Una recensione di Carmen De Stasio
al romanzo Esposizione dell’Amore (Campanotto,
2023)
pubblicata in Il Ponte (Anno LXXX, n.1,
gennaio-febbraio 2024)
La
narrazione s’infittisce negli eventi con un nitore che addensa l’ambiente,
consegnando la sostanza del tempo narrato e del tempo descritto. Riprendiamo il
filo, dunque, con una narrativa che mette insieme fatti di realtà con una
costruzione del tutto immaginale. Con questo afflato, Giancarlo Micheli
presenta al lettore il romanzo Esposizione dell’Amore e ancora una volta
non manca di lavorare in simultaneità su tre piani proattivi, conseguendo
risultati a dir poco di pienezza. Quali i piani a cui mi riferisco: la varietà
di contesti storici non soltanto come mero sfondo agli accadimenti individuali
di quel che riconosciamo come vero protagonista del romanzo, vale a dire il
tempo compreso tra l’Esposizione Internazionale che nel 1889 rende Parigi cuore
pulsante dell’ascesa creativo-industrializzata dell’occidente, e il tempo
tormentato della guerra civile in Spagna nel 1936; la storicizzazione degli
eventi correlati in quel frangente situazionale, insieme alla modalità di
congiungerli in maniera congrua; non ultima, l’ambientazione attitudinale,
mediante la quale alcuni dei personaggi colti in conversazione tra loro svelano
impressioni rilevando in concordanza le proprie scelte. Il quarto e non meno
importante cardine del romanzo – riprendendo il primo piano di riferimento ivi
riportato – è il tempo dalle vicende legate al fermento tecnologico al tramonto
del diciannovesimo secolo, fin nel cuore delle trame di un tempo nel suo ruolo
di magistrale interlocutore.
Un
compendio di narrazioni si intreccia a cogliere eventi indiscutibili insieme
alle impressioni e alle realtà di ciascun protagonista, fermo restando che
anche i luoghi raccolgano la testimonianza di quel che avviene, afferrandosi
alla simultaneità di ciò che è di carattere sociale, politico e che vede la sua
espressione confluire nella tematica dell’arte, laddove sembra coniugarsi il
fervore di decisioni che sovvertono un temperamento votato al ristagno. E che
cosa avviene, se non l’incastro di decisioni alla luce di decisioni politiche nella
contrazione di come l’arte sia il baricentro di raccolta e di memoria e
all’insegna della quale qualcosa va cambiando a un livello meta-topico, dove nulla
ha luogo in casualità e non sfugge come ciascuna proposizione, ciascuna parola
– che sia programmata interlocutoria, piuttosto che una semplice incisione –
permetta di dilatare la concezione talora fustigata da brevità che il tempo in
fuga proietta sulle menti impigrite da assente ricerca. Al contrario, si palesa
fin dall’esordio la trama articolata di quello che mi sovviene definire romanzo
di un tempo, romanzo di individuali presenze, alle quali si deve l’andare
storico, avversando tanto la fuga dis-conoscitiva, che la marmorizzazione
rispetto alla realtà dei fatti che induce a trattare i medesimi capitali eventi
al pari di quadri appesi molto in alto su una parete e pertanto
irraggiungibili. Giancarlo Micheli strappa la tela dalla parete e la accosta
allo sguardo-mente nella consapevolezza di vivere un tempo altro nel bisogno
di imprese e di eccellenza[1].
In altri
termini, l’amore che anima la trama del libro si svolge per piani in
convergenza e un invito richiama ad uscire dalla fissità prestata a manuali
d’antologia, a una distaccata elencazione di date e di nomi e di tutto quanto
ne sia contorno, per consentire, invece, una penetrazione che sia avanguardia
del plausibile. Per far questo, la stesura non può che essere capillare, quanto
coordinata per proposizioni esplicative, in un intento che riunisce sensibilità
e prassi verbale in un agglomerato di forze, le stesse che rendono la
simultanea soggettività-oggettività. Tanti e tutti equamente significativi,
dunque, i personaggi in scena rimandano a situazioni, a scelte fuori scena, e
che, nonostante il “fuori scena”, rimarcano l’impegno razionale in forma di
accadimenti dal tenore etico, oltre che epico, mai disgiungendosi da una realtà
proposta in un’integralità tesa a dar sostegno a un bisogno concreto di voltar
pagina. Così non solo vediamo comparire in scena personaggi che nell’oggi
sappiamo abbiano segnato la storia del progresso quali l’uomo d’affari Henri Menier, il politico Edouard
André, il poeta surrealista – e amico di André Breton – Benjamin Péret, la cui figura è capitale nell’evolversi
narrativo del romanzo per via del richiamo a personalità di magistrale
formazione: tutti muovono la direzione degli eventi e il loro clima in un
concatenarsi che esprime la pervicace pennellata su una tela (come evinciamo
dall’incipit del Capitolo terzo) per riprendere le redini con i
campi della conoscenza e ad essi rendere merito nella pienezza etica del
rigore, quanto dell’equilibrio nel dosare la voce esteriore con una lucida
comprensività di tesi intime in sinergia dentro-fuori e agendo al di fuori di
qualsiasi metamorfismo.
Con Esposizione
dell’Amore ci troviamo, dunque, alle prese con tutto quanto si rapprenda
dalla realtà trattenendone il riconoscimento causale, oserei dire prospettico,
quanto delineato come una sorta di rinnovabile mise en abyme di stampo
surrealista (corrente che si presenta diffusamente nel libro quale luogo di
immersione e di svolgimento) che dispone il tutto simultaneo, attendendo a una
scientificità che sconvolge una definitività negligente, propendendo per una
coloritura a campo vasto e rispondendo nella mediazione di un linguaggio rigoroso
e coerente, nel quale risuona il segno rivoluzionario di un’identità storica da
recuperare e da non dimenticare.
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