recensione di Pasquale Vitagliano
“Una gelida nebbia adergeva la città di
Monaco, essudava una matrigna pioviggine sul timpano neoclassico della
Bayerische Staatsoper e colmava l’architettonico calice dell’intera Max-Joseph
Platz di un icore impalpabile ed ostile, impregnava di sé i viali ed i
giardini, da Thalkirchen a Schwabing; dopo aver esalato il proprio fiato
spettrale sotto al triplice arco del Siegestor, si spandeva verso oriente, fino
ed oltre al quartiere di Haidhausen dove, discendendo tra le tetre facciate
degli edifici di Rosenheimerstraße di cui, ai margini dell’incombente oscurità,
la pubblica illuminazione ritagliava i profili gelosi di interiori austerità,
giungeva, infine, a ristagnare dinanzi alla mole massiccia e sgraziata della
Bürgerbräukeller”. In questo incipit di uno dei suoi 102 capitoli sta il
pedigree letterario del Romanzo per mano
sinistra di Giancarlo Micheli. Robert Musil e Karl Kraus: il tributo alla
letteratura mitteleuropea del primo Novecento è evidente. Perché dunque
scrivere questo romanzo? Un romanzo tutt’altro che post-moderno. Con le sue 635
pagine, dunque, è un libro solido e pesante, non liquido e debole. È un romanzo
modernista. Ma ne contiene in seno il suo superamento. Questa è la sua,
ritengo, più seria legittimazione. Ed il superamento sta nella stessa intuizione
di Kraus. Se Gli ultimi giorni
dell’Umanità sono irrappresentabili come pièce teatrale, il romanzo di
Micheli è inenarrabile. Infatti, con un meccanismo esattamente opposto al
“flusso di coscienza”, per tutta la vicenda di Stefan, leggiamo col fiato corto
il magmatico fluire delle storie individuali dentro la corrente della Storia
collettiva. In una parola della vita stessa, che nessun meccanismo narrativo
sarà mai in grado di imbrigliare e contenere.
“Fu proprio in quel tempo in cui
gli si chiedeva di attendere che nell’animo dei tiranni prendessero a
germogliare i semi della misericordia e che monete nuove di zecca cominciassero
a buttar ruggine nei depositi di non meno dispotici amministratori delle
fortune sue e di quanti gli erano più cari, fu proprio in quei primi giorni
dell’inverno del 1938 che Stefan iniziò a scrivere una serie di lettere, le
quali, dapprima, ritenne di destinare al figlio nascituro, affinché potesse
leggerle quando in lui la sete di sapere si sarebbe fatta viva e dal racconto
delle traversie del padre e della madre avrebbe potuto ricavare un relativo
appagamento, ma, ben presto, gli rivelarono pure l’esistenza di luoghi e
territori del suo proprio mondo interiore, i quali,
fino ad allora, aveva negletti e
misconosciuti”.
La
trama del romanzo segue le sequenze delle lettere che Stefan Bauer indirizza al
figlio Bruno. Lo scenario è quello del secondo conflitto mondiale e, in
particolare, la narrazione è incentrata sull’esperienza della persecuzione razziale.
Stefan, infatti, è un medico ebreo di nazionalità morava. Anche la sua
compagna, Adele Ascarelli, napoletana, storica dell’arte, è ebrea. L’andamento
segue l’itinerario dell’ “ebreo errante” in fuga dalle tragedie del Novecento.
Sullo sfondo incombe l’idolo pagano del leviatano nazista, ma progressivamente
cominciano ad allungarsi le ombre di un altro mostro, preannunciatosi come
liberatore. Ecco che le vicende di Stefan, libertario e antifascista, si
intrecciano, oltre la vittoria sul Nazismo, con i prodromi del dramma del
fallimento del comunismo, del “dio che ha fallito”. Sarà suo figlio Bruno a
prenderne il testimone nell’ultimo scorcio del secolo, attraversando l’ultimo
fuoco rivoluzionario degli anni ’70.
C’era proprio bisogno di un nuovo
romanzo del e sul Novecento? Il dubbio s’impone ed è difficile derogarvi.
Eppure la questione è oziosa. Come lo sarebbe intorno a qualsiasi opera d’arte.
Come chiedersi, ad esempio, se fosse necessario il Bolero di Ravel, o, e siamo
in tema, Il Concerto per pianoforte per la mano sinistra in Re
Maggiore. Questo brano venne composto tra il 1929 e il 1930 su commissione del
pianista austriaco Paul Wittgenstein, fratello di Ludwig, privato del braccio destro in
battaglia, nel corso della Prima guerra mondiale. In realtà, a parte
questa occasione ufficiale, il rimando alla mano sinistra qui introduce il
fatto che Maurice Ravel fosse affetto dai primi cenni di una demenza della
parte sinistra del cervello. In questa
musica prevalgono infatti i timbri. E se la melodia, assente, è liquida, il
timbro orchestrale è solido. Inoltre la lesione dell’emisfero sinistro induce
alla reiterazione e alla coazione, come appunto ripetitivo e incalzante è il
ritmo del Bolero. Comprendo, dunque, e non so quanto tutto questo sia casuale o
non necessario, la motivazione del titolo di questo romanzo, altrimenti,
suggestivo, ma oscuro. Un romanzo per la mano sinistra è un’opera sulla
solidità perduta, caratterizzata dal timbro senza respiro del Novecento, un
romanzo su tre vite sottratte dalla fluidità dello scorrere normale del tempo
quotidiano e forzate dentro i rigidi canali della Storia contemporanea.
Questi argini vengono però rotti dal
timbro orchestrale della vita vissuta, come in un bolero, appunto. E questo
magma esistenziale inonda la Storia, introdotto dai titoli dei capitoli, ciascuno
dei quali è, o sembra, un motto popolare. Val
più un’oncia di sorte, che cento libbre di sapere. Ciascuno di questi temi
introduttivi ha il suono grottesco di una trombetta che preannuncia l’uragano.
Pasquale Vitagliano
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