articolo
di Giancarlo Micheli
pubblicato
su Il Grandevetro (Anno XLIII, n.241, Autunno 2019)
Sovente, nella tossica nube
mediatica che arrochisce ed attosca la voce umana fin nelle conversazioni da
bar, il cui salace piscatorius è peraltro ormai involuto nei linciaggi e nei
culti di infime personalità costituiti quale produzione segnica efficace all’interno
del frenetico vaniloquio delle cosiddette “reti sociali”, per via di tali mezzi
di produzione del gusto e finanche della logica contemporanee, si sentono
citare, sempre più spesso, mortificanti statistiche riguardo alle scarse
facoltà di lettura ed interpretazione anche del più semplice testo cui
incorrerebbero oceaniche maggioranze tra i virtuali parlanti, i quali fanno
quel che possono per adeguarsi al canone linguistico in vigore. Se gli fosse
ancora accordato di esercitare il giudizio su simili dati, Walter Benjamin ne
trarrebbe verosimilmente motivo per suffragare il pessimismo che lo persuase,
nel settembre del 1940, a porre fine ad una vita che aveva fino ad allora
dedicato allo studio ed alla riflessione filosofica. La decisione maturò
durante un viaggio, che alle caratteristiche archetipiche del nòstos epico o
dell’esodo ebraico, sovrappose le novecentesche della fuga. Data la brevità dei
tempi che corrono, si potrà accennare solo en passant, senza alcuna velleità di
intercettarne la dinamica esponenziale, alla diffusione che è intanto andata
facendosi capillare della fattispecie del viaggio come fuga. Dall’Africa
intestina fuggono in nugoli e legioni, braccati dalla miseria che i profitti
delle multinazionali, proprietarie di risorse materiali e biologiche,
largiscono a titolo di inderogabile crisma del credo neoliberista, inverato nei
regimi locali, schietta espressione di una perseverante connivenza con le
cupole finanziarie globali – in un “originario” vuoto legislativo si
svilupparono infatti, anni addietro, le pratiche criminali emerse poi
all’evidenza nei campi di detenzione libici ed altrove; quando, in seguito, le
istituzioni europee investirono liquidità e competenze giuridiche per imporre
ad alcune ex-colonie, situate sulle direttrici della tratta, una legislazione
repressiva, l’effetto che ne scaturì fu la parziale legalizzazione di quanti
non recedettero a lucrare sui traffici, nonché un aggravio delle efferatezze
perpetrate contro coloro che non ebbero altra scelta se non di continuare ad
affidare ai primi le loro sempre più flebili speranze –. Sebbene meno cruenta,
è purtuttavia un’evasione pure il viaggio com’è istruita a consumarlo la
working class del primo mondo, la quale, avvalendosi dei progressi tecnici dei
mezzi di trasporto, attende ai rituali della vacanza alla stregua d’una
liberazione, a tempo rigorosamente determinato, dal giogo di un lavoro viepiù
alienante e meno creativo, quand’anche regga ancora, almeno in qualche comparto,
la concorrenza dell’intelligenza artificiale, contuttoché ne risulta
un’infaticabile pedagogia alla defezione dalla lotta di classe, che invece, qualora
fosse condotta nelle varie patrie con lungimiranza internazionalista, colpendo,
ovunque possibile, gli interessi del potere economico-finanziario,
costituirebbe l’unica strategia valida per “aiutare a casa loro” gli immigrati,
del cui flusso, inestinto e, in termini tutt’altro che episodici, esiziale, il
banale interesse all’abbattimento del prezzo della forza lavoro rimane il primo
movente. Vediamo, dunque, di non perdere la coincidenza, che pare offrirsi
fortuita, tra i casi generali della specie, i cui individui appartengono in
maggioranza di ora in ora schiacciante ad un multietnico popolo d’oppressi e
sfruttati, ed il destino di un intellettuale in fuga dal più chiaro esempio di
totalitarismo che la storia del “secolo breve” abbia conosciuto. Prima ancora
che Hitler coronasse il sogno, vivaddio effimero, di veder garrire le croci uncinate
sui boulevards parigini e di visitare in tutta pace il mausoleo di Napoleone
agli Invalides, allo scoppio delle ostilità, Walter Benjanim, che al pari di
altri antinazisti aveva trovato rifugio tra Svizzera e Francia, fu nel nutrito
gruppo di cittadini tedeschi internati allo stadio Colombes, quello in cui si
erano svolte le Olimpiadi del 1924, al tempo in cui egli faceva la conoscenza
di Ernst Bloch e dell’opera di György Lukács, tanto da essere attratto fin da
allora nell’orbita della critica marxista. Rilasciato grazie all’intervento di
amici influenti, allorché venne l’occupazione, riuscì a sottrarsi alla cattura
e a raggiungere Marsiglia. Da qua, assieme alla vedova Henny Gurland e al
figlio diciassettenne di lei, decise di attraversare i Pirenei con l’intento di
ottenere un visto di transito per il Portogallo e, infine, imbarcarsi per gli
Stati Uniti. A Port Bou, invece, le guardie di confine franchiste lo
trattennero per esporgli quale fosse il loro dovere: riaccompagnarlo alla
frontiera, dal momento che era sprovvisto di un documento valido, che ne
attestasse la nazionalità. In preda all’angoscia, si avvelenò con un
sovradosaggio di morfina. Se è probabile che, mentre aspettava di addormentarsi
un’ultima volta, ripensasse all’amico di gioventù, il poeta Fritz Heinle,
suicida alla vigilia della Grande Guerra, oppure rammentasse le non poche
occasioni in cui, dinanzi ai segni premonitori dell’incipiente barbarie, aveva
meditato di togliersi la vita, come annotò nei diari, o ancora gli sovvenisse del
fratello Georg, che da lì a due anni sarebbe stato ucciso nel campo di
concentramento di Mauthausen, rimane un enigma, passibile di venir scalfito
solo a forza di congetture, quale fosse il contenuto della voluminosa borsa di
cuoio che portava con sé, come testimoniato dalla Gurland, e che sarebbe stata
invece sequestrata e mai più restituita. Nessuno può dunque negare che, accanto
ad una versione riveduta dei Passegenwerk, pubblicati postumi solo nel
1983, potesse trovar posto qualche appunto nel quale avesse sviluppato il tema
di una conferenza tenuta cinque anni prima, il cui testo sarebbe apparso sul
numero del luglio 1970 della «New Left Review». In questo testo, dal titolo L’autore
come produttore, Benjamin sosteneva che «la tendenza politicamente corretta
di un’opera include le sue qualità letterarie, poiché include le sue tendenze
letterarie», le quali «si possono riconoscere nel progresso o nella regressione
della tecnica letteraria»; discerneva, poi, tra gli scrittori autenticamente
rivoluzionari e gli scribacchini al servizio del capitale – i quali ultimi
poteva esemplare al lettore negli esponenti della Neue Sachlichkeit mentre oggi
non avrebbe che l’imbarazzo della scelta ad indicarli in una ulteriormente
oceanica maggioranza – secondo il criterio per cui i primi concepirebbero
l’opera come un mezzo di produzione, un impulso all’agire politico, laddove per
i secondi non si tratterebbe altro che di un articolo di consumo, un oggetto di
piacere contemplativo. Il compito che lo
scrittore deve porsi «non è di trasmettere semplicemente l’apparato di
produzione», bensì «di trasformarlo nella massima misura possibile in direzione
del socialismo». Ed ecco infatti che, proprio al momento di concludere, il
tempo che, un istante fa, sembrava volgere precipitosamente alla fine, rallenta
e concede uno sguardo inatteso, simile a quello che il celebre angelo delle Tesi
di filosofia della storia getta sul cumulo di macerie del passato mentre la
tempesta che si sprigiona dal paradiso gli s’impiglia nelle ali e lo trascina
verso il futuro cui volge le spalle, sicché confessi con ingenua letizia di
aver a lungo ben lavorato sui mezzi di produzione del linguaggio in opere come Indie
occidentali, La grazia sufficiente, Romanzo per la mano sinistra ed
altre, né mi pare del tutto da escludere fossero già contenute in quella
valigia, scomparsa ai piedi dei Pirenei, per la quale desideriamo, insieme al
volonteroso lettore di codeste rapsodiche note, buone mani cui affidarla,
poiché ciò che decide non è il pensiero individuale, ma l’arte di pensare ciò
che è nella testa degli altri, affinché mutino entrambi nel senso dell’umanità
nuova.
Giancarlo
Micheli
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