirici e registrazione quasi
asettica, da osservatore che narra (la voce narrante che regge il romanzo
sostenuta e quasi sostituita dal momento unificatore dell’attenta
osservazione), per ascrivere il romanzo di Micheli a una forma letteraria
chiaramente definita.
La straordinaria
ampiezza di prospettive impegna a una lettura non ingenua: il racconto
intreccia le vicende di figure della politica, della cultura, della
psicoanalisi, del cinema, dell’arte figurativa, esponenti della vecchia nobiltà
e religiosi, una foltissima compagine di personaggi storicamente reali, i quali
però finiscono per comporre, loro, lo scenario fittizio, mentre i personaggi
d’invenzione, i due protagonisti ed il loro figlio, oltre ad alcuni altri
minori, sono quelli effettivamente reali, che cercano di sfuggire alla rovina.
Storia e vite: la trama si fa trascinante, si viene emotivamente coinvolti
dalla sorte dei protagonisti e dalle minacce che li sovrastano.
In una pagina
toccante Stefan Bauer assiste al primo esperimento con il monossido di carbonio
per la soppressione delle lebensunwerte Leben, le «vite inadatte alla vita»,
secondo la terminologia invalsa tra i medici del Reich, che l’autore cita con
rigore filologico.
Sotto il regime
nazista la ritualità delle celebrazioni veniva pedissequamente osservata nelle
circostanze delle peggiori atrocità, le quali apparivano, cionondimeno,
autentiche conquiste di civiltà. Tutto ciò Micheli lo narra senza ostentato
sdegno, in un tono pacato ed incisivo, di miglior efficacia nell’avvicinare il
lettore ad una reale comprensione di quegli abomini di quanto non sarebbe stato
ogni pathos tragico.
Quello stesso
lettore era entrato nella storia attraverso una pagina di grande poesia. È la
prima lettera di Bruno al figlio:
Nella primavera del
1937 passai le vacanze nel salisburghese ed ebbi modo di fare un’escursione fin
lassù, nei pelaghi dell’aria in cui la roccia però affiorava ancora del tutto
nuda, intatta dall’opera umana, dove lo spettacolo del volo delle aquile si
offre in circostanze davvero maestose e impressionanti, soprattutto nelle
giornate limpide, quando una luce tersa e cristallina incide quasi un’aura
risplendente attorno alle ali e alle piume dei fieri animali; sui loro contorni
ritagliati nell’azzurro apre come una fulgida ferita, tanto che si sia vinti da
un orrore intimo e vertiginoso se l’empio occhio della bestia brilla, per un
istante, nel tremore del tuo; in un attimo incommensurabile si contempla la
sofferenza che dalla sua glaciale pupilla è rigettata su ciò che è altro da sé,
annientata, soppressa ben prima che un istinto indifferente e predatorio
l’abbia concepita.[2]
Può apparire strano
che, a fronte di una storia terribile, piena dell’insipiente ironia di vite
perverse tronfie e ingannate, il senso della sintesi tragica si avverta qui, in
una pagina introduttiva in cui non c’è la Storia, ma l’infrangersi dei raggi
del sole, esplosi dalla fotosfera, e l’incommensurabile sofferenza di
occhi umani e animali che si incontrano tremando.
Il respiro epico
della natura incontaminata è premonizione, istinto predatorio e fulgida ferita:
prima di ogni concepimento, visione di un fine che
vorrebbe dirsi Giustizia, ma è controverso da indicibili complicati concepimenti,
laddove, recita il titoletto dell’ultimo capitolo, “chi è giusto non può
dubitare”.
E non si sa, nel
contrappunto fra titolo e testo, se l’Autore creda che la Giustizia, come la
Verità, siano lingua possibile in qualche futuro del mondo o la speranza, per
trovare la via della giustizia, debba farsi dubbio.
Gabriella Valera
Gruber
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