un articolo di Giancarlo Micheli
pubblicato in Il GrandeVetro (Anno XLII, n.235, primavera 2018)
Sottoporre
all’esercizio della critica l’uomo, “nel cui cervello risiede il sapere
accumulato dalla società”, non è mai caso per una semplice esercitazione
accademica. Per esplicita e sincera dichiarazione del suo autore, non lo fu
nemmeno l’iniziativa di dare alle stampe, nel 1978, per i tipi dell’audace
Pantheon Books (brand dotato di editorial independence all’interno del gruppo
di appartenenza, facente allora capo alla General Electric ed oggi al colosso
germanico-multinazionale Bertelsmann), un voluminoso saggio – dove la
ponderosità stette, per una volta, in rapporto di proporzionalità diretta con
il valore delle argomentazioni che vi furono sviluppate, pure in virtù della
circostanza, vivaddio fausta, per cui fosse allora solo agli albori la retorica
dell’insipida contractio orationis invalsa poi a seguito dell’ecumenica
codifica in ottemperanza ai formati della socializzazione virtuale dei mezzi di
produzione segnica – dall’asciutto titolo Orientalism
(E. Said, Orientalismo. L’immagine
europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 1999). L’autore, Edward Wadie
Said, nacque nel 1935 a Gerusalemme, annessa allora al territorio del Mandato
britannico di Palestina, e grazie agli uffici del padre, veterano dello U.S.
Army, poté accedere alla cittadinanza americana, nonché ricevere un’educazione
nei collegi britannici della città santa per le tre principali religioni
monoteistiche, oltre che del Cairo e di Alessandria d’Egitto, prima di
trasferirsi oltreoceano ove conseguì il Bachelor of Arts a Princeton ed i
titoli di Master of Arts e Doctor of Philosophy ad Harvard. Di tale formazione
cosmopolita il trattato del 1978 reca tracce orgogliose, se è vero che,
nell’esaustiva mole dei materiali di cui si avvalse, Said volle inserire con
particolare affetto una citazione che colui il quale egli stimò alla stregua di
un maestro, lo storico della letteratura Erich Auerbach, aveva tratto da Ugo di
San Vittore, beato della Chiesa cattolica oltre che eminente tra i fondatori
della scolastica: “L’uomo che trova dolce il suolo natale è ancora un tenero
principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte;
ma perfetto è quello per cui l’intero mondo è un paese straniero”. Il libro si
pose ed attinse lo scopo, a lungo meditato nel corso dell’esperienza vissuta,
di mostrare come la disciplina degli studi orientalistici, all’interno della
divisione del sapere cristallizzatasi in Occidente, fosse intrisa dei
pregiudizi peculiari alla civiltà da cui emerse, servisse, in ultima istanza,
al processo di individuazione della soggettività enunciante, senza lesinare il
ricorso ai meccanismi proiettivi delle intestine paura e ripugnanza dinanzi
all’alterità del Medio Oriente islamico – continente di remoti prodigi e
misteri, per molti secoli sineddoche tramite cui definire l’intero mondo estraneo
all’Occidente, tanto l’India dei Veda quanto la Cina del taoismo –, in origine
sede astratta ed ideale per rimuovervi gli istinti aggressivi e
autodistruttivi, gradualmente anche serbatoio da cui reintegrare le energie
necessarie a sostenere i successivi conati espansionisti. Quindi, se nel
medioevo cristiano l’Alighieri dannava Maometto agli inferi con la subalterna
pena spettante agli eretici della vera religione, la spedizione napoleonica in
Egitto doveva prevedere, aggregata agli ausiliari delle truppe conquistatrici,
la compagine di un fior fior di letterati e uomini di scienza affinché
compilassero la monumentale Description
de l’Égypte, regesto enciclopedico delle nozioni che solo l’Occidente,
tonico adesso di cavalli vapore e già scalpitante di circoncidere l’istmo che
dal miocene unì l’Africa all’Asia, poteva fornire al fiacco e passivo Oriente,
inetto a procurarsele in autonomia. La parabola dell’iperfetazione di questo
ambivalente senso di superiorità viene indagata nel dettaglio degli specialisti
anglosassoni, sovente funzionari delle nascenti istituzioni accademiche o
governative di studi asiatici quali Sir William Jones, talora avventurieri
individualisti come T.E. Lawrence o eruditi dilettanti come Edward William
Lane, ovvero statisti come Lord Cromer o l’Arthur Balfour onomastico della
celebre Dichiarazione; non è certo trascurata la scuola francese, da Silvestre
de Sacy a Louis Massignon attraverso Chateaubriand e Lamartine, tra i cui
esponenti si rintracciano le scaturigini del razzismo contemporaneo in Gobineau
e nel pur valente Renan, né le minori né le ulteriori sulle quali venne poi a
dominare la statunitense, neppure le varie tipologie d’approccio, dagli estrosi
creativi, alla Nerval o alla Twain, agli ossequienti compilatori di una
dottrina metafisica a antistoricistica, alla Bernard Lewis. Lo stile, benché
attento a rimanere nel solco del canone filologico a guisa di adeguato veicolo
verso la mèta di un meglio effettivo universalismo, azzarda incursioni nel
registro di un sarcasmo militante, ad esempio quando reperta gli atti di
convegni o gli articoli di prestigiose riviste sotto la perniciosa
amministrazione di Nixon e Kissinger, dove vari specialisti sviscerano che, laddove
i procedimenti di pensiero della mente umana possono essere ricondotti ad otto
tipi, l’islamica ne conoscerebbe soltanto quattro, oppure che l’eccessiva
propensione alla retorica e alla prolissità della lingua araba renderebbe i
popoli che la parlano incapaci di una completa funzionalità psichica, fatto che
troverebbe riscontro nei disordini sessuali cui vanno soggetti i membri di
quella regressiva etnia; e ancora quando riferisce delle autorevoli analisi di
P.J. Vatikiotis in merito ai moti rivoluzionari sorgenti allora nel mondo
arabo, pietra dello scandalo per l’ortodossia orientalista, tanto da esigere il
ricorso ai mezzi ermeneutici caratteristici alle diagnosi dei disturbi della
personalità e dello sviluppo psicosessuale: «La politica, per il rivoluzionario,
[…] deve cessare di essere ciò che era sempre stata, cioè un’attività adattiva,
nel tempo, finalizzata alla sopravvivenza. La politica soteriologica,
metastatizzante, detesta adattarsi, perché come potrebbe altrimenti aggirare le
difficoltà, ignorare e scavalcare gli ostacoli costituiti dalla complessa
dimensione biopsicologica dell’uomo, mesmerizzare la sua razionalità
penetrante, ancorché fragile e limitata?».
E tali tesi non poco
stupefacenti il già ricordato Bernard Lewis si sentì in dovere di suffragare
con sottili competenze etimologiche: «Nei paesi di lingua araba una differente
parola era in uso per designare la rivoluzione: thawra. La radice th-w-r in
arabo classico significava alzarsi (ad esempio di un cammello), eccitarsi o
emozionarsi e quindi, soprattutto nell’uso maghribi, ribellarsi».
Vent’anni dopo la prima
pubblicazione, allorché Said, nella circostanza offerta dalla nuova edizione,
esaminò, attraverso le intercorse traduzioni in numerose lingue, il contributo
dato dall’opera alle pionieristiche prospettive multiculturali che, nell’ambito
dei nascenti Subaltern Studies, tentarono di osteggiare il blocco ideologico
globalista, egli concluse che «l’“essenza” dell’islam o dell’Oriente non siano
niente di più che immagini, tenute in vita sia dalla comunità dei fedeli
musulmani sia (e la corrispondenza è significativa) dalla comunità degli
orientalisti», così da evocar quasi una sorta di nemesi profetica, compiutasi
poi nei recenti episodi che registrarono la tempestiva repressione delle lotte
sociali e politiche delle cosiddette “primavere arabe” mentre le macchine
dell’ingerenza imperialista, di nuovo plurivoche sotto mentite spoglie
liberaldemocratiche, stringevano sul collo dei popoli i nodi scorsoi di
criminose alleanze con le fazioni fondamentaliste o variamente autoritarie, riprodotti
ormai in mediatico regime di trasparenza. A chi ancora sappia e voglia
scegliere la propria parte nel tragico teatro della realtà è rimesso dunque,
una volta ancora, il gioco a carte scoperte della solidarietà
internazionalista, propedeutico alla vera libertà dei cuori e delle menti
infine umane.
Giancarlo Micheli
Nessun commento:
Posta un commento