domenica 5 maggio 2019

La miseria del linguaggio

appunti per una critica del linguaggio della miseria


un articolo di Giancarlo Micheli pubblicato su 



Se da nuove prue d’Italia un’effimera diarchia è venuta, or non è guari, proclamando nientemeno che l’«abolizione della povertà», Karl Marx, nella sua critica al socialismo piccolo-borghese di Jean Pierre Proudhon, sostenne che «in una società fondata sulla miseria, i prodotti più miserabili hanno la fatale prerogativa di servire all'uso della maggioranza». Chissà se la semiologia, dopo parecchi decenni dalla propria costituzione nel novero delle discipline scientifiche, sia oggi in grado di misurare, in termini di valore linguistico, di congruenza dell’enunciato al concetto che vi si designa, la distanza che sussiste tra una frase estrapolata da un vetusto testo marxiano del 1847 e le menzogne propagandistiche di un governo votato a smaltire, in virtù di incessanti ossequi ai mandati dell’industria mediatica, la pesante eredità corporativa di una biografia nazionale lungamente introiettata? Qualora un’anima ingenua pensasse di reperire suggestioni o pezze d’appoggio nelle baruffe virtuali che si scatenano quotidianamente sulle reti sociali a seguito di simili estemporanee recrudescenze del genio italico, promosso da residui investimenti informatici alla gloria ecumenica, ella non mancherebbe in effetti d’imbattersi in testi istruttivi: disquisizioni di autori dall’apparente prestigio pubblico, detentori tra gli italici di Streghe e di Campielli, la vacuità dei cui contenuti è compensata da una pletora d’errori etici e grammaticali che non basterebbero a vendicare i contratti a tempo indeterminato di centurie e legioni d’immortali correttori di bozze; esternazioni fuor dai denti di rampanti rampolli del patrio apparato editoriale-industriale o di suoi infimi fiancheggiatori; geremiadi di sedicenti arbitri d’una eleganza perduta eppur da loro stessi assiduamente vilipesa; il tutto agglutinato in tale pleonasmo di sintomi patologici del linguaggio mercificato che sarebbe palese atto di connivenza alla sua morbosa forza di persuasione voler demistificare in virtù d’analisi e induzioni. Mi viene, allora, in mente, quasi fortuita, affine ad una misteriosa benedizione che ci si potrebbe dar da soli, l’idea che le cosiddette fake news garantiscano profitti, ai proprietari delle architetture comunicative in cui s’annidano, grazie al tempo che i comuni utenti (quelli che nell’Atene periclea sarebbero stati detti “idioti”) impiegano a discernerle da eventuali veridiche, giacché, per l’intera durata di quell’intime disamine dalle parvenze indipendenti, essi se ne rimarranno buoni e quieti a dare implicito avallo a chi ritiene mezzo pieno il bicchiere da cui brinda in compagnia di ospiti sceltissimi, festeggiando senza posa una crescente occupazione del tempo-macchina, e stima conveniente addestrare persino i morti di sete e di fame ad assolverne i diuturni incrementi in illusoria concordia, osannante ciascuno un mutuo benessere solipsista. Per ricercare onestamente una risposta, sarà dunque opportuno lasciarsi guidare dalla necessità. Quale miglior occasione di quella offerta dall’aprire un libro a caso? Medito, pertanto, e provo a liberare la mente dai pensieri superflui, come verosimilmente farebbe chi avesse profonda esperienza del daoismo e avesse studiato i trattati di Liezi e di Mengzi. A colpo sicuro vado a raccogliere dallo scaffale le Lettere luterane, pubblicate in un frangente in cui la dittatura del codice capitalista esibiva le proprie foglie di fico democratiche al cospetto di antinomici simulacri, assortiti, non senza reazionaria oscenità, dal Cile di Pinochet alla Grecia dei Colonnelli, dalla Spagna franchista al Brasile dei gorillas. Com’è noto, l’opera si compone di un’introduzione dal titolo I giovani infelici ed una postilla in versi, estratte entrambe, a cura dell’arbitrio filologico dei redattori dell’allora eccellente casa editrice Einaudi, tra gli inediti cui Pier Paolo Pasolini andò lavorando nell’imminenza di venir congedato dalla vita, l’una posposta alla raccolta degli articoli eponimi apparsi dal luglio all’ottobre del 1975 sulle pagine del “Corriere della Sera” e del “Mondo”, l’altra premessa alla serie pubblicata sul settimanale nei mesi immediatamente precedenti ed intitolata ad un ideale ma specifico enunciatario, uno studente liceale napoletano di nome Gennariello, cui poteva allora capitar la sorte di tenere in mano quei fogli e, trovandovisi descritto, provare gratitudine per gli encomi rivolti ai suoi occhi «ridarelli», non sentirsi affatto offeso quando leggesse che sarebbe stato lo stesso «se anziché essere un Gennariello» fosse «una Concettina», essere addirittura lusingato, una volta che arrivasse al passo dove gli si diceva che, quand’anche non fosse «un miracolo», egli era almeno «un’eccezione», dal momento che tanti suoi coetanei erano «schifosi fascisti». È rimarchevole che qua, come più esplicitamente nel testo selezionato in apertura del volume postumo, Pasolini attualizzasse il lemma “fascismo” riferendolo innanzitutto al regime di cui vedeva profilarsi le propaggini, le quali finiscono appena oggi di rivelare, nei tratti essenziali di una fisiognomica priva di soggetto umano, l’abominevole profilo artificiale del totalitarismo mediatico. A guisa d’inattuale Socrate, l’autore di Petrolio aveva agio di diffondersi, a beneficio del fittizio discepolo, in dettagliati discernimenti di quella scienza allora pressoché novissima, specificando che i «“segni” del sistema verbale sono dunque simbolici e convenzionali, mentre i “segni” del sistema cinematografico sono appunto le cose stesse, nella loro materialità e nella loro realtà. Esse divengono, è vero, “segni”, ma sono i “segni”, per così dire viventi, di se stesse. Tutto ciò fa parte di una scienza, la semiologia, che tu, Gennariello, non puoi non conoscere almeno di nome, e nella sua significazione almeno divulgativa, se vuoi seguire i miei discorsi: specie questo sul linguaggio primo delle cose e sulla loro conseguente prevaricazione pedagogica».  Intanto, egli accomunava in una medesima colpa i padri e i figli della sua generazione: aver agito in complicità affinché il linguaggio dei popoli confluisse in quello della classe proprietaria. Colpa tragica e, forse davvero, «la più grave commessa in tutta la storia umana». Quanto preziosa questa rilettura per coloro che insistano a prospettare un risorgimento delle energie le quali, strutturate come un discorso liberatore, la Storia persevera a reprimere e a rimuovere! Nelle tesi, cui l’enunciatore era destinato a mancare da lì a poco, risiede un valore linguistico, durevole nella misura in cui non è tacciabile di perennità, fruttuosamente antonimo rispetto al conformismo che i tecnocrati della scienza borghese delle comunicazioni, fattisi intanto padri a loro volta, hanno disseminato nelle coscienze durante l’ultimo mezzo secolo. Così, dalle parodie insurrezionali di un coro tragico che, bruciate in un unico empito edonista millenarie prerogative democratiche, preferì integrarsi alla protocollare violenza del potere, così hanno infine ricevuto licenza e voce in capitolo gli apprendisti stregoni dell’odierna apocalisse cognitiva, organizzata in dominio assoluto delle apparenze, religione ecumenica di un’universale precarietà, nonché macchina di sterminio della ragione. Nell’inclita e colpevole compagine di codesti catecumeni, si potrebbero citare miriadi di nomi, senza comminar con ciò sufficiente castigo, né arrecar danno maggiore a quello consistente in una succedanea e gratuita promozione pubblicitaria. Sulle spalle viepiù gracili dei Gennarielli d’oggi grava dunque, oltre alla già lamentata impotenza riguardo al linguaggio delle cose, un ben altrimenti sofisticato degrado della produzione segnica. Boicottaggio e sabotaggio dei simboli e delle strutture del «fascismo vecchio e nuovo, cioè dell’effettivo potere capitalistico»: questa è la via aurea da indicare, benché per quanto attiene alle minuzie dell’itinerario si dovrà disporre di supplementare tempo e spazio, procurarselo con ogni mezzo e finanche crearlo dal nulla.

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