Scuote i tuoi piedi, ti
scrolla di dosso mentre attraverso la tua pupilla d’acaro penetra un raggio appena
di tutta la luce che la inondò dal pleistocene, una goccia soltanto di tutti i mari
da cui emerse ti sprofonderebbe in un abisso oscuro quanto la Fossa delle
Marianne, tant’è che i tuoi antenati ne ricercarono a lungo i segreti effluvi e
miasmi, a lungo vi lessero segni oracolari; oggi, quel che potresti ancora fare
assieme ai tuoi simili, affinché non restiate vittima del crollo di un ponte,
di una lite domestica o di un incidente sul lavoro, ti appare spesso, per non
dire in maniera sistematica, come un compito gravoso, in risarcimento del quale
ti ritieni in diritto di reclamare un ozio che non scegli, perché «l’umanità
ama parlare per proverbi, far rientrare in un caso noto l’eventuale, e più
ancora ricorrere ad un’espressione conosciuta dei sentimenti che la inquietano.
Pensa per delega. Parole che l’hanno colpita le tornano in mente. Se ne serve
così come si canticchia un ritornello memorizzato inconsapevolmente. I suoi
poeti, i suoi pensatori contribuiscono così al suo incretinimento. Si può
misurare l’influenza e la forza di uno spirito dalla quantità di stupidaggini
che fa schiudere».
Il testo tra virgolette appartiene al Trattato dello stile, pubblicato
per i tipi della «Nouvelle Revue Française», alla metà del 1928. L’autore
era Louis Aragon, come renderà testimonianza chiunque abbia facoltà di
aggiudicarsi una ristampa recente, al prezzo che gli varrebbe un mazzo di rose,
oppure un originale dal mercato antiquario, al prezzo di svariati quintali di
derrate. Il nome che ancora oggi si può leggere sul frontespizio, sappia, non fu
attribuito in ottemperanza alle procedure canoniche del diritto civile. La
nascita non venne protocollata all’anagrafe di Stato: esiste solo un
certificato di battesimo, depositato in data 3 novembre 1897 presso la
parrocchia di Neuilly-sur-Seine, dove nessuno dei due genitori risedeva. Il
padre, Louis Andrieux, ex-prefetto di polizia della città di Parigi, membro di
spicco della borghesia protestante, sulla soglia dei sessant’anni s’era incapricciato
della giovane tenutaria d’una pensione in avenue Carnot, Marguerite Tucas, di modesta
famiglia cattolica. Un uomo che aveva saggiato coi lombi i ronds-de-cuir nei più delicati uffici
della burocrazia, calcato seggi in parlamento e fondato quotidiani d’opinione,
non poteva rovinare un’onorata carriera con uno scandalo. Dopo aver conferito
al poeta in fasce il proprio stesso nome di battesimo, in un’esuberanza d’amor
proprio, nonché i sussidiari, Marie, Alfred e Antoine, dimostrando, a sé quanto
ai depositari del documento, come egli non lesinasse affatto del proprio tempo
prezioso laddove si trattasse di riflettere su ciò che faceva, lo registrò con
il cognome Aragon, il primo che gli venne in mente, poiché gli ricordava il
periodo felice della virilità in cui aveva servito la Terza Repubblica in veste
d’ambasciatore in Spagna. Il beniamino delle Muse crebbe, pertanto, in un umile
gineceo della Belle Époque, figurando ufficialmente, affinché fosse stornato
ogni sospetto, quale figlio adottivo della nonna materna, fratello della madre
e figlioccio del padre.
Il Trattato dello stile
era stato scritto nell’estate del 1927 e concluso nei giorni in cui veniva
precipitando il caso giornalistico che scuoteva l’opinione pubblica da un bel
pezzo e conseguì l’apice della divulgazione il 23 agosto, quando i due
anarchici Sacco e Vanzetti subirono la sentenza capitale sulla sedia elettrica
di Charlestown, a dispetto di valide evidenze di estraneità ai delitti loro
imputati, le quali non bastarono a sollecitare la clemenza della Corte quanto ne
avessero stuzzicato la severità le fiere rivendicazioni in cui i due immigrati
perseverarono nel corso di tutte le fasi del processo, cosicché dovette
trascorrere ancora mezzo secolo perché un governatore del Massachusetts si
risolvesse ad ammettere pubblicamente il sopruso giudiziario, e fu proprio quel
Michael Dukakis il quale, nelle presidenziali di qualche anno dopo, i
democratici avrebbero opposto invano a Bush padre. Riservando un brano del
testo ad una sintetica rassegna stampa, Aragon vi denunciava lo stato d’animo
che quel giorno ogni essere umano provò nel consultare i quotidiani: «la
vergogna, la vergogna, a perdita d’occhio la vergogna», la medesima cui va
assuefacendosi sempre più avidamente il consumatore degli odierni strumenti
mediatici. Correva, dunque, l’anno in cui le cupole della finanza cosmopolita
iniziavano a puntare con decisione sul tracollo di Wall Street, mentre Stalin
perfezionava l’architettura del capitalismo di Stato espellendo dal partito gli
oppositori Trockij, Zinov’ev e Kamenev. Non senza magnificenza, l’epoca inclinava
al crimine e al terrore. Da gennaio Aragon aveva la tessera del PCF, allo stesso modo di
Breton, Eluard, Péret e Pierre Unik. L’adesione era maturata nella
temperie della guerra coloniale in Marocco, contro la quale furono levate
proteste fin dal quinto numero della «Révolution surréaliste», nell’ottobre del
1925, ma se le preferenze del papa di Tinchebray propendevano già allora per la
fazione che a Mosca veniva posta in minoranza, come attestò nel medesimo numero
la recensione alla monografia di Trockij su Lenin, la parabola ideologica del
camerlengo di cui lo stesso luogo di nascita è incerto seguì una traiettoria
meno precisa e, prima che egli giungesse ad una presa di distanza critica nei
riguardi del piccolo padre sovietico, sarebbero trascorsi trent’anni, tra i più
abominevoli che la Storia possa tramandare. Qualora tu volessi esprimere
giudizi a posteriori sugli errori nei quali incorre un poeta, rammenta che il
senso morale del tic nervoso che misura una vita umana sulla scala della
coscienza cosmica, pur considerato come totalità, lo comprendi solo negli
istanti in cui leggi nel passato il vaticinio che realizza la tua presente
beatitudine. Rinuncerai al piacere di tentare una volta di più, basteranno a
farti desistere i rischi che esso comporta? La Storia, ad ogni buon conto, pone
a ciascuno condizioni particolari.
Il surrealismo, che nel fascicolo doppio del
suo organo di stampa uscito nell’ottobre del 1927 ospitò un articolo sulla
psicoanalisi per i non medici nella traduzione di Marie Bonaparte ed a firma nientemeno che
di Sigmund Freud, considerava il genere letterario del romanzo con sospetto,
giacché orientato dal principio di realtà ed estraneo ai domini decisivi
dell’Es, perciò Aragon aveva scritto nel Trattato che «la letteratura,
nelle diverse accezioni del termine, si chiama ricetta. Lo stile, che qua io
difendo, è ciò che non può essere ridotto in ricette», precisando: «Io chiamo
stile l’accento che prende in occasione d’un dato uomo l’onda da lui ripercossa
dell’oceano simbolico che mina universalmente la terra per metafora». Dal 1923 lavorava ad un
testo in prosa, per il quale aveva escogitato il geniale titolo di La difesa
dell’infinito; ogni mese ne consegnava i nuovi manoscritti a Jacques Doucet,
couturier dell’alta moda e arbiter elegantiae di quei tempi di tribolazioni non
soltanto estetiche, il quale gli versava un compenso di mille franchi e li
prendeva in custodia nella propria collezione, comprendente autografi di
Stendhal, Baudelaire, Rimbaud, Apollinaire, Gide, Cocteau, Valéry, Proust, dei
quali soltanto nel 1929 il mecenate si sarebbe deciso a far dono all’Università
di Parigi. Coerente alle scelte politiche e alla lezione concreta della lotta
di classe, nei mesi in cui attendeva alla composizione del Trattato,
Aragon decise di liberarsi dal vincolo contrattuale, giustificandosi per via
epistolare in questo modo: «La posizione che ho preso politicamente, e che
questo testo vi vieta ormai di ignorare, vi rende senza dubbio impossibile la
mia frequentazione, impossibile l’impiego delle mie facoltà per l’arricchimento
della vostra biblioteca, dove io rischio di introdurre un lievito politico,
della vostra biblioteca che oggi mi sembra una cosa assolutamente insensata
giacché non contiene né Babeuf, né Blanqui, né Marx, né Engels, né Lenin, né
Trockij, e preferisce loro non importa che stupidaggine letteraria apparsa in
questi ultimi anni». Tale intransigenza ebbe
ripercussioni deleterie sulle vicissitudini private dell’autore delle Aventures
de Télémaque
e del Paysan de Paris.
Entrò in crisi la relazione con la Musa d’allora, l’avvenente scrittrice
britannica Nancy Cunard, erede degli armatori che
a metà del diciannovesimo secolo avevano fondato a Southampton l’omonima ed
assai redditizia compagnia di navigazione, nonché pupilla dell’empireo
intellettuale cosmopolita, se è vero che non furono immuni al fascino di lei,
tra amanti e meri anfitrioni, personalità della caratura di Ernest Hemingway,
James Joyce, Aldous Huxley o Ezra Pound. Piuttosto di scadere al rango degli
infimi nella speciale graduatoria, Louis dette fondo ad un vano repertorio,
fino a culminare in autentiche intemperanze schizoidi, come quando nel mese di
novembre, in una lussuosa camera d’albergo madrilena, gettò nel caminetto tutto
ciò che gli era riuscito racimolare della Difesa dell’infinito e
l’allibita Nancy fece a tempo a salvare dalle fiamme solo pochi foglietti.
Senza il becco d’un quattrino, com’era tornato dal fronte dopo avervi servito
da barelliere e poi in qualità di aiutante medico ausiliare, si risolse a dare
alle stampe alcuni dei brani di cui era rientrato in possesso. Essi apparvero
nell’aprile dell’anno successivo, con un paio di mesi d’anticipo sulla
provocatoria opera teorica, in tiratura di sole centocinquanta copie, rilegati
in un volumetto privo di nome d’autore ed editore, intercalati alle illustrazioni
ad acquaforte di André Masson. Con il titolo di Le
con d’Irene
era destinato a diventare uno dei classici della letteratura erotica
novecentesca, degno di affiancare Les onze mille verges
di Apollinaire, tantoché ebbe travagliate rinascite editoriali sotto varie
etichette, subendo talora sequestri giudiziari, finché oggi lo si possa
acquistare in edizioni economiche ad un costo pari al diritto di sosta per un
paio d’ore in un comune parcheggio, mentre chi volesse procurarsi uno dei
residui esemplari del 1928 dovrebbe sborsare una cifra sufficiente a finanziare
per un terzo l’acquisto di un’auto elettrica ad emissioni zero. Fino alla morte,
che lo avrebbe colto ottantacinquenne, al principio della presidenza Mitterand,
allorché il PCF faceva un’effimera apparizione al governo della Quinta
Repubblica, Aragon negò di essere l’autore di quella prova licenziosa, sebbene
l’attribuzione fosse di pubblico dominio sin dagli anni Trenta. Fatti suoi,
converrai, dai quali consegue nondimeno la rilevanza del Trattato nella
tua situazione, quando gli Stati imperialisti misurano i loro dazi nella
contesa capitale, esattamente come cominciarono allora, e dovresti ricordare
com’è finita. Dunque, per agire a tuo beneficio non rimane che prendere atto di
ciò che Aragon, in merito allo stile, sanciva allora riguardo alla religione: «Di
tutte le perversioni sessuali, essa è la sola che sia mai stata
scientificamente sistematizzata. La virtù cristiana garantisce per l’ortodossia
e costituisce un principio di normalità, che la pratica della confessione
ristabilisce e mantiene, esattamente come la psicoanalisi fa per la sessualità
cosiddetta normale». Esaminato il tema in
argomento sotto il rispetto della sintassi, dell’uso di droghe, di alcuni versi
di Valéry, dei commenti di Philippe Soupault a proposito di
Lautréamont, dopo aver inanellato alla rapsodia non euclidea la parte che vi
tenevano sia le esperienze di Michelson e Morley sul principio di relatività
sia la narrativa passatista alla Montherlant, puntualizzata persino un’ellittica
profezia intorno M. Louis Barthou, ministro della Giustizia in carica e
destinato a cadere vittima, sei anni più tardi, per mano di un separatista
croato mentre, nel nuovo ruolo di ministro degli Esteri, riceveva il Re di
Yugoslavia, una divinazione del tutto secolare nella quale contemplava il caso
d’un anonimo cittadino che volesse mettere in rapporto le proprie parole alle
proprie azioni e decidesse quindi di attentare alla vita dello statista, né dimenticava
di ammonirlo che, «tanto vale prendere un esempio da ridere, questo crimine al
rallentatore rischierebbe d’essere prevenuto dal braccio zelante d’un
funzionario ambizioso», precisato infine che,
quand’anche si scelga di attribuire ai poeti la caratteristica distintiva di
parlare di niente, sia inderogabile farlo opponendo a tale niente il qualcosa
di coloro che non sono poeti, rimarcato che «sussiste tra la vera espressione
poetica, non dico in alcun modo il poema, e le altre espressioni la medesima
distanza che corre dal pensiero alla chiacchiera», esortava: «Poeta, prendi
il tuo liuto. Sì, ma chiudi il becco, quando nel leggere il tuo giornale del
mattino trovi alla fine questa sciocchezza e questa porcata intollerabili,
quando hai la straordinaria sfacciataggine di sentirti toccato se si condannano
da qualche parte a trenta, dieci anni di prigione, persone che hanno
semplicemente protestato contro il servizio di leva, o la guerra in Marocco, e
che hanno, pare, istigato i riservisti alla disobbedienza. Ebbene, inutile
girarci intorno se mi viene voglia di dire quel che penso. Io ritengo, e ciò
non ha senza dubbio la serietà desiderabile per un giudice, perfetto, ma
possiede un po’ più d’efficacia futura di una dichiarazione giornalistica
inghiottita dal cestino, poiché questa affermazione prende in prestito qui la
via d’un libro che ci si può aspettare di ritrovare a lungo nelle mani di
persone molto giovani e particolarmente inclini alla collera, io considero un
immondo abuso tale diritto che il governo e la giustizia s’arrogano in Francia
ai nostri giorni d’interdire a coloro che detestano l’esercito il diritto di
esprimere per scritto, coi commenti che aggradino loro, il disgusto che hanno
di un’istituzione rivoltante, contro la quale ogni iniziativa è umanamente
legittima, ogni attentato raccomandabile. Ed è attraverso la costrizione fisica
che codesti Repubblicani rispondono alla scrittura. Io appartengo, si dice,
alla classe del 1917. Io dico qua, e ho forse l’ambizione, certamente ho
l’ambizione di provocare con queste parole un’emulazione violenta in coloro che
vengono chiamati sotto le armi, io dico qua che non indosserò più l’uniforme
francese, la livrea che mi è stata gettata sulle spalle undici anni or sono, io
non sarò più il lacchè degli ufficiali, io rifiuto di salutare quei bruti e le
loro insegne, i loro cappelli tricolore alla Gessler. Sembra che il rinomato
Painlevé, un uomo che un tempo, ma se l’aria è rimasta la solita le parole sono
assai mutate, che un certo Painlevé, ministro della Guerra, abbia firmato
l’altro giorno un decreto mostruoso secondo cui qualunque ufficiale o
sottufficiale, qualunque cretino pagato per marciare al passo, gode ormai del
diritto di arrestarmi in strada. Non bastavano gli agenti di polizia. E al pari
di loro, anch’essi sono ormai sotto giuramento. Hanno, queste materie fecali,
una parola che fa legge. Ah, l’agricoltura non mancherà di vacche. Ebbene,
poiché guardarli storto per la strada vale una notte in guardina, ho l’onore, a
casa mia, in questo libro, in questo passo, di dire che, molto consapevolmente,
io caco sopra l’armata francese nella sua totalità».
Ora, ciò di cui abbisogni,
quanto dell’aria che respiri e dello spirito, fosse appena quello che basta a
comprendere il nesso causale tra la sindrome e l’ammalato, tra la vittima e il carnefice,
è un movimento internazionalista, colorato dalle bandiere da opporre come una
soltanto agli eserciti del mondo, affinché cedano le armi e l’umanità prenda
una rivincita eclatante su se stessa e la sua preistoria. Se ci sarà tempo
torneremo a parlarne, di una poetica, praticata quale arte dell’agire, che
supera l’eone aristotelico dei generi letterari e le caudate specie delle sue
connivenze con l’oppressione. A chi vorrà tornare sul tema o addirittura mettersi
al cimento auguro attimi di gioia in proporzione a quelli che ricevette il
figlio del prefetto di polizia Andrieux alla fine dell’anno in cui ci aveva
provato in tutti i modi. La Cunard gli preferiva ormai un jazzista di colore;
com’era prevedibile, il serio volume incluso nella prestigiosa collana della «Nouvelle
Revue Française» si rivelò un fallimento dal punto di vista commerciale ed
anche il libello pornografico non lasciava intravedere altro che beghe legali.
Non desterà meraviglia se egli arrivò sulla soglia del suicidio. Ciononostante,
a novembre, in una brasserie di Montparnasse, fece conoscenza con Elsa Triolet, cognata di Majakovskij
ed anche lei scrittrice, la quale sarebbe stata la sua compagna per il resto
della vita. Gli anni sarebbero trascorsi in larga parte invano, ad osservarli
da un qualsiasi punto ancora troppo distante dal mondo infine abitabile, sul
cammino verso il quale il nuovo amore avrebbe comunque cosparso non piccole
pietre miliari della chiarezza a venire, come nelle sette stanze che, durante l’anno
di svolta del XX Congresso del PCUS, ti rammentarono: «Io canto per passare il
tempo/ che mi resta di vita breve/ Come sulla brina si scrive/ Come si fa il cuore
contento/ Io canto per passare il tempo// Vissi giorni di meraviglia/ Io e voi,
ve lo ricorderanno/ Scavalcai il muro degli anni/ Uscii di Venere dalla
conchiglia/ Cui il nostro universo più non somiglia/ Vissi giorni di
meraviglia// Vai e queste dita spoglia poi/ Come il fronte fa con la gloria/ I
nostri occhi per primi nella storia/ Videro le nubi più basse di noi/ Ed alle
nostre ginocchia gli avvoltoi/ Vai e queste dita spoglia poi// Abbiam fatto
chiari di luna/ Per le nostre regge ed effigi/ Che importa se ora ci uccidi/ Le
notti cadranno una ad una/ La Cina s’è messa in Comune/ Noi facemmo chiari di
lune// Ne dissi oggi e ne avrò detto ieri/ Tanto fu questa vita avventura/ Dove
l’uomo crebbe in natura/ La sua voce sopra ai sentieri/ Le parole i mari e i
misteri/ Ne dissi oggi e ne avrò detto ieri// Sì per passare il tempo canto/
Col violino si usa l’archetto/ Nel rimbalzello un sassetto/ E con il mio amore
t’incanto/ Dove l’ombra mi pende accanto/ Sì per passare il tempo canto//
Intanto passo il tempo a cantare/ Canto per lasciare il tempo passare».