“Il fine del mondo” è un romanzo
sull’ineluttabilità della catastrofe e, al tempo stesso, una critica
all’imperialismo di quell’America che Gordon Poole definì in modo appropriato
“nazione guerriera”.
L’attrito tra Oriente e Occidente, la
strumentalizzazione dalla parte della controcultura, incarnata dalla body art
di Katellenas, del pacifismo e dell’antimilitarismo, l’impotenza di chi governa
(il ritratto impietoso del presidente statunitense Wu) rendono estremamente
attuale la vicenda.
In un mondo dilaniato dalla carestia
e dalla guerra, culminata nell’esplosione di una bomba all’idrogeno nelle
Hawaii, l’unica speranza sembra rappresentata dall’amore fra Mark e Sophie,
Huang e Kuei Fei.
Sarà proprio Mark nel suo discorso ad
annunciare la necessità di una conoscenza “del cuore e dell’anima” che comporta
il rifiuto del sapere consolidato, responsabile delle scelte sbagliate a cui
sono state ispirate in precedenza le azioni umane.
Come una profezia, il libro ammonisce
su come la nostra società sia avviata ormai verso una strada pericolosa e senza
sbocchi e si fa apprezzare nonostante il linguaggio poetico talvolta criptico
che fa apparire la narrazione più complessa di quanto sia realmente.
La citazione:
“Nel totale silenzio che succedette
al consumarsi di un tempo, se mai possibile, ancora più breve, un alito di
vento mutò dalla tiepida intensità di una brezza che vellicasse l’aria della
riviera, da settentrione a mezzogiorno, fino alla rabbiosa raffica di immane
calore nel cui fiato mortifero ogni essere vivente ed ogni oggetto inanimato
che si trovassero entro il raggio di cento miglia furono sgretolati. La sabbia
di tutte le spiagge da Makaha a Waikiki venne trasformata in vetro e, poche ore
dopo, al sorgere del sole, l’alba vi specchiò i suoi colori dal rosa al
giacinto quali unici e muti testimoni”.
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