una recensione di Mimmo Grasso a
Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli
pubblicata
in “Tempo d’analisi. Paradigmi junghiani comparati” (Anno VII, n.8, 2018)
Le valutazioni che seguono sono quelle di
un lettore che, finalmente, non è capitato in un romanzo in cui si leggono
amenità del tipo “si alzò dalla sedia sulla quale stava seduto ed andò ad
aprire la porta che stava chiusa” né è un libro destinato a durare un tre mesi,
il tempo di far ruotare il magazzino della casa editrice. È, invece, un lavoro che
metteremo in bell’ordine nello scaffale, tra Manzoni e Balzac o “La Repubblica”
di Platone e il “De umbris idearum” di Bruno.
Romanzo per la mano sinistra, altresì, per
profondità d’analisi - che talvolta provoca apnee nel lettore - si distacca
nettamente da altri di argomento analogo al punto da raggiungere l’esemplarità,
direi antropologica, dell’umano. I fatti narrati possono, vichianamente,
riferirsi a qualsiasi periodo storico, compreso il nostro. Ad esempio, a Bruno, uno dei protagonisti,
càpita da bambino di trasferire nel mondo in cui vive i modelli dell’Iliade,
narratagli da una anziana signora che ospita la sua famiglia.
Micheli è agito dal bisogno di verità e la
verità, dicono i patafisici, è la più immaginaria delle soluzioni. I due esergo
del volume dichiarano, il primo, il bisogno di esprimersi in lingue non ancora conosciute
(“non ancora conosciute”, non: “sconosciute”, si sa che esistono ma non si sa
dove siano né chi le parlerà); il secondo cita Marx e la sua definizione di
libertà come abbandono dei meccanismi di produzione capitalistica. Credo sia
evidente che per l’autore le lingue nuove potranno essere parlate da chi
riuscirà a liberarsi dalla camicia di forza di relazioni sociali e valori come
quelli vissuti nel romanzo e che, in vari modi, ma sempre usando il pretesto
della religione, allertano la nostra epoca.
Micheli ci consegna un’opera (intendo il
lemma come l’“opus” del muratore) che è un unicum.
Come accade sempre dopo aver finito una
lettura, ciascuno cerca i “precedenti”, si compiace di confronti, gioca a
“vediamo se è vero”. Io non ho trovato subito modelli per questo romanzo e mi
sono scoperto a pensare a Garcìa Marquez per compositio e dispositio degli
eventi, sviluppati cinematicamente attraverso storie di storie nel senso che
l’autore segue diversi personaggi (quasi li pedina), che qui sono comparse e lì
protagonisti. Una metafora abbastanza esplicativa degli intrecci di Micheli
potrebbe essere quella delle carte da gioco o di un mandala vivente che,
compiuto, dovrà essere distrutto, come è destino dei mandala, dall’atomica. Si potrebbero,
cosa che ho fatto, accorpare i momenti che riguardano i personaggi, p.es. Mussolini,
e scoprire che la loro sequenza forma, appunto, racconti all’interno del racconto,
che il gesto di uno genera conseguenze per la vita di uno sconosciuto.
Il romanzo inizia con i due protagonisti
principali mentre visitano la Cappella degli Scrovegni, ciascuno dei cui
affreschi può essere una miniatura all’inizio dei capitoli del libro, un
momento fotografico rispetto alla cinematica dei fatti narrati. Il passaggio
dall’immobilità silente della Cappella al tumultuoso ingresso in medias res del
capitolo successivo è un colpo da maestro.
A lettura ultimata di Romanzo per la mano
sinistra, ho registrato una profonda dissonanza cognitiva. Mi sono interrogato
sul perché di questo fenomeno e cercherò qui di condividerlo.
Vediamo innanzitutto la trama: Bruno,
figlio di Stefan Bauer, ebreo moravo, psichiatra, e di Ada Ascarelli, ebrea napoletana,
medita su lettere scritte per lui dal padre. La circostanza che Micheli abbia
iniziato il romanzo in occasione della nascita del figlio Ernesto è un’ulteriore
- e non secondaria - informazione quasi che l’autore abbia concepito il romanzo
come un’eredità spirituale per il figlio. Tali lettere si innestano spesso
nella trama narrativa; i coniugi Bauer, costretti a peregrinare attraverso vari
luoghi e contesti, finiscono per vivere separati, causa anche un certo
donchisciottismo di Stefan, e moriranno entrambi: l’una in un campo di
concentramento, l’altro, con destino parallelo, in una prigione. Stefan, brillante
combattente e pieno di iniziativa, non muore come un eroe, brillando, sia pure
nell’esplosione di una granata, ma con un profilo basso: addetto a mansioni di
organizzatore e spia in una casa di produzione cinematografica, scompare, anche
come comparsa. Stefan è fondamentalmente anarchico ed idealista, è cooptato
come infiltrato ora dai russi ora dai tedeschi ora dai fascisti. Partecipa alla
Resistenza e finisce per essere guardato con sospetto da tutte le
organizzazioni con le quali ha collaborato allo scopo di far sopravvivere la
sua famiglia. Il destinatario delle lettere, Bruno - siamo negli anni ’70 -,
impugna la P38 consapevole, tra l’altro, che l’epurazione post-bellica operata
dalle potenze orientali ed occidentali è stata solo una questione di facciata e
che le dinamiche economiche ed imperialiste che diedero origine alle due guerre
mondiali persistono, camuffate, per mantenere inalterato il capitalismo, capace
di assumere, per sua natura, tutte le forme mimetiche possibili. Bruno, in nome di un principio superiore e
accogliendo l’eredità epistolare del padre (conoscere la verità) abbandona la
lotta armata e, crediamo, sia lui quello il cui destino è “parlare lingue non ancora
conosciute”, vale a dire creare nuovi mondi, lontani dai paesaggi dei genitori
in cui domina un gelo itterico.
Le lettere, per inciso, stampate in
corsivo, rinviano a un genere letterario e a un autore citato alcune volte e
che, presumo, Micheli ha amato: Seneca.
Prima di andare avanti, per dar conto di prospettiva
e retrospettiva del romanzo di Micheli, dò una mia testimonianza generata
dall’interazione con il libro.
Mio padre partecipò alla guerra d’Africa e
combatté ad El Alamein. Negli anni ’70,
tra me, studente e saltuario frequentatore di gruppi extraparlamentari, e lui,
rimasto fascista, i rapporti erano, ovviamente, molto tesi. Negli anni ’80
discutevo con mia moglie di Kennedy, assassinato, come sappiamo, nel 1963. Una cugina
ventenne, che assisteva alla discussione, chiese ex abrupto: “Kennedy? Chi
era?”. Rimasi basito. Ciò che per me era ieri (venti anni tra la morte di
Kennedy e il 1980) per lei non era neanche una nozione scolastica. Questo episodio mi fece capire mio padre: ciò
che io conoscevo solo tramite libri o video, una cosa lontanissima e che non mi
riguardava direttamente, per lui era la sua gioventù, passata tra cimici,
sabbia, digiuni, gavette sporche e odore di polvere da sparo. Aveva creduto nel
fascismo, non so se per fede o per adeguamento (ricordiamo tutti le folle
oceaniche che riempivano le piazze) e non se ne distaccava perché per lui la
guerra d’Africa era ieri. Per avere una retrospettiva critica avrebbe avuto
bisogno di vivere altri cento anni. Parliamo molto dell’era fascista ma
dimentichiamo, per fare un altro esempio, che Berlusconi è durato per più di
venti anni.
Tutti gli avvenimenti del romanzo di
Micheli, dunque, sono avvenuti ieri. E oggi siamo appena ad oggi.
A parte Stefan e Bruno, i personaggi non
sono fantasiosi. Ad esempio, la nobile e umanitaria Karolina Lanckoronska, morta
a Roma nel 2002. Ada Ascarelli apparteneva alla famiglia del fondatore del
“Calcio Napoli”, era laureata in lettere e parlava sei lingue. Anche il marito,
Enzo Sereni, era ebreo; entrambi si trasferirono in Israele dove fondarono un
kibbuz per aiutare i profughi ebrei a fare ritorno in patria. Suo è il libro “I
clandestini del mare” (l’analogia con gli immigrati odierni non è forse
casuale). Enzo, come lo Stefan di Romanzo per la mano sinistra, morì per aver
voluto partecipare a missioni di guerra contro il nazifascismo.
Per chi non ne sia a conoscenza, informo
che il comune di Napoli ha di recente stabilito di dedicare l’attuale Piazzale
Tecchio a Giorgio Ascarelli.
Ma mi accorgo che sto tergiversando. Devo
rispondere al me lettore in ordine alle cause della dissonanza di cui parlavo.
Perché questo fenomeno? Forse la sua causa è la storia narrata? Il periodo in
cui avvengono i fatti? I fatti stessi, tra i quali, di provenienza americana, l’eugenetica
massificata? Forse l’atteggiamento ragionieristico degli aguzzini, che Hanna
Arendt individuò come quello del diligente burocrate Eichmann? Nessuno dei tre
motivi mi sembrano sufficienti a creare quel senso di “straniamento”: in fondo,
sono abituato a vedere film e documentari dove le atrocità descritte da Micheli
sono rendicontate e non mi sono estranee storie analoghe, anche relative al
mondo contemporaneo (p.es. Pappagalli verdi di Gino Strada, mine-giocattolo
costruite in Italia).
Ed ecco che la frase di Fichte con la
quale ho voluto introdurre queste considerazioni diventa molto ambigua. Il filosofo
tedesco intendeva dire che è solo frequentando altri uomini che è possibile
sviluppare la propria umanità. Ma, considerando il comportamento umano dalla
fondazione di Ebla all’attuale New York, forse è meglio non averci tanto a che
fare con gli uomini o, conosciuti, meglio starne lontani.
Mi sono accorto che a mano a mano che
andavo avanti (ma spesso ritornando indietro) ponevo in secondo piano la storia
e che mi interessavano piuttosto le valenze linguistiche, le particolari
costruzioni delle frasi, che mi soffermavo sulle descrizioni di paesaggi i
quali, mi accorgevo, grazie allo stile antifrastico di Micheli assumevano
subito la funzione di simbolo, plurale perché il gelo polacco non è il gelo
tedesco. Poco sopra ho usato
l’espressione “gelo itterico”; l’ho prelevata, senza saperlo, da Micheli. Ecco:
la mia dissonanza era dovuta allo stile di questo autore perché per chi si
occupa di fatti estetici non è importante ciò che si dice ma come lo si dice.
Innanzitutto il lessico: rutilante,
composito, spesso appartato e, improvvisamente, unheimlich (perturbante), che
attinge a un armamentario tecnico-retorico di prim’ordine, con neologismi e
illuminazioni che appartengono al Micheli poeta. Carattere di questo stile è l’understatement,
la minimizzazione degli effetti caleidoscopici del linguaggio usato: nulla viene
evidenziato ma cade nel discorso con naturalezza, quasi sottotono, come un
rumore di fondo.
Perché, poi, un romanzo per la mano
sinistra? Il richiamo a Ravel e Wittgenstein è normale e crea l’equivalenza: “abilità
compositive di Ravel e pianistiche di Paul Wittgenstein = abilità di Micheli”. Ma
se si ascolta l’esecuzione del concerto tenendo sott’occhio anche la partitura,
si noterà che le nuvole di suoni e gli stormi delle note sul pentagramma, la
loro disposizione autoreplicante, sono analoghe alle nuvole e agli stormi sia
linguistici che situazionali di Micheli.
Ma cerchiamo di cogliere la motivazione
profonda del titolo del romanzo.
In un’intervista ad un suo recensore
Micheli collega la “mano sinistra” al tantrismo Tantra, come sappiamo, è
“trama”, “ordito”. Nel Tantra il sentiero della mano sinistra persegue la
perlustrazione ed evoluzione del sé ed è considerato molto pericoloso. Himmler,
lupo-alfa delle teorie naziste, era frequentatore ossessivo di tutto ciò che
poteva essere riferito alla razza-radice protoindoeuropea e il Tantra è tra questi. Si ha il sospetto che le mani che massaggiano
il suo corpo in un momento del libro appartengano a un maestro di questa
disciplina. Destra e sinistra sottintendono, fin da Parmenide e le sue due vie,
una modalità polare della mente.
Anche nella cultura ebraica si parla di
una via della mano destra e di una della mano sinistra, una dicotomia che
rinvia a pratiche di magia bianca e magia nera, le cui radici possono farsi risalire
alla Y pitagorica, ben nota a Virgilio, e da lui usata per far scendere Enea negli
inferi della memoria e del (non ancora chiamato così) inconscio.
Ora, c’è nel romanzo un passo, un’immagine,
un luogo qualsiasi in cui compaiono mano destra e mano sinistra indicanti due
diversi mondi, peraltro paralleli, quasi una coincidenza degli opposti?
Si, c’è, e sta proprio all’inizio: sono le
mani del Cristo della Cappella degli Scrovegni. Alla destra (nostra sinistra)
di Cristo ci sono i santi e i beati, compreso un Giotto-Micheli; a sinistra
(nostra destra) sono affrescati, come nello stomaco del Leviatano, il Minosse,
i disperati e i dannati. È difficile, a questo punto, non visualizzare il
triangolo Cristo-Beati-Dannati deducendo che tutta la storia è nelle mani di
Cristo e che lui ne è il demiurgo. Si pongono, qui, anche antiche questioni
teologiche. È poi difficile immaginare che alla sinistra del Pantocratore
(nostra destra: la specularità è qui importante) non vi sia rappresentata
l’Apocalisse: la guerra, l’atomica, la bulimia di vite del nazismo, l’occulto e
le sue icone, i suoi vessilli alzati dalle truppe di Himmler e mossi da un
vento a 440 hz, la terribile e neurocinetica frequenza usata da Wagner al posto
della 432, adiacente all’armonia dell’universo.
La cappella giottesca è il luogo segreto in
cui inizia la gestazione del romanzo, una bibbia del secolo breve, i cui
episodi funzionano come le storie esemplari affrescate e ne assume il ruolo di
ancestre. I proverbi introduttivi di ogni capitolo e che, letti di seguito nell’indice,
sono un piccolo “libro dei proverbi”, appaiono come cartigli esplicativi di
ogni scena dell’affresco storico, sono le sintesi in forma popolare degli
eventi, il modo di pensare di Sancho Panza per il quale il cigno non differisce
granché dalla gallina e, anzi, è meno utile di questa.
Romanzo per la mano sinistra agisce
all’interno del lettore che è costretto a dialogare con i problemi che pone la
lettura costringendolo a porsi la domanda che sempre si è posto e dalla quale è
sempre fuggito perché la risposta è pericolosa, proprio come il voler seguire
il sentiero della mano sinistra. Proviamoci.
La domanda è “come è potuto succedere
tutto questo”?
La prima risposta è che tutto ciò non è
successo solo nel ’900 essendo innumerevoli gli episodi e le epoche in cui
l’armonia del massacro ha suonato i suoi corni e i suoi tamburi. Lo strano è che
tutto ciò è successo in un periodo in cui la tecnica, che qui aprirebbe da sola
una discussione, si stava rivolgendo come non mai al proprio apice.
La risposta è “tutto ciò è successo per l’irruzione
del sacro”.
Cos’è, allora, il Sacro? Il Sacro non è il
“santo”, il “sancito” dopo verifica oggettiva. Il Sacro è l’indifferenziato per
la sua polivalenza, per il fatto che non innalza termini di confine ma li
abbatte tutti. Il Sacro è furibondo: nemmeno Achille può sfuggirgli. Il Sacro
mischia principio razionale di non contraddizione (posso essere fanciullo e
barbuto); l’effetto precede la causa e il tempo non ha senso come quello che, avendo
senso, si costituisce come storia né avverto quel mutamento dello stato di
coscienza che chiamo tempo. Il Sacro è, in sintesi, lo zòon, la vita animale,
che afferra nelle sue spire il bìos, la vita intellettiva evolutasi dallo zòon.
Ed ecco che, nella dinamica prima-dopo, causa-effetto, ciò che sta a sinistra
di Cristo nella Cappella giottesca mi sembra venir prima di quello che sta a
destra come, addirittura, fondamento e necessità di Cristo.
Ma dove avviene precisamente e di solito
questa confusione? Nel sogno, il grande schermo dell’inconscio che nasconde le
sue regole. Le religioni non difendono il Sacro ma, mediante i templi, i canti,
i rituali, si difendono dal Sacro, cercano di impedire il contagio del
furibondo e della follia che costituisce l’umano (mentre scrivo queste note lo
speaker annunzia una nuova forte tensione tra gli USA e la Russia). Sarebbe stato interessante se Micheli ci
avesse dato una sinossi del libro mai pubblicato dello psichiatra Stefan, “Psicopatologia
individuale del nazionalsocialismo”. Ma, poi, ci accorgiamo che questo libro lo
stiamo, in effetti, leggendo ed è il Romanzo per la mano sinistra.
Nel Sacro, dicevamo, tutto è confuso per cui
l’uomo difendendosi dalla confusione si difende da sé stesso alzando templi o
zone franche che non devono essere violati se
non dagli iniziati, per impedire al suo Sacro di uscir fuori dalle porte, creando
uno spazio antistante al tempio, “pro-fano”.
Abbiamo, oltre al sogno, esperienza
quotidiana del Sacro? Certamente: i bambini come Bruno, cioè i soggetti più
vicini alla natura rerum, quelli che organizzano e distruggono continuamente il
principio di non contraddizione e di causa ed effetto (gli elementi costitutivi
della ragione che ci consentono di intenderci l’un l’altro); o il poeta, puer
aeternus che ha scelto come area della propria espressività il terreno di gioco
del Sacro ma che ha la capacità di rientrare nei margini che ha dilatato per
vedere che c’è oltre il senso comune. Il Sacro è pulsione di morte, istinto che
fu osservato da Sabrina Spielrein e che, al solo violarlo, o anche solo pensare
di violarlo, pretende l’espiazione fisica.
L’armonia di sfaceli è precisamente quella del Sacro.
Le cose che sto cercando di chiarirmi, spesso
togliendomi gli occhiali e facendo riposare il libro sulle ginocchia, sono
tutte intercettate da Micheli nell’intrecciarsi dei punti di vista di quasi
tutti i protagonisti del ’900 e secondo i criteri delle varie discipline da
loro praticate o delle azioni compiute o che intuiamo compiranno.
Come e quando è avvenuta questa irruzione?
Come mai Himmler si riduce a convocare due veggenti prigioniere in un campo di
concentramento allo scopo di assumere informazioni sulle località dove il Duce
è tenuto nascosto e la cui morte sarà ritualmente sacrale?
Qualcosa era già nell’aria al tempo di Hölderlin,
il folle, quando dice che sono scomparsi gli antichi dei e non si sa quando
verranno i nuovi, se verranno. Il folle Nietzsche ha voluto guardare il fondo
dell’abisso e ne è stato riguardato come da una Medusa; Madame Blavatsky, che
influenzò anche Yeats per il tramite della di lui moglie, gira per il mondo (soprattutto
oriente) e fonda nel 1875 la Società
Teosofica; nel 1899 Freud pubblica L’interpretazione dei sogni; Gurdjev a
inizio secolo suscita un intenso
interesse ed ha molti discepoli; è del 1924 il manifesto del surrealismo (o,
ambiguamente, surrealista), il suo tentativo di sintetizzare Marx e Freud. Crowley imperversa in tutti gli
ambienti colti e si incontra con Pessoa, affascinato e incuriosito
dall’occulto; il primo studio di Jung riguarda il paranormale. Le scosse
sismiche si fanno più intense in Occidente dopo la rivoluzione del 1917, quasi
una reazione dialettica e fisiologica all’ateismo dei sovietici. Il nazismo
accoglie dal profondo i movimenti che, in parte, e solo in parte, abbiamo
citato e dichiara che dio non è morto, che si è incarnato, che l’uomo è dio, è
al di là del bene e del male, dispone a suo piacimento del potere come dio e
parla tedesco.
Il lavoro di documentazione da parte di
Micheli è quantomeno cospicuo e deve essere durato anni. Lo scr-scr della penna
sul foglio o il ticchettìo della tastiera del Pc devono essergli sembrati
insopportabili e a metà del libro ha avvertito il bisogno di un “tu”, di qualcuno
con il quale condividere il vero e il fatto; questo qualcuno è il lettore, cui
l’autore si rivolgerà sempre più spesso.
Romanzo per la mano sinistra ci regala
informazioni che non avevamo e invita a un focus su molti aspetti del secolo
breve. Ho spesso dovuto approfondire queste informazioni e, per quanto mi
riguarda, quella che più mi ha colpito è stato scoprire, rinfrescandomi la
memoria su Alicata, che sapevo essere denigratore di Rocco Scotellaro, poeta da
me amatissimo, che in questo ostracizzare il poeta lucano era in compagnia di
Giorgio Napolitano. Credo che questo possa essere un esempio di partecipazione
attiva alla lettura, in simbiosi con l’autore.
Il linguaggio usato è tipico degli anni in
questione, non alieno da ghirigori barocchi, spinte e controspinte, dai
salamelecchi del galateo delle classi egemoni, la sua retorica.
Ma le doti di Micheli si riscontrano anche
nei dettagli: p.es., nel modo locutorio di un tassista romano, la cui parlata è
resa ortograficamente in modo impeccabile o nel dialetto, un napoletano dell’entroterra,
di un operaio e attivista comunista il cui nome, Genoino, richiama
necessariamente quello dell’ispiratore di Masaniello.
Quando ho finito la lettura, superata la
dissonanza, ho pensato a un altro libro, La tragedia in corpo, dell’antropologa
Letizia Bindi, allieva di Lombardi-Satriani, perché lo zòon del capro, espiatorio,
i Bauer o chi per loro, è richiamato alla presenza dalla percussione della mano
sinistra sulla pelle caprina del tamburo, che è alla base del ritmo e della
coreutica tragica, quando il ghenos del ‘900 è entrato anche nel mio sangue e
il cui miasma mi ha contagiato.
Penso adesso di nuovo alla Cappella degli
Scrovegni. Che strano, non ci avevo fatto caso: l’opera si chiama “Il Giudizio
Universale”. Una premonizione dell’atomica?
Prendo una monografia su Giotto e sosto a lungo su Minosse. Mi sembra mi
guardi minaccioso, come a dire “verrà anche il tuo turno”; ma so che il mio
turno è venuto molte volte, che siamo io i bambini lapidati, la ragazza che a
Gaza salva dalle rovine un libro, Caravaggio che scrive il proprio nome nel
sangue del Battista. Il libro di Micheli adesso è come la piramide di Tempo dei
dejà vu di Remo Bodei.
Ritorno istintivamente a guardare
l’affresco degli inferi e ho il sospetto che anche questo mio tornare alla
parte sinistra sia una conferma inconscia che il Sacro attrae più del santo e
più del santo mi rappresenta.
Sulla copertina del romanzo, un altro
affresco - lo si capisce dalle crepe nella pittura. L’artista, Giancarlo Greco
ha dipinto la scena che non c’è nella cappella degli Scrovegni: uno dei mostri
antropomorfi, come quelli effigiati nella glittica delle cattedrali gotiche,
forse un Troll o un Quasimodo, comunque un dèmone, ha appena appeso ad un
uncino la carcassa di Prometeo.
Ho l’esigenza di uscire fuori, sul
balcone: mi manca l’aria. Procida, Ischia, la doppia stella Diana e un
vaporetto che naviga come un giocattolo con le luci accese.
Sulla spiaggia camminano due ombre.
Dall’andatura capisco che si tratta di un giovane e di un anziano e, dalla
direzione, che si recano a Cuma. “Stanno andando anche loro a interrogare l’oracolo?”,
mi chiedo. Il giovane parla al vecchio in modo concitato, come per farsi una
ragione di qualcosa. Il vecchio ascolta con la testa bassa, attento (credo) a mettere
i piedi sulle impronte millenarie di altri. In mezzo alle posidonie, tartarughe
con occhi fosforescenti vengono da un chissà quando sulla sabbia a deporre le
uova del taciuto. Un vento cimmerio toglie gli accenti alle parole di quei due.
Domani andrò sulla rena a raccoglierli. Il giovane è certamente Stefan, non ho
dubbi. L’altro alza indolentemente lo sguardo verso Ecate lunare. Ho capito, è
Eschilo: mi rimbomba nel labirinto auricolare la domanda che farà alla
pitonessa: “Che c’è di bene? Che c’è privo di male?”.
Mimmo Grasso
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