un articolo di Giancarlo Micheli
pubblicato sulla rivista Il Ponte – rivista di politica economia e
cultura fondata da Piero Calamandrei (Anno LXXV, n.5, settembre-ottobre 2019)
Si arriva in un coro di
attriti meccanici, lungo la linea ferrata in bilico sulle falesie che
precipitano nel golfo, quasi a capofitto. E camminando su questa esigua lingua rocciosa,
incontri poi una delle più ampie piazze dell’intero continente, consacrata
all’unità della nazione. Trieste è soprattutto una città di contrasti, cosicché
perdendosi per contrade e canisele
occorra quasi per avventura d’imboccare una porta scorrevole tramite la quale
accedere dalla Casa della letteratura a quella della musica, addentrarsi dal
caffè San Marco al Tommaseo; forse meglio che non in altri luoghi di confine
s’intende parlare un’eteroclita congerie d’idiomi: il tedesco dei turisti che,
serenamente a spasso verso Venedig sui lustri travertini delle zone urbane
pedonali, in cuor loro rimpiangono il possesso di un loro posto al sole
mediterraneo, per sottacere il croato, il serbo, il bosniaco, brusivi in certi
angusti fondaci dove s’accalca un desueto commercio, in un labirinto di capi di
vestiario i quali, in Occidente, parvero alla moda trent’anni fa ma che,
tutt’oggi, lì si vendono a buon mercato, per non dir poi del greco, del turco,
o di chissà che altro. D’altronde le frontiere linguistiche, non sarà vano ricordarlo,
attraversano i corpi prima ancora dei territori. Qualsivoglia sia l’autorità
che il lettore accordi loro, già i teorici della semiotica delle culture (Juij
Lotman, Boris Uspenskij) sostennero, nel cuore degli anni Settanta del secolo
scorso, che la minima condizione per lo sviluppo autonomo di una cultura fosse
una base almeno bilinguistica: una è la lingua che, a pieno titolo, definiamo
“madre”, compitata dapprima in infantili ecolalie sull’innesto delle elementari
verbalizzazioni dell’accudimento, l’altra quella strutturata nell’uso adulto, allo
scopo di ricoprire il campo semantico delle significazioni necessarie
all’accumulazione del sapere come capitale fisso della specie, lingua, è onesto
confessarlo, fino ad oggi storicamente adibita a fini prevalentemente
imperialistici.
In un punto tra i più
interrogativi tra quanti il pensiero dell’uomo, alla soglia del battito di
palpebre che ne è genealogia sulla scala dell’evoluzione cosmica, può fissare
nei templi della memoria, mentre prosegue ad istoriare la superficie del
pianeta quale pagina di una scrittura sorgiva e salubre, nel proprio castello
di Duino, all’estrema propaggine settentrionale dell’Adriatico, la prinzessin
Marie von Thurn und Taxis[1]
ospitò Rainer Maria Rilke affinché, nell’incipit della Prima Elegia duinese[2]
che compose con meno d’un paio d’anni d’anticipo sulla deflagrazione della
Grande Guerra, nell’imminenza della precoce bancarotta umanitaria della
borghesia, egli congiungesse le voci, i desideri e le promesse degli amanti di
ieri e di domani nella domanda: «Chi, se io gridassi, mi udrebbe negli alti
Ordini degli Angeli?».
Della risposta è
possibile farsi un’idea a patto di immaginarla mentre svanisce, un attimo prima
di averla distinta appena dallo sciabordio delle onde che sbattono, dinanzi
alla vigilia della visione ed allo sguardo affacciato al di là della finestra
del mastio. Vedi forse, allora, le onde spezzarsi contro lo scoglio cesellato
in foggia di dente di drago, ossequiente al mito cadmeo, eponimo del Vecchio Mondo[3],
purché tu le discerna in presentimento, quando ancora affiorano oltre brume
simboliste di un dipinto di Arnold Böcklin, oramai sottovento al più sontuoso
fortilizio di Miramare, che albergò la tragedia coloniale dell’imperatore
Massimiliano d’Asburgo, salpato, cinquant’anni avanti al soggiorno rilkiano,
alla volta del Messico da cui non avrebbe fatto ritorno, la salma venuta a
decomporsi dal sembiante tanto giovane e bello da aver destata l’invidia del
dio azteco Huitzilopotli[4]
pure in un’Ode barbara carducciana[5],
dalle cui strofe l’ultimo imperatore azteco[6]
gli aveva vaticinate «inferna» alla stregua di un dannato dantesco, e
veridicamente se gli annali riportano come non bastassero a salvarlo le truppe
francesi del generale Bazaine, che Napoléon le pétit gli aveva fornito, a guisa
di moderno pretorio ed a titolo di sovrana garanzia diplomatica, ma non fece a
tempo a riaverle indietro, lese nell’onore etnico e marziale, se non per
esporle all’umiliazione di Sedan e perché i superstiti di esse adempissero, sotto
l’egida prussiana, alla repressione della Comune di Parigi.
Pare sia invalso
oggigiorno il vezzo di considerare le rivoluzioni alla stregua di inciampi di
percorso, episodi in cui un carattere immaturo ed incline alla vanità si rivela
al destino adattivo della specie quale sarebbe specchiato nei protocolli
esecutivi dell’ordine tecnologico e di una relativa e miserabile sopravvivenza.
In ciò ritorna, appunto, il pensiero dogmatico e religioso, sotto un aggiornato
odore di eternità virtuale, nelle nuove costrizioni e contrizioni entro i
sacelli feticisti delle merci immateriali, scambiate contro l’unità valutaria
di una comune impotenza cognitiva. Se la poesia è ancora qualcosa, essa è da
sempre contrarietà ontologica a tale deriva degli eventi.
Di ciò esibisce pratica
dimostrazione uno dei pochi concorsi letterari che sia aperto alla
partecipazione di giovani poeti, sotto i trent’anni (all’incirca l’età cui i
legislatori dell’antica democrazia posero l’akmé, dopo la quale si considerava
completato il corso di studi e si acquisiva pertanto il diritto ad esercitare
cariche pubbliche), cosicché ne riesca, ogni primavera, rappresentato pressoché
l’integro spettro delle lingue parlate sul pianeta, giacché i testi vengono
valutati nelle lingue originali degli autori. A tale già lodevole
caratteristica distintiva il Concorso
internazionale di poesia e teatro Castello di Duino affianca l’altra, non
da meno, di esser tra i pochi a rimanere geloso della propria autonomia da ogni
logica editoriale, anche proprio in virtù del suo impegno internazionale che
richiede sguardo libero e purezza di giudizio per discernere nel modo più
adeguato tra diversi canoni letterari e modalità espressive. Il Duino, giunto all’adolescenza, all’età
cui i cittadini solerono entrare al ginnasio sotto l’autorità dell’istruzione
di Stato ma in un’epoca in cui è affatto prudente dubitare sulla durevolezza di
simili consuetudini, è il frutto dell’ingegno e della passione di una donna
infaticabile, partita da Napoli, dove ricevette l’avviamento agli studi che non
avrebbe più abbandonati, trasferitasi quindi in Calabria, dove contribuì alla
fondazione dell’Università locale, emigrata poi a Trieste per trovarvi, in una
fase della vita cui il costume di ora in ora addestra alla rassegnazione e alla
rinuncia, l’amore, un’ideale e concreta prosecuzione della giovinezza, un
principio di guarigione, pur nella selva oscura sulla quale filtra la luce
crepuscolare dell’estrema preistoria umana. Sì, i giovani poeti di ogni angolo
del mondo che, nella città cara a Rilke, a Joyce e a molti altri, s’incontrano
al compiersi di ogni rivoluzione terrestre compongono una figura in grado di
trattenere le lancette dell’orologio apocalittico, di rimettere le sveglie e le
sirene delle fabbriche ad un segno infine umano, sono le donne e gli uomini ai
quali i sopravvissuti dell’antropocene possono affidare il messaggio, il fiore,
il tozzo di pane che sono vissuti per cavar fuori dalle rovine.
Ogni anno la giuria, della
quale sono onorato di far parte, premia e segnala un gruppo di testi che
comporranno un volumetto, sul quale un ideale lettore di poesia potrà gettare
uno sguardo più lungimirante di quello cui forse lo sedurrebbe una ricerca
troppo ligia al dogma individualista. Nella poesia Camminare insieme agli anelli del tempo il cinese Kewei Wang mostra
un reperto dell’oscenità dietro le apoteosi edilizie della costa produttivista,
descrivendo un villaggio che potrebbe esser benissimo quello dove l’autore è
nato od un altro tra gli innumerevoli dove il dente predatorio incide la carne vivente,
la rode in un tempo sospeso tra antropofagia e compassione: «Sull’altro fianco
della montagna si trova il confine della città, di tanto in tanto si ode un
forte rumore./ La polvere sale al cielo tremando, il torrente spaventato piange
lacrime nere/ Piano piano le macchine strappano la pelle della Terra./ Il
bambino dice che il martello sta uccidendo la gente/ La luce del sole sta in
silenzio, mio padre mi consegna una mascherina/ Scatto una foto, mentre osservo
insieme agli altri./ Io e mio padre camminiamo insieme, lui dice/ che metto il
dito nel naso come il nonno/ Nego ridendo, non voglio essere un muratore per
costruire una casa./ Sulla via del ritorno, non mi sento più di camminare
insieme a mio padre/ Sono molto afflitto: in futuro dove seppellirò mio padre?/
Non sarà inghiottito dagli escavatori»[7].
Ciascuna edizione chiama ad esprimersi su un tema, quello della XIII, tenutasi
nell’anno 2017, è stato “Generazioni”. Era inevitabile che uno sguardo ci
riportasse alla realtà delle guerre in cui si sfregia la specie. Il trapasso
delle generazioni, nella poesia Ricordi
d’infanzia di qua del nigeriano Chinwa Ezenwa-Ohaeto, sfuma nell’apparente
stasi in cui l’urgenza dell’atrocità la trattiene: «Senti una guerra infinita/
di cui non puoi dire l’inizio e che pure risorge di generazione in generazione/
attraverso i tuoi ricordi d’infanzia; come se tu avessi/ indossato volti che
non potevi riconoscere, senti i tuoi ricordi d’infanzia/ come eterni rovi che
riaccendono profondi dolori e tristezza e morti gigli dentro di te,/ senti
ostilità gonfiarsi negli occhi di quelli che portasti qua/ e nei cuori di
quelli che essi portarono a loro volta»[8].
L’autore, avendo perseverato a scriver versi nell’inferno di violenze civili e
religiose cui l’imperialismo di tutte le bandiere ha ridotto la sua terra, dove
le falde acquifere sono contaminate dagli sversamenti di petrolio di
un’industria estrattiva che ha ben poco veridica eccellenza da vantare e dove,
pur tuttavia, la casta locale ha pieno agio di compensare, con dosi suppletive
di brutalità, la gesuitica nequizia riguardo al cui razionale impiego deve ancora
colmare un vistoso divario rispetto ai modelli coloniali, l’autore, dunque,
nella recente XIV edizione del Duino, ha meritato, se non l’emancipazione a
diritti di cittadinanza universale, almeno di essere promosso dal novero dei
segnalati al primo premio, valsogli dalla poesia Casa mia: possa un’alba portare nuovo sorriso su di essa, nella
quale ha interpretato il nuovo tema, la “Casa” appunto, con realistica
veemenza: «La mia casa è un oceano pieno di tempeste e paura:/ Puoi trovarvi le
mie sorelle in hijab –/ Le cui fibre sono tutte state spezzate dai ragazzi/ Che
sparsero sperma tra le loro cosce – annegate nelle lagune;/ Puoi trovarvi i
miei fratelli in bandana le cui vite e i cui polmoni/ Sono affumicati da foglie
macerate;/ Puoi trovarvi bambini che sanno ridere come sconosciuti e che/ Sono
battuti dalla fame e decorati dalla sporcizia e sono spot di malattie./ La mia
casa è una città dove il fuoco divampa in tutte le cose per morire»[9].
Corroborare, tramite un esauriente commento lessicologico e grammaticale, il
lavoro che si concretizza in una traduzione tra contesti resi tra loro tanto
difficilmente comunicativi quanto le strutture economico-linguistiche
consentono in una fase storica votata a crudeltà persino inconsapevoli,
richiederebbe un tempo ed uno spazio che i medesimi vincoli al principio di
realtà non concedono, se è vero quel che narra, richiamandosi dal Messico
all’attualità di una tipologia di catastrofe naturale che non risparmia i
parlanti di nessuno degli idiomi in uso sul pianeta, Alan Bojórquez Mendoza in Appuntamento con la morte: «Sono la
vittima risparmiata dalla pelle crollata della memoria/ Agli edifici (santuari
dell’anima) non fu sufficiente la forza delle cosce/ per rimanere in piedi»[10].
Oltre che a Chinwa e Alan il massimo riconoscimento per l’ultima edizione è
stato condiviso da una terza voce poetica, stavolta femminile. Sarah Lubala,
nata da genitori camerunensi, è cresciuta in Sudafrica e ha spiegato nel suo
testo Cosa dire al Funzionario
dell’Immigrazione quando ti domanda da dove vieni: «Dì la pancia dell’arida/
stagione/ dì la frustata della terra/ dì che inghiottisti/ intere regioni/ dì
che sputasti solo cenere»[11].
Vi è da cogliere forse un insegnamento, assieme ad un esempio della dialettica
intersoggettiva operante nel linguaggio dei popoli che è la poesia, nel verso
conclusivo di Borderlines di Mark
Veznaver: «Il senso dei confini è attraversarli»[12];
alla stessa stregua, si può ritenere enunci una promessa che verrà mantenuta la
clausola di Biografia di Lucía
Bonilla Molina: «Siamo la discendenza tangibile/ del miracolo che ci precede.//
Dentro,/ molto dentro:/ risplendo costellazioni»[13].
Come ho scritto nella motivazione al premio assegnato a Chinwa Ezenwa-Ohaeto, alla
comunità che sapranno costruire questi giovani poeti è saggio e democratico (l’etimologia
di tale termine accosta a démos, il popolo, cràtos, personificazione della
Potenza, dell’energia della deliberazione consapevole, sorella mitologica di
Bìa, di Zelo e di Nike) porgere auspicio affinché trovi “la forza di emendare
la massima shelleyana che li nomina «futuri legislatori del mondo» solo a patto
di essere «inascoltati»[14]”.
Dal punto di vista
pratico l’organizzazione del Concorso, la cui premiazione avviene ogni volta
all’interno di un nutrito calendario di eventi della Festa della letteratura, comprendente
quest’anno pure un interessante seminario su teoria e pratica della traduzione
di testi letterari tenutosi presso l’Università di Trieste, è resa possibile –
oltre che dal patrocinio dell’Unesco e del Ministero degli Esteri, dal
contributo della Regione Friuli Venezia Giulia e dal contributo e dalla
collaborazione di varie fondazioni e associazioni, tra le quali in primis la promotrice Associazione
Poesia e solidarietà – soprattutto ad opera dell’impegno di molte cittadine e
cittadini, ad esempio lo “sposo”, come dice lei, di Gabriella, Ottavio Gruber,
il quale, dopo aver navigato molti anni nella marina mercantile, giunto ad
un’età a cui in maggioranza si ambisce a tirare i remi in barca, rimane uno dei
più attivi nel dare ospitalità ai giovani poeti, compone la grafica delle
copertine delle sillogi e dà man forte alla “sposa” negli adempimenti più faticosi.
Giudichi il lettore, in
totale arbitrio, se non sia lecito affermare che già adesso l’umanità sia
talvolta in grado di difendere – contro il potere economico globalizzatore, che
invano pretenderà su di essi una mistificatoria esclusiva per ipotecare il
futuro entro i ristretti limiti della propria visione miope e distorta – e
lasciare che si compiano in libertà i genuini atti espressivi i quali, una
volta, furono creduti miracoli.
[1] La famiglia Della Torre appartenne alla fazione guelfa della
nobiltà lombarda fin dal XII secolo. Un ramo della gens, i von Thurn Valsassina,
vassallo di Carlo V d’Asburgo, si stabilì dapprima in Friuli ed acquisì la
proprietà del castello di Duino nel 1587. Da esso discendeva la principessa
Marie von Thurn und Taxis (1855-1934), prosecutrice di una tradizione di
mecenatismo nei confronti di letterati, musicisti, filosofi e poeti.
[2] Rainer Maria Rilke, Duineser
Elegien, Insel Verlag, Leipzig, 1923; ed.it. Elegie duinesi, Einaudi, Torino, 1978. «Wer, wenn ich schriee, hörte mich
denn aus der Engel/ Ordnungen?»
[3] Secondo il mito, Europa, figlia del re fenicio Agenore,
venne rapita da Zeus, dissimulato in sembiante di toro, e da questi trascinata
per mare fino a Creta. Cadmo, fratello di lei, venne quindi incaricato dal
padre di ritrovarla. Approdato in Grecia, egli vi fondò Tebe, grazie all’aiuto
degli Sparti, guerrieri nati, per benevola intercessione di Atena, dai denti
del drago, custode della sorgente cittadina, che egli era stato capace di
sconfiggere solo al prezzo della perdita di tutti i compagni.
[4] Huitzilopochtli, dio azteco della guerra e del sole.
[5] Giosuè Carducci, Miramar
in Terze odi barbare, Zanichelli,
Bologna, 1889. «Tra boschi immani d’agavi non mai/ mobili ad aura di benigno
vento,/ sta ne la sua piramide, vampante/ livide fiamme// per la tenèbra
tropicale, il dio/ Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,/ e navigando il
pelago co ’l guardo/ ulula — Vieni.»
[6] «Guatemozino», come Carducci traslitterò, contenendolo nella
metrica dell’endecasillabo, l’ossitono Cuauhtemoc, relativo all’ultimo sovrano resistente
alla dominazione spagnola di Hernan Cortés, da questi fatto impiccare sul
patibolo di Izancanac nel febbraio del 1525.
[7] Generazioni
Generations. Concorso internazionale di poesia “Castello di Duino”. Tredicesima
edizione, Ibiskos, Empoli, 2017, p.48.
[8] Ivi, p. 91.
[9] Casa / Home. Concorso
internazionale di poesia “Castello di Duino”. Quattordicesima edizione,
Ibiskos, Empoli, 2018, p.45.
[10] Ivi, p.48.
[11] Ivi, p. 47.
[12] Generazioni
Generations. Concorso internazionale di poesia “Castello di Duino”. Tredicesima
edizione, Ibiskos, Empoli, 2017, p. 144.
[13] Ivi, p. 58.
[14] Percy Bysshe
Shelley, A defense of Poetry in Essays, Letters from Abroad, Translations
and Fragments, Edward Moxon, London, 1840; ed.it. Difesa della Poesia, Rusconi, Milano, 1999. «Poets are the
unacknowledged legislators of the world.»
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