articolo di Giancarlo
Micheli
Per
orientarsi nel panorama vallonato della poesia e della narrativa francesi
durante l’anno della Comune di Parigi, sarebbe capzioso stabilire un sistema di
riferimento che non si fondi su cognizioni personalmente maturate e su
un’attenta analisi filologica, tant’è che la vastità del campo d’indagine, il
quale si rivelerebbe ex abrupto
esteso ben al di là delle aspettative di chi si prefiggesse un tale scopo,
scoraggi ad adottare criteri di selezione che esulino dall’imponderabile e
dalle inclinazioni personali. D’altronde, laddove sia sacrosanto mirare ad un
enciclopedismo in cui esaudire la completezza e la coerenza della memoria,
tendere al fine di una coscienza di specie, i limiti della soggettività
opporranno resistenza, in ogni tempo, a lasciarsi penetrare passivamente da un
unico codice “imperialista”, vuoi pur declinato in tutti i contesti idiomatici
producibili dal funzionamento tecnico del sistema di produzione
(capitalistico). Quest’ultimo, per quanta intelligenza artificiale sappia
introdurre nelle transazioni finanziarie ed in tutti i processi che emulano
pateticamente gli effetti della vita, non è ancora assurto a dogma di fede nel sentimento
comune, neppure nella misura che basti ad adempiere i protocolli concepiti dai
miopi veggenti che ne arbitrano l’applicazione, sicché risulti viepiù remota
l’eventualità che venga presto il giorno in cui il sapere accademico attingerà
il referente oggettivo delle proprie logiche speculazioni in modo da tenere in
pugno il “potere” sulla sola parola, viepiù peregrina di quella di chi ambisca metterlo
alla prova nell’intento di sondarvi la consistenza dello spirito, quale
variabile creativa sopra ad un preciso culmine tra i rami dell’evoluzione
cosmica. Se qua la stadera, su cui il forte ed il debole sono stati sottoposti
alla psicostasia che ebbe per antesignani padri e dottori della Chiesa,
Friedrich Nietzsche ed un’intera genealogia di robusti intelletti, se qua essa
prende connotazioni sorprendenti, non è che in forza della medesima ironia che,
nell’incipit di un mio precedente
articolo su Lautréamont,
ponevo a metà strada sulla via verso la guarigione, cammino impraticabile in un
mondo umano il quale si è potuto fino ad oggi conoscere solo attraverso tanto
male che, quand’anche non assoluto, preclude la possibilità di tollerarlo sic et simpliciter. Esso deve essere
dunque negato, ma per affermare al suo posto una verità, non una menzogna.
Nella
narrazione della realtà, qual è organizzata dal fine del profitto capitalistico
e dalla divisione del lavoro che distribuisce nozioni e facoltà sul correlativo
corpo sociale globalizzato, i luoghi dove le donne e gli uomini potrebbero
ancora, in ogni istante, principiare la costruzione di un mondo infine
abitabile sono espropriati ben prima che essi abbiano l’opportunità di mettervi
piede, dal momento che lo spazio tende, nelle loro percezioni, a costituirsi
nella serie intensiva di una totalità astratta, congruente ad un sistema di
comportamenti programmabili o comunque prevedibili. Sotto l’egida di questi
fondamenti ideologici si attua l’odierno controllo sociale, fatti salvi i casi
di esibita brutalità che confermino la regola, tramite un preordinato
repertorio di scelte le quali, ai soggetti che le compiono, paiano
consapevolmente deliberate. Ogni piazza, strada, officina o residenza è
popolata dallo spettro di tale rete significante, colonizzatrice delle residue
coscienze, a guisa di infezione endemica o di dottrina dell’imperialismo
schizofrenico su cui uno sguardo compassionevole ha orrore a schiudersi. Nulla
vieta che, in questo regime, invalga la moda di fingersi, dei luoghi, la
profonda stratificazione storica che li impregna del vissuto delle generazioni
che precedettero la nostra. Vediamo, pertanto, di cogliere l’occasione che ha
tutta l’aria di sfrecciare davanti a ciascuno sulla cresta dell’onda dei suoi
stessi riflessi condizionati: proviamo a prefiggerci uno scopo che, foss’anche
in forza di un espediente ingannevole, travalichi la semplice produzione
materiale, acceda quindi al regno della libertà come, giusto durante gli anni
in breccia all’ultimo trentennio del diciannovesimo secolo, Karl Marx lo andò
postulando negli appunti preparatori di quello che sarebbe divenuto il III
libro del Capitale.
Affinché
la storia abbia un simulacro di coerenza e completezza abbisogna anche di
personaggi; ne individueremo tre, dovendo, per quanto attiene ai luoghi,
contenerci invece a due soltanto: uno ove ambientare la scena iniziale ed uno
per l’epilogo, giacché non sarebbe onesto pretendere dall’umanità contemporanea
che essa si senta toccata altrove che nel proprio destino mortale, contuttoché
della principale vittoria, quantunque effimera, nella lotta contro
l’oppressione capitalista – la rivoluzione d’Ottobre –, non si sono di certo
diffusi nella cultura di massa i fondamenti utopici del cosmismo di Nikolaj Fëdorov o di Kostantin Ciolkovskij, i quali
pur tuttavia ne composero lo sfondo ‘esoterico’, intesi a donare alla specie
l’immortalità, la resurrezione e la virtù di adattarsi alle condizioni di
esistenza nell’intero universo.
La
notte che precedette il diffondersi della notizia della disfatta di Sedan e la
proclamazione della decadenza dell’Impero, Victor Hugo, «qui un alexandrin
tenait au rivage» da quasi
diciannove anni, rientrò a Parigi alla Gare du Nord. Si trattava di
un’infrastruttura di recente edificazione, frutto di un investimento dalla
notevole redditività, giacché sui suoi binari era convogliato il crescente
traffico verso la Manica e il Belgio. Qualche sera prima, proveniente da
Charleville – cittadina ardennese posta sulla linea che procede poi in
direzione di Bruxelles, e che Zola,
nel prendere spunto dalle nefaste vicende di cronaca, avrebbe descritta frivola
e gaudente a paragone della vicina ed austera Sedan, dove intanto Louis
Napoléon pativa l’onta della prigionia –, era sbarcato alla Gare du Nord il
sedicenne Arthur Rimbaud, alla prima delle numerose fughe dai repressivi
cronotopi della propria esistenza, le quali si sarebbero concluse solo quando «galloping through Africa, he dreamed/ Of a new self, a son, an engineer,/ His truth acceptable to lying men». Una volta sceso sulla
banchina ferroviaria, egli non aveva riscosso l’attenzione altro che di un
solerte controllore il quale, trovatolo sprovvisto di regolare titolo di
viaggio, lo affidò alla giustizia. Il ragazzo trascorse dunque alcuni giorni,
durante i quali i primi moti di piazza accompagnarono l’instaurazione del
Governo di difesa nazionale, in una cella del carcere di Mazas, dove sia il
Bonaparte che i suoi successori della sinistra repubblicana solevano spedire
anche qualche oppositore politico. Il poeta dette espressione alla propria
comprensibile rabbia schizzando un sonetto, Morts
de Quatre-vingt-douze, risposta satirica ad un
articolo del quotidiano bonapartista «Le Pays», che gli era capitato
sott’occhio qualche giorno avanti e nel quale il direttore della testata,
Bernard-Adolphe de Cassagnac, aveva incitato i francesi
alla strenua difesa, a rinnovellare il patriottismo e l’audacia della Prima
Repubblica. Sebbene avesse optato per arrivarvi nottetempo, così da evitare
precoci estetizzazioni che non gli si addicevano, Hugo aveva trovato invece una
fitta schiera di ammiratori acclamanti sotto alla pensilina della stazione nel
X arrondissement. Nei giorni
successivi, una lettura pubblica del suo poema Les Châtiments servì a raccogliere i fondi per la fusione di uno
dei nuovi cannoni con cui i cittadini si preoccuparono di munire in extremis i bastioni della cinta
muraria.
Intanto, in un appartamento situato al numero civico 7 di rue
du Faubourg-Montmartre, Isidore Ducasse, il giovane autore degli epocali Chants de Maldoror,
le copie della cui esigua tiratura l’editore Lacroix sequestrava nel proprio
magazzino nel timore di eventuali scandali, fu tra le prime vittime
dell’assedio, che si sarebbe protratto mietendo strage per ben cinque mesi, e
morì in solitudine, stroncato dalla tisi.
All’annuncio dell’armistizio, Hugo venne eletto come delegato
parigino nell’assemblea incaricata di ratificare i trattati con i prussiani.
Accanto a lui, sui banchi installati nel teatro di Bordeaux, sede acconcia di
quell’esordiente politica spettacolare, trovò posto, forte anch’egli del
mandato conferitogli dal suffragio popolare, persino Giuseppe Garibaldi. Quando
l’eroe dei due mondi fu irriso e sbeffeggiato dai deputati della retriva maggioranza
rurale che andò tempestivamente a radunarsi attorno al navigato statista del
liberalismo monarchico Adolphe Thiers, l’autore dei Misérables, accorso a salvaguardia dell’incolumità del glorioso
vegliardo, venne malmenato senza pietà.
Il 18 marzo 1871 esplose la rivolta che portò alla nascita
della Comune. I cittadini si opposero ai reparti dell’esercito venuti a
requisire le bocche da fuoco nei depositi di Montmartre, di Belleville, dei
Buttes Chaumont. Alla Bastille, mentre le Guardie nazionali fraternizzavano con
i soldati, un improvviso silenzio calò sulla folla festante allorché, alla
testa di un folto corteo funebre proveniente dalla Gare d’Orléans e diretto al
cimitero di Père Lachaise, un vecchio canuto incedette dietro ad un feretro: si
trattava di Victor Hugo, appena rientrato da Bordeaux con la salma del figlio
Charles, fulminato da un colpo apoplettico a soli quarant’anni mentre si recava
ad un appuntamento con il genitore per cenare assieme in un ristorante del
capoluogo della Gironda.
A Maggio i contingenti racimolati dal governo di Versailles
con la compiacenza degli occupanti bonificarono infine la roccaforte della
resistenza comunarda. Contemporanei martiri furono immolati, nessuno dei quali
vantò la miracolosa prerogativa che l’agiografia attribuisce a Saint Denis, il
vescovo che agli albori del cristianesimo, nel III secolo, sarebbe stato in
grado di portare lui stesso il capo che gli era stato reciso, dalla cima della
collina di Montmartre fino al luogo di sepoltura, dove sarebbe poi sorta la
basilica intitolata al suo culto; essi giacquero,
piuttosto, sui selciati o sull’erba, condivisero la sorte dei tanti piouspious
di cui un altro sonetto rimbaudiano andò a scoprire l’emblematico fuori scena:
C’est un trou de verdure où chante
une rivière
Accrochant follement aux herbes des
haillons
D’argent ; où le soleil, de la montagne fière,
Luit: c’est un petit val qui mousse de rayons.
Un soldat jeune, bouche ouverte, tête nue,
Et la nuque baignant dans le frais
cresson bleu,
Dort; il est étendu dans l’herbe,
sous la nue,
Pâle dans son lit vert où la lumière
pleut.
Les pieds dans les glaïeuls, il dort.
Souriant comme
Sourirait un enfant
malade, il fait un somme:
Nature, berce-le
chaudement : il a froid.
Les parfums ne font
pas frissonner sa narine;
Il dort dans le soleil, la main sur sa
poitrine
Tranquille. Il a deux trous rouges au côté
droit.
Mentre
gli infelici – anche vecchi, donne e bambini – dormivano per sempre, un devoto
cattolico della capitale, monsieur Alexandre Legentil, pronunciò un voto
solenne dinanzi al proprio confessore, affinché, in espiazione dei peccati
della Comune, proprio nel luogo dove il popolo aveva rifiutato di consegnare
alle truppe del Thiers i cannoni per la difesa di Parigi venisse eretto un
santuario dedicato al Sacro Cuore di Gesù. In mezzo secolo, grazie alle
elemosine di circa dieci milioni di fedeli, venne messa assieme la cifra
sufficiente e, nel corso degli anni Venti del ventesimo secolo, fu ultimata la
basilica a croce greca, in pietra bianca estratta dalle cave di Château-Langdon
e di Souppes-sur-Loing.
Un
popolo che saprà ascoltare ed amare i propri poeti vivrà le vittorie a venire,
grazie alle quali l’arte e la vita ricomporranno il simbolo di un’umanità
santificata, non nei marmorei ossari della penitenza, bensì nella gioia di
generazioni future, strappata all’al di là e resa immanente ricchezza dei cuori
e delle menti. uest’ultimo, per Q
«Scrivere
è sempre guarire. Il vero scrittore sa ogni volta da quale male e, qualora ne
assuma a proprio arbitrio la responsabilità, sa anche come tenerlo celato al
lettore; si tratta di ciò che il magnanimo chiama ironia, e colui che lo diventa serietà.»
Giancarlo Micheli, Lautréamont toujours:
temi etici e stilistici nelle Poésies di Isidore Ducasse, in «Cultura e
Prospettive», n.26, Gennaio-Marzo 2015.
Arthur Rimbaud, Le dormeur du val, in
Anthologie des poètes français, tome IV, Paris, Lemerre, 1888. «È un buco di vegetazione dove canta un fiume/ Appendendo
follemente all’erba degli stracci/ D’argento; dove il sole, dalla fiera
montagna,/ Riluce: è una piccola valle che schiuma di raggi.// Un giovane
soldato, bocca aperta, capo nudo,/ E la nuca che si bagna nel fresco crescione
azzurro,/ Dorme; è steso sull’erba, sotto la nuvola,/ Pallido nel suo letto
verde dove piove la luce.// I piedi tra i gladioli, dorme. Sorridendo come/
Sorriderebbe un bimbo malato, fa un sonno:/ Natura, cullalo caldamente: ha
freddo.// I profumi non fanno fremere le sue narici;/ Dorme nel sole, la mano
sul petto/ Tranquillo. Ha due buchi rossi sul fianco destro.» (TdA).