un articolo di Giancarlo Micheli pubblicato su
Se da nuove prue d’Italia
un’effimera diarchia è venuta, or non è guari, proclamando nientemeno che l’«abolizione
della povertà», Karl Marx, nella sua critica al socialismo piccolo-borghese di
Jean Pierre Proudhon, sostenne che «in una società fondata sulla miseria,
i prodotti più miserabili hanno la fatale prerogativa di servire
all'uso della maggioranza». Chissà se la semiologia, dopo parecchi decenni
dalla propria costituzione nel novero delle discipline scientifiche, sia oggi
in grado di misurare, in termini di valore linguistico, di congruenza
dell’enunciato al concetto che vi si designa, la distanza che sussiste tra una
frase estrapolata da un vetusto testo marxiano del 1847 e le menzogne
propagandistiche di un governo votato a smaltire, in virtù di incessanti
ossequi ai mandati dell’industria mediatica, la pesante eredità corporativa di
una biografia nazionale lungamente introiettata? Qualora un’anima ingenua
pensasse di reperire suggestioni o pezze d’appoggio nelle baruffe virtuali che
si scatenano quotidianamente sulle reti sociali a seguito di simili
estemporanee recrudescenze del genio italico, promosso da residui investimenti
informatici alla gloria ecumenica, ella non mancherebbe in effetti d’imbattersi
in testi istruttivi: disquisizioni di autori dall’apparente prestigio pubblico,
detentori tra gli italici di Streghe e di Campielli, la vacuità dei cui
contenuti è compensata da una pletora d’errori etici e grammaticali che non
basterebbero a vendicare i contratti a tempo indeterminato di centurie e
legioni d’immortali correttori di bozze; esternazioni fuor dai denti di
rampanti rampolli del patrio apparato editoriale-industriale o di suoi infimi
fiancheggiatori; geremiadi di sedicenti arbitri d’una eleganza perduta eppur da
loro stessi assiduamente vilipesa; il tutto agglutinato in tale pleonasmo di
sintomi patologici del linguaggio mercificato che sarebbe palese atto di connivenza
alla sua morbosa forza di persuasione voler demistificare in virtù d’analisi e induzioni.
Mi viene, allora, in mente, quasi fortuita, affine ad una misteriosa
benedizione che ci si potrebbe dar da soli, l’idea che le cosiddette fake news garantiscano profitti, ai
proprietari delle architetture comunicative in cui s’annidano, grazie al tempo
che i comuni utenti (quelli che nell’Atene periclea sarebbero stati detti “idioti”)
impiegano a discernerle da eventuali veridiche, giacché, per l’intera durata di
quell’intime disamine dalle parvenze indipendenti, essi se ne rimarranno buoni
e quieti a dare implicito avallo a chi ritiene mezzo pieno il bicchiere da cui
brinda in compagnia di ospiti sceltissimi, festeggiando senza posa una
crescente occupazione del tempo-macchina, e stima conveniente addestrare
persino i morti di sete e di fame ad assolverne i diuturni incrementi in
illusoria concordia, osannante ciascuno un mutuo benessere solipsista. Per ricercare
onestamente una risposta, sarà dunque opportuno lasciarsi guidare dalla
necessità. Quale miglior occasione di quella offerta dall’aprire un libro a
caso? Medito, pertanto, e provo a liberare la mente dai pensieri superflui,
come verosimilmente farebbe chi avesse profonda esperienza del daoismo e avesse
studiato i trattati di Liezi e di Mengzi. A colpo sicuro vado a raccogliere
dallo scaffale le Lettere luterane,
pubblicate in un frangente in cui la dittatura del codice capitalista esibiva
le proprie foglie di fico democratiche al cospetto di antinomici simulacri,
assortiti, non senza reazionaria oscenità, dal Cile di Pinochet alla Grecia dei
Colonnelli, dalla Spagna franchista al Brasile dei gorillas. Com’è noto,
l’opera si compone di un’introduzione dal titolo I giovani infelici ed una postilla in versi, estratte entrambe, a
cura dell’arbitrio filologico dei redattori dell’allora eccellente casa
editrice Einaudi, tra gli inediti cui Pier Paolo Pasolini andò lavorando nell’imminenza
di venir congedato dalla vita, l’una posposta alla raccolta degli articoli
eponimi apparsi dal luglio all’ottobre del 1975 sulle pagine del “Corriere
della Sera” e del “Mondo”, l’altra premessa alla serie pubblicata sul
settimanale nei mesi immediatamente precedenti ed intitolata ad un ideale ma specifico
enunciatario, uno studente liceale napoletano di nome Gennariello, cui poteva allora capitar la sorte di tenere in mano
quei fogli e, trovandovisi descritto, provare gratitudine per gli encomi
rivolti ai suoi occhi «ridarelli», non sentirsi affatto offeso quando leggesse
che sarebbe stato lo stesso «se anziché essere un Gennariello» fosse «una
Concettina», essere addirittura lusingato, una volta che arrivasse al passo
dove gli si diceva che, quand’anche non fosse «un miracolo», egli era almeno
«un’eccezione», dal momento che tanti suoi coetanei erano «schifosi fascisti».
È rimarchevole che qua, come più esplicitamente nel testo selezionato in
apertura del volume postumo, Pasolini attualizzasse il lemma “fascismo”
riferendolo innanzitutto al regime di cui vedeva profilarsi le propaggini, le
quali finiscono appena oggi di rivelare, nei tratti essenziali di una
fisiognomica priva di soggetto umano, l’abominevole profilo artificiale del
totalitarismo mediatico. A guisa d’inattuale Socrate, l’autore di Petrolio aveva agio di diffondersi, a
beneficio del fittizio discepolo, in dettagliati discernimenti di quella
scienza allora pressoché novissima, specificando che i «“segni” del sistema
verbale sono dunque simbolici e convenzionali, mentre i “segni” del sistema
cinematografico sono appunto le cose stesse, nella loro materialità e nella
loro realtà. Esse divengono, è vero, “segni”, ma sono i “segni”, per così dire
viventi, di se stesse. Tutto ciò fa parte di una scienza, la semiologia, che
tu, Gennariello, non puoi non conoscere almeno di nome, e nella sua
significazione almeno divulgativa, se vuoi seguire i miei discorsi: specie
questo sul linguaggio primo delle cose e sulla loro conseguente prevaricazione
pedagogica».
Intanto, egli accomunava in una medesima colpa
i padri e i figli della sua generazione: aver agito in complicità affinché il linguaggio
dei popoli confluisse in quello della classe proprietaria. Colpa tragica e,
forse davvero, «la più grave commessa in tutta la storia umana». Quanto preziosa
questa rilettura per coloro che insistano a prospettare un risorgimento delle
energie le quali, strutturate come un discorso liberatore, la Storia persevera
a reprimere e a rimuovere! Nelle tesi, cui l’enunciatore era destinato a mancare
da lì a poco, risiede un valore linguistico, durevole nella misura in cui non è
tacciabile di perennità, fruttuosamente antonimo rispetto al conformismo che i
tecnocrati della scienza borghese delle comunicazioni, fattisi intanto padri a
loro volta, hanno disseminato nelle coscienze durante l’ultimo mezzo secolo.
Così, dalle parodie insurrezionali di un coro tragico che, bruciate in un unico
empito edonista millenarie prerogative democratiche, preferì integrarsi alla
protocollare violenza del potere, così hanno infine ricevuto licenza e voce in
capitolo gli apprendisti stregoni dell’odierna apocalisse cognitiva,
organizzata in dominio assoluto delle apparenze, religione ecumenica di
un’universale precarietà, nonché macchina di sterminio della ragione.
Nell’inclita e colpevole compagine di codesti catecumeni, si potrebbero citare
miriadi di nomi, senza comminar con ciò sufficiente castigo, né arrecar danno
maggiore a quello consistente in una succedanea e gratuita promozione
pubblicitaria. Sulle spalle viepiù gracili dei Gennarielli d’oggi grava dunque,
oltre alla già lamentata impotenza riguardo al linguaggio delle cose, un ben
altrimenti sofisticato degrado della produzione segnica. Boicottaggio e
sabotaggio dei simboli e delle strutture del «fascismo vecchio e nuovo, cioè
dell’effettivo potere capitalistico»: questa è la via aurea da indicare, benché
per quanto attiene alle minuzie dell’itinerario si dovrà disporre di
supplementare tempo e spazio, procurarselo con ogni mezzo e finanche crearlo dal
nulla.
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