nota
di lettura di Giancarlo Micheli
a
Neiye. Il Tao dell’armonia interiore,
a cura di Amina Crisma (Garzanti, Milano 2015)
pubblicata
in Rivista di Studi Italiani (Anno XXXVI, n.3, Dicembre 2018)
Gli Stati Uniti stavano
per entrare nell’ultimo anno dell’amministrazione Reagan, demoticamente nota
quale governo esemplare d’un attore professionista, quando l’ampia platea del
Wortham Theater Center di Houston assistette alla prima rappresentazione dell’opera
lirica Nixon in China. Il melodramma,
lungo le accensioni ritmiche dell’impianto minimalista soggiacente la partitura
di John Adams, musicista omonimo del secondo presidente (1735-1826), descrive la
visita che il trentasettesimo, Richard Nixon, aveva compiuto quindici anni avanti,
ricevendo onori di Stato dal presidente del Partito comunista cinese Máo Zédōng
e dal Primo ministro della Repubblica popolare Zhōu Ēnlái. Non si trattò di un
evento di secondaria importanza nella storia diplomatica del Secolo breve,
tant’è che non sia azzardato sostenere che le basi delle intese allora
imbastite costituiscano tutt’oggi una delle più serie ipoteche gravanti sull’avvenire
di un mondo infine abitabile, libero dai confini attorno ai quali la violenza
si organizza quale principio antropologico, carattere distruttivo ed
apocalittico destino. Il richiamo alla produzione teatrale texana ha lo scopo,
che non sarebbe onesto dissimulare, di ribadire un’ovvietà: quanto meglio al di
là dell’Atlantico la stessa società dello spettacolo risponda alle istanze di
contatto e compenetrazione tra le culture di quel che non avvenga nel Vecchio
continente, dove una prevalente ipocrisia, burocratica e formalista, asseconda regressioni
identitarie, latenti nelle esperienze dei totalitarismi novecenteschi non
assimilate in senso evolutivo. Bene fa dunque Amina Crisma, nella estesa
introduzione alla versione italiana del Nèiyè,
uno dei classici del daoismo antico, ad insistere sui tanti pregiudizi che sono
andati ad attecchire nel senso comune e dei quali solo una volonterosa cernita
delle fonti filologiche può aver ragione. Così come la curatrice ci dissuade
con assennatezza dalla tentazione di ridurre la complessità del pensiero
filosofico in Cina alle tesi sostanzialmente pacifiste del confucianesimo,
rammentando, tra altre, le sentenze di Xúnzǐ (313 a.C-238 a.C.), insigne precursore
della scuola legista o fǎjia (fondata da Hán Fēizǐ,
280 a.C.-233 a.C.), secondo la quale la natura dell’uomo è in origine malvagia
e soltanto una rigida educazione, non ignara dell’efficacia di pene corporali,
riesce in parte ad emendarla, allo stesso modo noi possiamo solo auspicare, o
tutt’al più congetturare ipotesi di convalida previo un attento ascolto delle
incisioni, che la librettista Alice Goodman ed il compositore, nel dar
compimento all’atto creativo, avessero consapevolezza del fatto che nel tempo
in cui il plot è ambientato, durante gli anni centrali della Rivoluzione
culturale, godesse di una riabilitazione in piena regola un personaggio storico
lungamente stigmatizzato dalla tradizione della scuola rújiā, composta dagli
adepti del sommo Kǒngzǐ (551 a.C.-479 a.C). Questi, alla cui parabola
esistenziale Xúnzǐ ispirò le proprie riflessioni, fu un talentuoso “letterato” nel
cuore del Periodo degli Stati combattenti (453 a.C.-221 a.C.), nativo dello
stato di Wèi ma passato al servizio del rivale di Qín, alla cui guida promosse una
politica espansionista; ottemperante al dogma che il bene del Regno debba
prevalere su quello dei sudditi, impose la ferrea disciplina che avrebbe
condotto, anche in virtù d’un gran numero di emuli e fautori che ne
avvalorarono i precetti nel corso d’un ulteriore secolo di belligeranza, al
costituirsi dell’impero Qín (221 a.C-206 a.C.). Gli storici marxisti cinesi,
durante gli anni Settanta del secolo scorso, tendevano appunto a rivalutare
l’operato di Shāng Yāng (390 a.C.-338 a.C.), vedendo in lui un capostipite
nell’uso della violenza rivoluzionaria contro i privilegi aristocratici sanciti
dall’ideologia confuciana. Agli ultimi anni della vita di Shāng Yāng, o a
quelli immediatamente successivi alla morte cruenta che incontrò dopo esser
caduto in disgrazia presso il suo stesso patrono, gli orientalisti pongono,
oggi, la datazione del Nèiyè,
appartenente al corpus di un’altra scuola ancora, la daoista, emersa in
concomitanza alla progressiva diffusione del buddismo Chán e sostanziata nei
testi canonici del Dàodéjīng – il Libro della Via e della Virtù attribuito
all’ineffabile Lǎozǐ, di cui è tuttora aperta tra gli specialisti la questione
della storicità, laddove il mito lo immagina addirittura, sullo scorcio
conclusivo del cammino personale verso la saggezza, pellegrino nella lontana
India, dove sarebbe stato finanche il maestro del Buddha – e del non meno
favoloso Zhuāngzǐ, la quale si
discosterebbe dalla più saldamente radicata rújiā, al netto delle precisazioni
che l’amor di brevità impone qua di tralasciare, in misura del diverso contegno
consigliato al jūnzi, l’uomo esemplare, per quanto attiene al diretto
coinvolgimento nella prassi politica, senza con ciò inficiare il dato storico
che, al compiersi dell’unificazione del territorio in un consistente nucleo
imperiale, il primo sovrano, Qín Shǐ Huángdì (260 a.C.-210 a.C.), ordinasse, al
fine di preservare l’integrità del dominio dalle faziosità del dibattito
filosofico, il rogo dei libri di tutti gli orientamenti, compreso quello di Mòzǐ
(479 a.C.-381 a.C.), intento ad emendare la dottrina confuciana affinché il
cardinale principio del rén, la benevolenza verso l’umanità, non dovesse
abbracciare soltanto i propri congiunti e gradatamente attenuarsi verso i
restanti estranei, bensì la totalità dei propri simili, inclusi altri di cui non
è possibile dar conto, tant’è che, ancora adesso, a ricomporre i frammenti di
quanto salvato, non si tragga un disegno più chiaro di quello che dovette
balenar nelle menti agli oppressi che ne saggiarono le tenebre contemporanee.
Il Nèiyè, dove si insegna che «l’uomo
esemplare fa uso delle cose, non si lascia usare dalle cose, poiché coglie il
principio ordinatore dell’unità», «se regoli il corpo e raccogli in te la Virtù
efficace (dé), la benevolenza del Cielo (Tiān) e la giustizia della Terra (Dì)
verranno da sé in sovrabbondanza», «quando il cuore (xīn) ben regolato si
mantiene nel mezzo, i Diecimila esseri conseguono la giusta misura», finché si
è in tempo, il Libro della coltivazione
interiore è dunque un nodo propizio da cui prendere a dipanare l’intrigo
che la storia tesse attorno alle coscienze, per erodere le barriere che
segregano i popoli nella reciproca ignoranza, incamminarsi sulla via di una
sapienza infine monda dalla barbarie.
Giancarlo
Micheli
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