articolo pubblicato in
Il Ponte
rivista di politica economia e cultura
fondata da Piero Calamandrei
(Anno LXXVIII,
n.3, maggio-giugno 2022)
Nel giorno in cui è consuetudine
commemorare la morte di Dante Alighieri, mi sembrò equilibrato prendere spunto
dall’altro poeta che abbia impresso una forza spirituale, paragonabile a quella
esercitatavi dal ghibellin fuggiasco, sulla superficie della bolla cognitiva
all’interno della quale, per dire alla Benjamin, un popolo condivise il sogno
in una lingua comune affinché lo interpretasse il nostro risveglio.
Il recanatese, in uno dei dialoghi
delle Operette morali, sostenne dunque che la moda e la morte siano
sorelle, giacché nate entrambe dalla caducità.
Nella passione predominate che è
invalsa, come uno dei postumi precoci della pandemia, nei riguardi dei
corollari delle scienze cosiddette ‘dure’, le prescrizioni dei quali, al netto
delle strutture produttive funzionali al profitto dei monopoli industriali e
finanziari, non bastano pur tuttavia a prefigurare più del mero simulacro
onirico dell’immunizzazione di specie, nella narcotica sollecitudine con cui
gli apparati d’informazione ne rilanciano gli emblemi linguistici sulla torpida
virtualità della rete globale, già si annunciano larve viepiù spettrali,
sprofondate nelle fasi REM d’un remoto futuro. Mentre gli schermi, a guisa di
succursali d’un alienato sistema limbico collettivo, proiettano sulle cortecce
cerebrali il repertorio aggiornato delle catastrofi (pianure alluvionate,
foreste divorate dagli incendi, coste battute da uragani), i massimi idealisti
dell’umanità, gli eredi politici del liberalismo e della socialdemocrazia, la
cui fervida immaginazione ipnagogica viene molestata appena da scelti manipoli
di sonnambuli, intenti a tirar loro le falangi degli alluci (una per ogni fake
news che provvedano a mettere in circolazione, quasi volessero trattenere gli
immodici slanci della loro fantasia e ricondurli nell’alveo delle nocività a
misura d’uomo da cui fu contraddistinto il totalitarismo novecentesco), tali
imperturbabili dormienti, non più d’un raro nistagmo ad inficiarne la pressoché
perfetta rigidità, contemplano lo scioglimento non solo della crisi pandemica,
ma anche della climatica. Dall’inconcussa quiete dove i decreti di quei
notturni luminari sono preservati da contaminazioni con la profana opinione
popolare, cui un emulativo ed abissale assopimento ha ridotto ormai obsolete
prerogative democratiche, emerge, al pari della realizzazione d’un desiderio
rimosso, un progetto di pacificazione così ecumenico e cosmopolita da oscurare,
laddove ce ne fosse mai bisogno, gli sforzi intrapresi invano dall’istituzione
sanitaria mondiale al fine di conseguire, su scala planetaria, l’immunità di
gregge contro il flagello virale.
Come in un esempio didattico dei
meccanismi di sovradeterminazione dei materiali onirici, quel piano che è
venuto a costituirsi sotto l’acronimo dalle risonanze latine di ITER, la ‘via’,
mettendo d’accordo sulle basi dei protocolli di finanziamento la babelica
compagine comprendente, a titolo di membri firmatari, Unione Europea, Russia,
Stati Uniti, Cina, India, Giappone e Corea del Sud, esso ebbe origine al tempo
in cui le massime potenze imperialiste parvero volersi stringere in un cauto ma
cavalleresco abbraccio e, così mutuamente avvinte, sognare all’unisono un
avvenire libero dalla reciproca distruzione nucleare.
Ecco, allora, un uomo quasi
completamente calvo, con una grossa voglia sulla sutura coronale, venir eletto
alla carica di Segretario generale del Partito comunista sovietico, alla metà
degli anni Ottanta del secolo scorso, e subito eccolo entrare in argomento
assieme al proprio equivalente francese, appena meno stempiato; il nativo d’uno
sperduto borgo rurale tra il Volga ed il Don ne riparlò presto con il miglior
attore tra tutti gli inquilini che abbia avuto la White House, tant’è che quando
questi, ad un anno di distanza, gli venne fraternamente incontro con un
parrucchino in testa (com’è universalmente noto anche tra quanti non abbiano
praticato di persona il culto iconico di farsi ritrarre nel medesimo luogo, tra
privati cittadini ma nella stessa posa immortalata in celebri sequenze) sulla
soglia d’una residenza diplomatica di proprietà del governo islandese, per
ratificarvi il trattato sulla limitazione dei missili a medio raggio, ecco che
una commissione quadripartita (EU, USA, URSS e Giappone) era contestualmente al
lavoro per definire i preliminari d’intesa relativi alla costruzione d’un
modello dimostrativo di reattore nucleare a fusione.
Intanto, all’interno del nucleo del
sole, sotto l’enorme pressione della massa stellare, una temperatura intorno ai
15 milioni di gradi centigradi innescava, così come accade da alcuni miliardi
di anni a questa parte, la fusione degli atomi di idrogeno in atomi di elio, la
quale sprigiona quasi la totalità dell’energia che riscalda il nostro pianeta
sin dalla sua genesi. Gli eccellenti cultori della scienza ‘dura’ per
antonomasia, coinvolti nel programma, non poterono non rendersi conto, sin dai
primi calcoli, che per avviare la medesima reazione termonucleare sulla
superficie terrestre la temperatura, alla quale riscaldare il plasma atomico,
dovesse esser moltiplicata per un fattore pari almeno a 10: 150 milioni di
gradi1.
Quand’anche non muova davvero il sole e l’altre stelle, comunque l’amore per la
conoscenza nutrito in quei puri intelletti non consentì loro di scoraggiarsi di
fronte a difficoltà al cospetto delle quali l’uomo qualunque non vede l’ora di
defilarsi e abbandonarsi ai sogni nei quali la felicità gli viene servita sui
vassoi d’argento della società dello spettacolo. Pertanto, quei probi hanno
perseverato a far avvolgere bobine attorno ad un contenitore sotto vuoto, le
quali, se refrigerate fino a temperature prossime allo zero assoluto, generano,
grazie alle proprietà superconduttrici di speciali materiali, i campi magnetici
in grado di confinare il plasma atomico in relativa sicurezza, cosicché ITER
sia ormai prossimo al completamento della fase di costruzione e, sul sito di
Cadarache, presso le Bocche di Rodano (dove l’apparato militare-industriale
francese ha sviluppato i propulsori nucleari dei propri sottomarini strategici,
ognuno dei quali è armato con 96 testate da 150 kT ciascuna), si prevede
l’entrata in funzione, entro il 2025, del tokamak,2 il quale, durante un ciclo di attività pari a dodici rivoluzioni sinodiche
della terra attorno al centro di massa del sistema solare, è destinato a
sbriciolare il record di bilancio energetico per macchine della stessa
categoria (attualmente detenuto dal Joint European Torus di Culham, nel Regno
Unito, e pari a 0,67)3, prima che
inizino le complesse procedure di disinstallazione dell’impianto, previste a
partire dal 20374.
È l’alba e anch’io sarei tentato di
cedere a qualche sorta di sonnolenza, sennonché, tempestiva come il verdetto
d’una corte infine suprema, arriva una notizia che procura un certo scalpore e,
se non rizza anche a te i peli in testa, equivale almeno ad un calcio negli
stinchi o ad un pizzicotto sul muscolo gluteo: nottetempo, alcuni primari del
gabinetto dell’ex-governatore della BCE, compresa una testa d’uovo della patria
borghesia, un laureato in fisica alla Normale di Pisa, assurto a capo del nuovo
dicastero della Transizione ecologica per espressa volontà d’un comico
ricciuto, il quale, nuotando tra Scilla e Cariddi, pronunciando stentorei
vaffanculo da piazze affollate, stregò il cuore di tanti italiani, costoro,
approfittando dell’oscurità e del pretesto di ritrovarsi per celebrare il sommo
vate della poesia civile nell’anniversario della sua dipartita, hanno
consultato gli amministratori delegati dei monopoli statali, tutti intimi
sodali del suddetto cervellone, avendo costui ricoperto, a dispetto della verde
età che fa della prematura calvizie di lui l’esteriore allegoria d’un
intelletto aduso a filar liscio verso conclusioni apodittiche, ruoli di vertice
nell’apparato militare-industriale nostrano: la complessità della
ristrutturazione ecologica sarà tale da esigere un aumento delle bollette
energetiche di circa il 40%, fin dalla rata autunnale.
A questo punto, a me e a te, a meno
che non siamo già completamente disanimati e si cada, perciò, come un sol corpo
morto cade, non rimane alternativa che prendere consapevolezza del fatto che
l’unica speranza, la quale consenta di prospettare un futuro alla specie,
consista nel costruire dal basso l’indipendenza politica (a partire da quella
energetica, approntando nuovi cicli produttivi effettivamente sostenibili e
fondati su una conoscenza controllabile e realmente diffusa tra i lavoratori)
delle comunità umane, nel chiamarle al risveglio e alla lotta da mille
territori, ovunque la biodiversità opponga ancora resistenza ai monopoli del
capitalismo.
Giancarlo Micheli