recensione al romanzo La grazia sufficiente (Campanotto, Udine 2010) di
Giancarlo Micheli
pubblicata in Nuova provincia - marzo 2013
A distanza di anni dalla lettura di un
celebre libro di Roland Barthes, La grazia sufficiente di Giancarlo
Micheli (Campanotto, Udine, 2010) è romanzo rivelato, venuto come
qualcosa che accade. Anzi riaccade come «impero dei segni», riaccade non già
come mera narrazione sul Giappone, ma senza interferenze con l’idea formale
dell’essai barthesiano riaccade come narrazione sospesa (sospeso è
quest’haiku narrativo di Micheli) tra due realtà geoculturali,
l’Occidente e (con atto d’amore e intelligenza) l’Oriente nipponico.
Più che per ideale sovrapposizione
romanzesca all’Impero di Barthes, La grazia sufficiente, autenticando
un déjà–vu critico–memoriale (che è dato puramente confinato nella
volontarietà del memorabile), è saliente esemplare nell’identificarsi come
romanzo di montaggio. La Grazia è un film narrativo a sequenze alternate
ed interepocali, valga a confermarlo l’incipit primo–novecentesco del
lavoro d’usciere di Taisho presso il Nagasaki Medical College (dove si tiene un
convegno di linguistica) ovvero l’età della civiltà moderna, e l’affondo, della
Nagasaki di Taisho vera e propria analessi all’imbocco del moderno, nella
stupenda sequenza del naufrago del Tweede Liefde, Baruch Dekker, personaggio
collettore tra l’Occidente olandese e l’Oriente, un europeo del Seicento cui
l’orizzonte destinale è l’approdo nipponico.
Ma La grazia sufficiente, nei tre
secoli aperti tra le vite di Taisho e Baruch espone un centro, espone l’idea
del romanzo. Qui Micheli rivela – per rimanere dalle parti di Barthes – il
senso obtusus, ciò che è apertura e disvelamento, ciò che spalanca
l’infinito del pensiero. Al riguardo, è utile una premessa. Anzi, di più. È il
riferimento ad un centro della letteratura mitteleuropea, al mito abbagliante
dell’Azione Parallela, resa celebre da Robert Musil nell’Uomo senza qualità.
La grazia sufficiente sembra collocarsi nel novero di quelle opere in
cui il progresso della civiltà, la mitologia secolarizzata del Regno
Millenario, l’ideale del mondo nuovo e la grandeur, espressa ad esempio
dal colonnello Ishiwara nel prodigioso attacco del suo discorso («Il compito di
civiltà che spetta alla nostra nazione…»), di per sé esprimono la condizione
esemplare dell’idea, idea che nella Grazia è calibrata come mito
personale di Taisho e Baruch. Sembra di udire l’eco di parole note ai fanatici
dell’Uomo musiliano, parole che potrebbero affiorare dalle labbra del
conte Leinsdorf o balenare come credi iperuranî dall’apostolo dell’Azione
Parallela, Diotima.
Un romanzo dell’idea è quindi La grazia
sufficiente, un’idea ancipite, poiché alternata tra Taisho e l’ingresso nel
«reggimento di fanteria Shimamoto», e Baruch, naufrago, amante della pittura e
del teatro, ostaggio a Deshima, idea quindi che si fa Storia maior
(Taisho) e storia minor (Baruch), idea che costruisce un universale di
pensiero, la Storia di Taisho e la storia di Baruch come modelli riflessi in
un’ideale camera a specchi, la verità della vita vissuta. La vita di Baruch, la
sua storia di nipponizzazione ontologica passa dalla cultura (e dal
lavoro), poiché il capitano olandese si trapianta in Giappone, mentre Taisho
vive nella Storia nipponica. Ma Taisho e Baruch, tra la Storia come azione
bellica e la storia talvolta edulcorata (pittura, teatro), veicolano entrambi
una spiccata inclinazione memoriale. Anzi, il ricordo o la féerie
adempie una funzione di schiusura del tempo, vale a dire che la Storia di
Taisho (la guerra) è abitata dalla storia (le «visionarie fantasticherie», la
madre, il padre…) mentre la storia di Baruch (che è soprattutto la vita con
Netsuki e Aikyo) è abitata dalla Storia (il glorioso passato del Liefde).
Se i tasselli memoriali della Grazia non segnalano presenze di
proustismo nel narratore (Micheli narra in terza persona), d’indole proustiana
è dunque il personaggio, non già per la mania di memorialità, ma per un certo
modo di apparire della memoria come via che rigenera, così in Taisho come in
Baruch, via che si rigenera nel memorabile. Ma la storia (maior e minor)
e la memoria, il memorabile della vita, nella Grazia sembrano salire
a un’acme, poiché condizione inderogabile della sua identità, a un saliente
inatteso della narrazione: la violenza. Che è come dire che la Storia (maior
e minor) si rivela quel che è: violenza dell’uomo all’uomo. La
memoria è quindi un antidoto alla violenza, una droga necessaria a
neutralizzare il reale per il sogno, il vero per l’ideale, l’immanente per
l’idea trascendente.
Non a caso, appena il memorabile scava nella memoria di una recherche
autobiografica (in Taisho e in Baruch), la violenza si fa nome della
storia. Non vi è quindi confine tra l’orizzonte multiculturale di Baruch e le res
gestae di Taisho, la violenza (la faida religiosa nelle visioni, la
vita a Deshima per Baruch, la morte del compagno Taro sul campo di
battaglia, la morte della madre per Taisho) satura la scena, brutalmente
scardinando la tentazione del rivissuto memorabile, e così inchiodando
il destino (anche del romanzesco), al vissuto tragico dell’esperienza.
La grazia sufficiente vira dunque altrove: il memorabile della
memoria si fa immemorabilità nella violenza. Ma il destino di vita
violenta, di storia violenta per il militare Taisho o per il “forzato” Baruch,
tra la libera volontà di combattere con l’esercito giapponese (Taisho) o di
esserne prigioniero (Baruch a Deshima), tra la guerra e la «vita in cattività»,
nella sintesi morale di Baruch matura in un’epopea del rifiuto.
All’amico Cornelisz van Nejenroode e al dolore manifestato per la vita di
Deshima (intesa irreversibile), Baruch oppone non già la speranza della
redenzione, oppone semmai scetticismo riguardo alla «dottrina della
predestinazione o della grazia sufficiente», un empito di scetticismo
autenticato dall’epica fuga notturna dall’isola dopo avere ritrovato il proprio
amore perduto, Netsuki.
Se Baruch
sovverte l’idea di predestinazione (guadagnando alla storia l’aureola perduta
della felicità), Taisho prova a sovvertire il destino, «incrollabile nella sua
risoluzione di vedere la madre», benché al suo ritorno dalla guerra, Araki (un
vicino di casa) confessi al giovane l’avvenuta morte della donna. Ricomporre la
tela infranta della vita, per Baruch culmina nella riconquista del tempo perduto
(il tempo ritrovato di Netsuki), nella cancellazione della storia come
violenza, per Taisho nello sprofondamento al nulla, o meglio in una caduta
apocalittica (la coscienza della morte materna) vissuta quale condizione
preliminare e unica per ricollocare sé nel mondo, sia anche attraverso la più
remota possibilità – che è parsa un’indimenticabile quanto involontaria
citazione dell’Atalante di Jean Vigo –, l’esercizio dell’immaginario,
rivedere come in sogno una figura di giovane donna (déjà–vu e desiderio),
rivedere, nella potenza di un’epifania mentale, di un’ennesima razos
visionaria, l’oggetto creaturale di un’allegoria, unica via per ricondurre al
tempo dell’essere ciò che ormai non è più: la madre perduta, la vita sognata.
Neil Novello
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