recensione di Carmen De Stasio a
Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017)
pubblicata in “Sulla letteratura (On literature)”
Ogni
civiltà, nella propria fase decadente, negli anni senili della propria
esistenza storica, finisce per mutarsi in una qualche specie di ottuso apparato
di distruzione, un pervasivo ed estremo strumento di morte.[1]
In una fluida narrativa per evidenze, Romanzo
per la mano sinistra di Giancarlo Micheli consolida l’impressione di
continuità antidiegetica propria del territorio umano, confermandosi
libro-luogo, in cui a decidere di efficace memorabilità è l’annullamento delle
credenziali assimilate per tradizione in forza di una carica che muove da un
appassionante impegno, teso a ricomporre le salienti fasi di una storia sovente
dimentica di se stessa, che l’autore tiene fuori da qualsiasi possibile
collasso euritmico e parziale. Nella flessione severa degli
eventi, la scrittura paratattica si affida a gesti dinamici, ai vasti
significati intrinseci, mediante i quali giunge come sfida alla lacerazione
avvertita quale esperienza capace di aggregare tanto l’intimità dei personaggi
che la loro concretezza, in una figuratività metafisico-astrattiva che delinea
la coesistenza di linguaggi in continuo bilico tra presenza decisa e
dissolvenza alla maniera dei sogni, nei quali avviene «l’appagamento dei
desideri» (S. Freud). Ed è con animo critico che l’autore in un certo qual modo
intervista la storia nelle sue
puntualità intellettuali, senza mai trascendere in una solarizzazione
emozionale suggestiva, pur nell’aleggiante senso di privazione che ivi alberga
in un tempo totalmente dominato da una precarietà tuttavia inadatta a sgominare
la speranza, pur vitale nelle resistenti difficoltà di ordine pratico. La costruttiva narrazione s’investe così di un carattere caparbiamente volto ad
alterare l’orientamento per via di un «passato che mormora nelle corrispondenze»[2]. Stefan scrive nella lettera al figlio Bruno in Romanzo per la mano sinistra:
Ho deciso di narrarti,
dapprincipio, della donna che, adesso mentre ti scrivo, ti porta nel grembo.
Spero ciò ti sia viatico affinché tu giunga, in un giorno che tardi abbastanza
perché non ti capiti di rimpiangere prematuramente il tempo che pure perderai
vivendo, a fare la felice esperienza in cui le tue parole toccheranno l’anima
di un altro, un tuo simile, grazie al cui libero ascolto esse prendano il loro
senso, proprio e particolare, tale da renderle fulgide di tutta la luce che un’esistenza
umana getta sul mondo, dal suo principio alla sua fine attraverso le epoche e
le generazioni.[3]
Dalla commistione dei casi – ritratti di circostanze dall’apparenza
talora fortuita, che tracciano la rotta (sovente senza una consistente volontà
personale) intrapresa dai componenti il medesimo nucleo familiare (personaggi
portanti sono Stefan Bauer, Adele Ascarelli, sua moglie, e il figlio Bruno) –
si penetra l’intimità di un’epopea che scansiona le protuberanze territoriali
per evolvere in una sorta di unicità simultanea, che dilania le diversità dei
luoghi nel loro valore astrattivo. Pur provenendo da realtà diverse anche dal
punto di vista sociale (Stefan è austriaco, Adele ha le sue radici in una
prestigiosa stirpe industriale napoletana), ciascuna porzione minimale
trasporta i segni delle tante storie che, sebbene stagliate su orizzonti
dall’improbabile legame, confluiscono in un intreccio di verità e invenzione
dagli effetti sapienziali, dove svolte interlocutorie dirigono una prospettiva
sottoposta a incessanti (ri)elaborazioni. È comprensibile che da parte
dell’autore sussista il rifiuto ad adeguarsi all’elaborazione di un impianto
ripetitivo, all’interno del quale strutturare la sua invenzione narrativa,
recepita nell’attraversamento lento e deciso di territori noti. Di fatto,
Giancarlo Micheli con strenua energia da essi estirpa le vicende dalla polvere,
perché diventino centri di diffusione di una meta-vicenda che, svoltando da una
situazione unifamiliare e adiabatica, valica luoghi, tempi e situazioni, in una
convergenza che s’arricchisce di particolari e che, infine, coinvolge
integralmente il lettore, il quale, quindi, dal suo punto mobile, si ritrova a
concepire se stesso nella posizione di osservatore indiretto di una
dettagliata corrispondenza sulla quale aleggia la condanna dell’essere
ebreo.
L’addensamento dei frammenti in un’irrisolvibile maieutica comporta
tanto la co-agenza di personalità realmente vissute che il loro riferimento
(spesso indiretto) ad ambienti e posizioni, se si vuole, dissociati tra loro.
Distolti dalla dimenticanza e «spronati a partecipare ad un epocale
rinnovamento dello spirito e delle fondamenta concrete dell’esistenza»[4], ciascuno compare senza fusione
alcuna in un’identità a encausto, epperò tendente a una conclusione retriva
rispetto al principio di evoluzione che, d’altro canto, dovrebbe assicurare
l’immanenza dell’individuo («Ma la memoria funziona con la sua
logica. E se tutto è cambiato era per rivelarci infine quanto ci assomigliamo»
– avverte il poeta V. Vassilikos). Va
a stabilirsi così un rapporto reale in continuo accadimento dal carattere
eponimico, che si dilata e si restringe in misura delle situazioni in una
perturbabilità mnemonica comprensiva. Stefan
scrive al figlio:
Se, come spero, ti sarà
stato possibile leggere queste mie memorie, adesso sarai venuto a conoscere
qualcosa riguardo a me e a tua madre; noi non saremo più figure vuote e vaghe,
di cui si suppone l’esistenza soltanto sulla base di freddi argomenti logici,
per quella naturale simpatia secondo la quale l’intelletto coglie le
similitudini del proprio essere con quello altrui; nei tuoi pensieri le nostre
immagini saranno ora rivestite di un poco di quella carne che crebbe nelle
nostre passioni e nei nostri sentimenti, per te non saremo più meri spettri, ai
quali poni le domande cui attendi responsi invano. Adesso, forse, comprenderai
le nostre scelte e, magari, proverai un qualche legittimo orgoglio ad averci
avuti quali genitori.[5]
Nonostante l’incipit traduca un solingo punto di
concentrazione intenzionale, l’impianto ricercativo generato da Micheli assume
le fattezze di un fulcro mobile che si amplifica in una parabola in rotazione
nello spazio, conseguendo un’oggettività prospettica altrimenti esauribile in
un tempo che sbaraglia, perché è «un tempo che si muove» (C. Levi) in una
movenza metaforica che ritengo ricondurre alla volizione (talora esistenziale)
della dimenticabilità. Eppure, quel movimento non riesce a divincolarsi
dall’incessante pericolo di motivarsi ostacolo a se stesso, se nel poi tutto
ritorna nelle accusatorie vestigia, rapprendendosi nei colori di una
localizzazione che, pur diversificata e sommariamente scelta, si disperde
nell’accumulo di frantumi insignificanti nell’orbita della macro-sceneggiatura
esistenziale. Lungo una siffatta traiettoria, l’impegno di
Giancarlo Micheli trasla l’arendtiano «padroneggiamento del passato» (in) «forma
di una incessante narrazione»[6].
«Questo
è il principale intento della superficialità: far apparire la sapienza, invece
che nello sviluppo del pensiero, piuttosto nell’osservazione immediata e
nell’immaginazione accidentale; far dissolvere, quindi, la ricca membratura
dell’etica in sé, che è lo Stato, l’architettonica della sua razionalità.»[7]
Da qui il sentore di una storia che si rigenera nelle composite
scoperte. Nella possente natura antonimica, le scoperte sconvolgono,
sedimentano tracciati moltiplicabili, e mai collaterali, per ritrovarsi in una
conclusione predestinata a una nuova, esclusiva estensione che pure vaga in
un’eterna e prodromica provvisorietà, il cui segno asfittico è nell’«aforisma
strindberghiano per cui l’inferno non sia altro se non il mondo in cui viviamo»[8]. E
di moltiplicazione si ravviva il romanzo, agitato dalla memoria di un paesaggio
che porta scolpiti i segni di una vicenda universale.
Nella primavera del
1937 passai le vacanze nel salisburghese ed ebbi modo di fare un’escursione fin
lassù, nei pelaghi dell’aria in cui la roccia però affiorava ancora del tutto
nuda, intatta dall’opera umana, dove lo spettacolo del volo delle aquile si
offre in circostanze davvero maestose e impressionanti, soprattutto nelle
giornate limpide, quando una luce tersa e cristallina incide quasi un’aura
risplendente attorno alle ali e alle piume dei fieri animali; sui loro contorni
ritagliati nell’azzurro apre come una fulgida ferita, tanto che si sia vinti da
un orrore intimo e vertiginoso se l’empio occhio della bestia brilla, per un
istante, nel tremore del tuo; in un attimo incommensurabile si contempla la
sofferenza che dalla sua glaciale pupilla è rigettata su ciò che è altro da sé,
annientata, soppressa ben prima che un istinto indifferente e predatorio
l’abbia mai concepita.[9]
Evidente che il clima
oscilli simultaneamente in un’alternanza di frenesia e sobrietà, nell’assenza
di anacoluti o espressioni iperboliche; in un flusso continuo che trattiene –
per poi convertire in rapida successione – il vitale bisogno di sapere senza
che all’infine corrisponda un’occlusione. In quanto documentale e,
pertanto, sfuggendo alla tendenziosità, l’opera calibra una struttura
investigativa che riempie spazi oscurati dalla sottrazione sconveniente;
riconquista identità («La verità non può essere consuetudinaria») e, anche quando l’identità appare grama e
improvvida, continua in un’intelaiatura di fatti dalle temperature
mutevoli, collocate in un giogo di estremizzazioni che non lascia tregua al
ristoro, né però converge in disperazione.
La verità non può essere consuetudinaria. In natura,
la totalità dell’esistenza è fondata sulla metamorfosi, l’inesausto mutamento
delle forme e delle sostanze. Discipline quali la matematica, o perfino il
diritto positivo, stanno a dimostrare come la coscienza umana abbia nutrita in
sé la salubre ambizione ad emanciparsi da parvenze ed efferatezze, da ciò che
ne vincola l’evoluzione ad un’indole la quale ha nondimeno creduto di possedere
meschina, vile ed accidiosa.[10]
Diversamente da come ci si attenderebbe, espandendosi all’indietro come
memoria di memoria e, al contempo, nella versatilità dei tanti presenti
nella loro energia rivelatrice, le immagini mobili consentono l’accesso alla
rilevanza situazionale, tanto da misurare la modalità di lettura in un
equilibrio di ineluttabilità e circostanza palesate in effetti prodromici che,
in ogni caso, dissipano la velatura costrittiva, divenendo storia narrata e
auto-narrante, riconoscibile e riconducibile. Scrive Stefan a Bruno:
La
civiltà inizia soltanto quando qualcuno si decida ad agire non solo per
affermare le proprie ragioni ma anche quelle di un altro; fino ad allora,
esiste solamente la barbarie, che vuol perpetuare sé stessa e distruggere tutto
ciò che le è estraneo, la quale poi, allorché ci si persuada – e purtroppo
capita spesso nelle fasi della storia come pure nella vita di ogni giorno – che
le proprie credenze, per forza o virtù di un presunto ordine superiore, debbano
coincidere con quelle di tutti e di ciascuno, degenera infine in una catastrofe
ancora peggiore, che non conosce freni né discernimento e volge i conati della
propria violenza contro il mondo e contro sé stessa.[11]
Tanti e svoltativi, dunque, i protagonisti
dell’intera storia intervengono nelle movenze in cui la riflessione del lettore
s’immerge, ne ausculta le parole dalla valenza di luogo interattivo. Il
meccanismo così organato dà modo di accedere a un continuo giro di vite, in cui
confluiscono tanto i dati risaputi (e convenzionalizzati) che quelli
potenziali, adattati secondo una tecnica che, infine, ripiana le alterazioni
procurate non già da un torbido progetto di avvilimento, quanto dall’egemonica
attrattiva dell’economia di sintesi, della quale responsabile sembra essere
l’impoverimento di una collettività in conseguenza di un progressivo
indebolimento linguistico. In maniera
pressoché fortuita, dalla tessitura emerge la deviazione scientifico-tecnologica
del sapere a sostegno di un avanzamento della condizione di massa critica che, nel suo universo perturbato,
fagocita ben altri schemi, tesi a un costante tradimento. Un’entropia
consapevole. Su questa linea il romanzo pare avvalersi di una struttura
filo-scientifica, giacché: «Se un libro che leggiamo non ci sveglia con
un pugno sul cranio, a che serve leggerlo?»[12].
Si
accede così a un macro-mosaico di tessere misurabili, sia nel rigore che nella
vulnerabilità, sulle quali intervenire per verificarne l’esistenza (e non il
valore, derivante dalla visualizzazione stessa dell’evento, stando al ‘Principio
di verificabilità’ di M. Schlick) e riconoscerne la plasticità strutturale
attraverso il piano congegnato delle parole – vere e proprie molteplicità problematizzanti – in una forma austera, che si appella alla
corrispondenza tra antico e moderno all’interno di un frammento di ricordi dai
contenuti precisi. E, di fatto, è nel clima inclinato alla progressiva meditazione che avviene la rinuncia
all’epidemica potenza seducente
dell’intonazione. Ed è esattamente dalle sonorità soffuse e quasi solo
accennate che l’articolazione narrativa, alla stregua di una sinfonia
shostakovichiana, apre agli accadimenti con un lessico autorevole, autentico, maieutico, in grado di scavare nelle
segrete stanze che risorgono nelle trame esteriorizzate delle intenzioni. In
tutto ciò è l’insistenza di una neo-formativa educazione di stampo
cultural-linguistico, la cui forza è declinata a instillare decisività allo
scenario, in una cornice d’indipendenza che non ne altera la consistenza.
Esiste, dunque, un’interferenza continua procurata dai subissanti quesiti che,
nelle retrovie, Giancarlo Micheli pone al luogo dei fatti, là dove le
informazioni non siano aggiogate all’esausitività e all’esaurimento. Una
storia molteplice, come già scritto, e che, pur raccontata al passato, pare
emendare un’attualità complessificante e tutt’altro che congestionata; che
avvicina e distanzia a un tempo con movenze perfettamente equilibrate, alla
maniera in cui ci si accosta a una fotografia dimenticata e dalla quale i
soggetti traspaiono nelle loro identità vulnerabili, in un presente transitorio
eppure intrappolato in un’incomprensione capitale. Ed è all’insegna
dell’innocente inconsapevolezza la conferma alla definizione attribuita
dall’autore al protagonista principale – Stefan Bauer –, eroe sensibile alla prospettiva di una risoluzione finale dal
tratto edenico, benevolo (incosciente di quella antitetica Endlösung – la soluzione finale hitleriana) alla maniera di
Giuseppe in Egitto.
«Quando, due
estati fa, leggevo Joseph in Ägypten sul balconcino dell’appartamento
che avevamo in affitto a Padova, non avrei mai immaginato di dover presto
attingere le stesse mete delle perigliose peregrinazioni del protagonista.»[13]
Ma
la letteratura è un inganno se pensata come solutoria nel sogno-aspirazione,
all’insegna (e in conseguenza) del quale Stefan – giovane psichiatra coinvolto
nelle sue letture e nella ricerca (pericolosa in un periodo di persecuzione
razziale) sulle potenzialità oscene di una mente malata – resiste, in una
particolarissima realtà evocativa, come una panoplia collettanea di tante parti
(psichiatra a Leopoli, impiegato a Cinecittà, compagno con incarico alla sede
del Partito Comunista a Milano, incarcerato e pure accusato di tradimento).
Nella sua panoplia, Stefan si avvia verso la prospettiva della salvezza
propria, della sua famiglia e di tutta una collettività stordita e genuflessa
da un’incomprensibile umiliazione.
Il guerriero ideale è
colui che ha tagliato il nodo gordiano di consimili dilemmi: egli avverte
ovunque, in sé stesso non meno che nell’universo circostante, il conflitto,
nelle cui alterne vicende agisce sapendosi conservare incolume ed imperturbato.
Quanti, invece, alla metà del ventesimo secolo avevano ricevute dal prossimo
loro le convalide sociali spettanti a chi ricoprisse le massime responsabilità
militari erano uomini capaci di offrire ottime credenziali in merito al fatto
che, alla bisogna, non si sarebbero astenuti dalle estreme regressioni ferine
né dalle ultime sofisticazioni della crudeltà, in ciò a pieno giustificati in
grazia di un manifesto amore del quieto vivere, senza che mai disdegnassero, ad
onore di suppletiva garanzia, la pratica delle tradizionali virtù borghesi, […]
Stefan Bauer, è ovvio ed assodato, non apparteneva né all’una né all’altra
di codeste esclusive categorie.[14]
Di fatto, nelle sue tribolazioni Stefan incarna l’eroe del sogno che
trova nutrimento nei modelli percorribili della cultura, che appaga la pura
velleità di conciliare la sua esistenza (fortemente instabile in
un tempo assolutamente destabilizzato) con il tragitto svolto da Joseph in Ägypten di Thomas Mann
nell’illusione giovanile. Stefan è piccolo uomo adattato nelle tante vite
consapevoli e la realtà è grama e il
tempo non è quello auspicato dall’impegno intellettuale: sulla sciabola
dell’orizzonte torna fremente l’appartenenza ebraica a decretare il destino,
sicché le parole deviano verso i frantumi di un’umanità vitale, ma dissacrata
da più parti sebbene non ancora impedita a sperare. Scrive Stefan a Bruno:
[V]oglio ricordarti […]
ciò che Niccolò Machiavelli scrisse nel quindicesimo capitolo del suo Principe:
colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare, impara più
tosto la ruina che la preservazione sua, perché uno uomo, che voglia fare in
tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono
buoni. Il tempo in cui io e tua madre abbiamo vissuto l’età matura era ben poco
incline alle virtù, le asprezze della lotta per la sopravvivenza ed i più vili
istinti trasparivano fin nelle banali vicissitudini quotidiane; perciò, fummo
indotti a credere che non ci sarebbe stato in alcun modo consentito di
rifugiare nei sereni asili delle occupazioni spirituali.[15]
In questo senso, le parole stravolgono e travolgono; cadenzano le
movenze degli scenari ricomponendone schemi di complessità radicali;
favoriscono la ricomposizione netta del quadro storico attraverso
corrispondenze intimizzate di personalità riconoscibili e provenienti da
ambienti assai diversi. La loro presenza assume un valore particolare nella
continua biforcazione: l’una rigettata nello stolto non-vedere; l’altra
disposta all’affaticante conquista di un’identità all’interno di uno schema
degenerativo che non solo investe la comunità sottomessa al totalitarismo,
inteso quale potere politico deviato, e alla plutocrazia che pure deriva da
intenzioni progressiste e che si affligge nelle fagocitanti incrinature di una
tecnocrazia invalidante. In tutte le sue forme, il totalitarismo è figura
pleocroica e suasiva. Nessun tempo e nessun luogo ne sono immuni: «sia
pur appena larvate speculazioni sul tema del sosia o del doppio qual era
premeditato dall’ormai classica dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno o
desunto in recenti e neglette teorie riguardo alla riproducibilità tecnica di
ogni oggettiva estrinsecazione dalla quale si possano ricavare testimonianze di
umanità nel flusso fenomenologico delle esistenze»[16]. In
una spazialità comprensiva dell’al di qua e dell’al di là dell’oceano, le
situazioni esternano parvenze di carattere sociologico e, in un linguaggio
idosemantico, incidono su un devastato auspicio di miglioramento. Così pare sia
scritto, se anche il Maestro Freud «in calce al trattato Das
Unbehagen in der Kultur, ritenne di esprimere la sua geniale
intuizione per cui le varie civiltà finiscano per manifestare i sintomi di
nevrosi collettive proprio a causa dei loro stessi sforzi di incivilimento»[17]. Ad ogni modo, tali parvenze possono
essere almeno smascherate nell’interpretazione maieutica di una condizione di
eterno e diffuso amore che via via s’ingigantisce in inopinata ierofania,
consentendo agli spazi costantemente rigenerati di rivelarsi nel diaframma
documentaristico di modelli di reciprocità in sospensione del mal-animo: a loro
Micheli si affida per valorizzare l’esistenza tattile di un’irrefrenabile,
umana convergenza metonimica, inspiegabilmente defraudata della sua interezza.
Come afferma la princesse Marie Bonaparte:
«A mio modesto avviso, è altrove,
piuttosto che non negli istinti aggressivi ed omicidi, che si può intravedere e
riconoscere il volto di un’umanità infine evoluta, i cui tratti un’indole quale
la mia è portata a ricercare nelle miti fisionomie di quanti si dedichino alla
scienza, alle opere dello spirito, alle arti che, un tempo, si chiamavano
liberali, non certo nei sembianti truci e cupidi di morte di generali,
marescialli o fabbricanti di cannoni. No, caro signor mio, la guerra è, solo e
sempre, una sciagura; non esistono argomenti che la giustifichino.»[18]
Innegabilmente,
Giancarlo Micheli recupera la preoccupazione riguardo la condizione umana che
pur cambia di orizzonte temporale, ma trascina se stessa nella somiglianza
reiterata di un’oscura speranza pur in seno a un ambiguo ambiente, in cui
urbanità non sempre coniughi un degno senso di avanzamento tecnologico, né
reciproco rispetto rappresenti una condizione universale di progresso. Epperò,
su questo fronte, dalla folla pressante di indifferenze
è possibile rinvenire figure che ben rappresentano la convergenza umana (che in
precedenza ho definito nel suo aspetto metonimico) ed è per loro che da parte
dell’autore sembra propalarsi l’impegno a forgiare uno stile marcato da
sinusoidi lievi, che gravitano provvide lungo l’arco imponente del romanzo. In
particolare mi sovvengono la princesse Marie-Félix Blanc in Bonaparte e la
contessa Karolina Lanckorońska.
Marie-Félix Blanc è allieva devota di Freud – nel 1926 collabora alla
fondazione della Société Psychanalytique de Paris –, animatrice di interventi
contro la scelleratezza dell’individuo nel solipsistico vagheggiamento di
totale potere quale impedimento, piuttosto che di potenziamento sociale. Di
pari grandezza è la contessa Karolina Lanckorońska, che il lettore incontra
dapprima nel suo rigore autorevole di apprezzata storica dell’arte e, senza
reticenza alcuna, ostile al regime nazista, e poi artatamente ossequiata prigioniera a Birkenau, dove svolge il ruolo
di Stubenälteste nella baracca dove sono confinati Adele e il piccolo Bruno,
nel periodo in cui Bruno «era un
bambino molto sorridente, […] purtuttavia capace di relativa obiettività»[19],
passando dalla fase in cui, ancora infante, «[…] Bruno capisce dove abbiano
realmente abitato il padre e la madre di suo papà: non in vetta ad un Olimpo,
quale ha saputo inventarlo sulla stregua delle parole della signora Orvieto,
bensì in fondo alle rovine di quello, nella terra rivoltata dalla ferocia che
solo l’uomo sa usare contro i propri simili»[20]. Karolina accompagna Bruno fino all’età
intrisa di consapevolezza, al suo presente. Bruno, ormai adulto, si rivolge
alla contessa Karolina:
«Forse
di ancora maggiore sollievo sarà per lei apprendere che quanto mi ha raccontato
tempri il mio convincimento che nel mondo attuale sia giusto e necessario
combattere l’ordine dispotico che modula l’immanente dissimulazione di sé
secondo lo sviluppo cognitivo differenziale delle proprie soggettività,
osteggiare con ogni mezzo un sistema che sacrifica la vivente opera dell’uomo a
profitto delle tombe del capitale, subordina il lavoratore alla macchina.»[21]
Nella prospettiva,
Karolina rifulge per le certezze riguardo all’impegno dell’uomo. Nuovamente,
nessuna illusione: di fatto dall’altra parte della realtà vivente – che non è
capovolta, ma s’impregna di quelle che non già sono contraddizioni declinabili,
quanto risvolti dello stesso territorio umano – ci sono le schiere multiformi
dei rappresentanti dello stravolgimento polisintetico dell’humanitas. Nelle
loro decisioni alberga la cupa risposta. Tra costoro spiccano i responsabili
del Progetto Euthanasie e del Progetto T4 –
«dedicato a risolvere il problema dei pazienti di maggiore età cui fossero
state diagnosticate malattie congenite o ereditarie invalidanti»[22].
Data
la coscienziosità metodologica delle ricerche, dopo aver appurati con scrupolo
i parametri fisici al contorno tali da causare la morte per assideramento e
misurate le temperature corporee interne corrispondenti al decesso in un numero
sufficiente di casi, dimodoché fosse possibile stabilire, con margine d’errore
statisticamente irrilevante, il valore di soglia pari a ottantadue virgola
cinque gradi Fahrenheit o ventotto Celsius, soltanto allora si era passati a
studiare funzionalità ed efficienza dei vari sistemi di riscaldamento.[23]
Spingendosi, in un
avvertimento, nell’intrico segreto nel quale accoglie il lettore, l’autore più
volte a lui si rivolge con intimistica familiarità: «Il lettore non vorrà avere
la intemperante pretesa di precedere simili illustri personaggi. Ceda loro
spazio, dunque; […] si appaghi della propria personale
gentilezza, che è il primo passo verso la bontà, e di sapere di non sapere, che
è il primo passo verso la conoscenza»[24]. Non basta. Nell’approccio indagativo
l’autore non dimentica i facinorosi (penso all’ex sacerdote antisemita Giovanni
Preziosi o a Pietro Koch, capo dell’omonima spietata banda). E ancora:
sorvolando l’oceano, ci si trova nelle segrete stanze dei detentori della
tecnica coniugata senza mezzi termini con progresso. E così conosciamo da
vicino gli scienziati del Progetto Manhattan, tra i quali Robert Oppenheimer
(intrapreso nell’«esaltante sensazione di immedesimarsi […] al divino Krishna, nell’atto di pronunciare la frase “io sono la
morte, il distruttore dei mondi, giunto a compiersi, che adesso agisce per
rovesciare i mondi”»[25]). Da
loro giunge, ebefrenica, la sentenza secondo cui «[…] sarà compito […]
dei vari anonimi mandanti che siedono nei consigli di amministrazione delle
industrie belliche, tenere i rapporti con le istituzioni civili e militari
dell’Unione, consigliare quale debba essere l’uso proficuo ed efficace dei
risultati delle nostre ricerche; l’unico scopo che noi siamo chiamati a
prefiggerci inerisce, invece, alla soluzione dei problemi tecnici»[26].
«Nessuna
speranza per i sognatori, fuorché non abbiano la patologica tempra d’un Hitler.
[…] L’illusione, intimamente coltivata in ciascuno, di autodeterminare la
propria esistenza individuale, si somma nella risultante di una necessità
collettiva, che sospinge tutti verso una stessa catastrofe […] È il
capitalismo, bello mio!»[27]
In questo clima di
azzardo, il protagonista, Stefan, indirettamente
passa lo scettro di eroe a Bruno:
entrambi involti in un’amara consapevolezza, ma non tanto da protendersi al
lettore, libero di operare proprie proiezioni interpretative e intuitive
nell’agio di una visione globale-generativa. In presa diretta, scavalcando la
crono-storia, Giancarlo Micheli sollecita a penetrare i vari luoghi di Stefan
per il tramite delle missive indirizzate al figlio Bruno e che Bruno legge in
una simultanea sceneggiatura di corrispondenza tassonomica tra le parti,
all’interno delle quali echeggia un fondamentale proposito: pensare al romanzo
non già come luogo di concludente inizio e fine, ma come metatesi crescente e
formativa, realizzata da più individualità in un’inclinazione meta-storica
tentacolare, dalla variegata e sofferta ricercatività in grado di sostituire
alla fissità un montaggio che molto deve alla complessità cinematografica, per
approdare, infine, all’intendimento, gravido nel terzo millennio, a concepire una programmazione che si sviluppa
attraverso le tappe conseguite sotto l’egida trainante di un titolo colto dalla
popolare saggezza dei proverbi (Quanta verità in «Bisognerebbe esser prima
vecchi e poi giovani»[28]!). Per certi aspetti, in questo modo
la cronostoria si dissolve per lasciar libero un territorio polisintetico,
proiettato in una modulabilità reticolare che districa le distanze in un
linguaggio coerente e coeso e che, nel volgere continuo a una geometria
progettuale, avalla la spiegazione del «noto
attraverso l’ignoto» (K. Popper) in una ricombinazione di non-separabilità. Anna
Freud, studiosa e figlia del più celebre Sigmund, si rivolge all’amica Marie
Bonaparte:
«Io
credo che, dinanzi al cumulo di macerie sotto al quale la storia schiaccia la
vita presente di tutte le epoche, l’unica forza valida che debbano opporre le
persone come noi, che hanno appreso a glorificare l’opera dell’intelligenza e
del cuore umano, ogni giorno con la stessa tenacia e meraviglia di cui i
bambini ci danno insegnamento, sia la quotidiana perseveranza nel lavoro
analitico, foss’anche il costrutto che ne traggano di aver ampliato i limiti
della conoscenza di una quantità tanto esigua che né un’unghia né un capello,
peraltro, potranno mai misurare.»[29]
Giungiamo
pertanto a dare una particolare e ultronea definizione di romanzo-montaggio,
che investe tanto la molteplicità degli stili di conduzione scritturale –
epistolare, naturalistica, cerebrale, neo-realistica, positivista e
immaginativa – che la molteplicità (e moltiplicabilità proiettiva) dei
linguaggi al di fuori di qualsiasi volume monotetico che, nel puntare su un
luogo soggettivo, renderebbe esclusiva una prefigurazione totalmente generica e
distrattiva. Nutrite e corpose, al contrario, le tematiche si dipartono da un
unico punto luce per proseguire senza rallentamenti lungo determinanti
deviazioni, implicando a un tempo i presenti individuali attraverso le rotte
della rappresentazione ambientale che rifulge di stupore nella narrazione in
flashback e che, in una maniera particolare, disturba la linearità da una posizione diafasica, perturbabile e
che ben presto accarezza il lembo minimale di comprensione: «il progresso della
conoscenza non tollera rigidità» (S. Freud). Questi cenni non sarebbero
bastanti senza l’intervento diretto dei protagonisti tutti dell’intera trama,
estesa su pagine che trasudano di sciolta compiutezza lessicale, strettamente
legata alla scaturigine del concetto. Queste pagine aprono a un appuntamento
con una diversa immaginabilità descrittiva e sollevano velature rispetto a
quanto, nella rilettura occorsa nel tempo, avviene, scompigliando e
sottraendosi alla tirannia dei legami subliminali dissolti. Comprendiamo che la
coscienza possa esser conquista per chi lo desideri, nonostante il progetto
riservi non poche difficoltà. Ma in esame è la capacità non già fine a se
stessa del conoscere (E domani? –
verrebbe da chiedersi, prendendo in prestito il titolo di un’opera di B.
Russell), quanto i procedimenti del
conoscere e le pulsioni scatenanti nel prima, nel durante e nel dopo. Certo
verrebbe da pensare che il punto di osservazione migliore sia nel porsi a
distanza come esercizio efficace, nel quale la rapidità di cambiare orizzonte
corrisponda alla diversità di contenuti esposti nel loro evolversi senza
sforzo, soprattutto perché distinti nella severità dell’impianto che a nessuna
forma di emozione lascia spazio. C’è troppo da sapere e la potenza astrattiva
degli attributi potrebbe rendere pericolante l’impianto oggettuale dell’intera
struttura, organata secondo una tassonomia fluida, dirompente, mai evasiva;
carica di tale tensione che – nella metafora di una composizione priva di
interruzioni – squarcia l’oscurità e spalanca a una memoria generativa priva di
cesure e censura. Lascia, dunque, Micheli al lettore conscio la probabile e autocostruttiva
conciliazione di tutte le porosità in una prospettiva a largo respiro, che
giammai indugia sul fragoroso virtuosismo, né su anacoluti diversivi.
Tutt’altro: l’autore sottopone la traiettoria a repentini e significativi
cambiamenti, riuscendo a scavalcare la consuetudine per il tramite di una
centralità continuamente spostata e tendente ad evolversi in una nemesi
incessante.
Quand’anche al lettore non si
rivelasse ancora per intera la cruenta oscenità mimetica del potere, umano,
sovrumano o troppo umano, a seconda della particolare indole di ognuno, voglia
sentirsi in debito di comprensione nei confronti dell’eroe del romanzo, […];
considerato che nessuno intercede presso di lui affinché compia un tale sforzo
non indifferente, abbia la bontà di aggiungere, di propria spontanea
iniziativa, condiscendenza verso il personaggio che il suo autore ha posto
dinanzi ad un compito così difficile ed ingrato.[30]
Da
tutto quanto appare addirittura palpabile l’integrazione degli avvenimenti per
mezzo di una pluralità d’energia che rafforza la geometria cinetica in un clima
complessivamente apodittico. In un siffatto reticolato dal carattere pienamente
cinematico, la puntualità lessicale e l’argomentazione ininterrotta
intervengono ad affinare l’osmosi fertile tra presunte sovrapposizioni e
contrappunti coordinati nella variazione ambientale, tale da sostenere la
narrazione con una qualità tanto strutturante che convergente, con un
affastellamento di casi mai orbitanti rispetto alla vicenda portante della
famiglia Ascarelli-Bauer, sì che tutto appare
«animato da spontaneità e ispirazione reciproca»[31]. Si distanzia Giancarlo Micheli dall’aura
illusoria di grandi speranze e nemmeno si arrende dinnanzi a una possibile (e
solo procrastinata) resurrezione. Nonostante tutto, come già ampiamente
argomentato, il turbinio inventa una struttura allotropica che mai evoca
disagio e tormento. O, almeno, riesce caparbiamente a traslare il disagio in
azione possibilmente salvifica.
Se
non possiedi la certezza di avere davanti a te un complice, agisci nei suoi
confronti come se egli debba infine comportarsi verso di te come un
persecutore: la congruità di tale massima, che egli riteneva di aver verificata
nelle coattivamente peccaminose condizioni generali della guerra, parve
destinata ad ulteriore suffragazione nel prosieguo del colloquio.[32]
Infine, nell’intricato macro-evento che è il
vivere, avviene l’eterna smentita della promessa: l’illusione del mito
futuribile spinge a credere a un domani riarso di giustezza che, tuttavia,
s’imbriglia nell’ombra anonima alla quale, nella notte atra, ci si consegni
senza preoccupazione alcuna. In tal senso, più che varato sull’intra-incomprensione
umana, il libro ravviva un’invocazione a quanto incomprensibile sia la nebulosa
che comprime le responsabilità tanto dell’uno che della massa: una sorta
di play within the play shakespeariano, incaricato di un compito
illustrativo efficace per estrarre schegge di riflessione dalla macro-nebulosa
sceverata della storia conosciuta. In fondo sarebbe questa
la risposta degli intellettuali, ma le parole sembrano non esser sufficienti a
perorare la causa dello svincolo dalla tautologica esperienza che visualizza gli effetti e ne mostra
compattamente gli scenari nascosti e/o ingannevoli, accanto a scenari
compiutamente asfissiati da una memoria disgiungente. Si tratta di una
tipologia di neorealismo analitico, dal quale l’autore qui e là si sottrae, poiché
ne rifiuta il carattere predominante di transitorietà con il quale s’intende
definire un tempo incerto, e questo rifulge e al contempo inquieta: il
transitorio si afferma nella stabilità di un territorio continuamente violato,
nel quale vien da chiedersi dove si sia nascosto l’individuo virtuoso. E quale,
infine, il contributo al progresso dell’individuo nell’investigazione
antropogenetica e filo-psicanalitica? Quale lo scopo della ricerca se tutto
appare falso e scadente, continuamente alterato? In questa fase di
sospesa attesa prolungata – perché le azioni di vitalità a essa volgono –, il
tempo appare accumulo di cocci nella schietta autenticità. Insomma, un
tentativo che propizia la presenza dell’autore all’interno del libro nel
duplice ruolo di tessitore inventivo
di trame portate alla luce senza manierismi e soggetto vivente nelle maglie epocali – testimone nel presente a
dispetto del tempo che vanamente, pare, passi. Strumentalmente, in questo modo
Giancarlo Micheli avvia un processo di rottura con la cosiddetta struttura
narrativa della crisi, collocandosi in postura anticonvenzionale nel corso di
un tempo d’impoverimento-irrigidimento delle conoscenze, per attingere alla
costruzione di un senso invece globale, percepito mediante una corposa serenità culturale, ovverosia una forma
d’immaginazione che recluta dalla verificabilità dei fatti il proprio archetipo
e su esso imbastisce, a rigor di logica, quanto non già si comporti come
potenziale. Immaginari, dunque, i dialoghi recuperano un’onestà che non è né
antilusinghiera, né forzatamente ossequiosa, né, tantomeno, vibrante di cadenze
tratte da qualsiasi paventata esagerazione. E tutto appare fuor che esagerata
questa evoluzione delle strutture narrative: più che solo accompagnare, si auto-identifica in un kairòs metonimico.
Promuove se stessa, nelle sue sfaccettature, in una mescolanza organata secondo
una tetragonia che qualifica ad apparire consesso di storia e di storia
parlante.
Carmen De Stasio
[1] G. Micheli, Romanzo per la mano sinistra, Manni, Lecce,
2017, Le chiacchiere non fanno farina,
p. 123.
[2] W. Benjamin, I “passages” di Parigi, in Proust e Baudelaire – due figure della
modernità, R. Cortina Ed., Milano, 2014, p. 9.
[4] Ibi, La pena è zoppa, ma pure arriva, p. 86.
[5] Ibi, p. 87.
[6] H. Arendt, Antologia – Pensiero, azione e critica
nell’epoca dei totalitarismi (1930 – 1954), Feltrinelli, Milano, 2011, p.
225.
[7] G. Micheli, op. cit., Amore fa amore, e crudeltà fa tirannia,
p. 47.
[8] Ibi, La saetta non cade in luoghi bassi, p.
595.
[9] Ibi, D’Aquila non nasce colomba, p. 7.
[10] Ibi, Bisogna fare di necessità virtù, p. 488.
[11] Ibi, Dove son uomini è mondo, p. 349.
[13] G. Micheli, op.
cit., Amico di ventura, molto briga e
poco dura, p. 249.
[14] Ibi, Bisogna fare di necessità virtù, p. 488.
[16] Ibi, p. 90.
[17] Ibi, Non si vuol pigliare tutte le mosche che
volano, p. 115.
[19] Ibi, Chi muor di paura, si seppellisce nelle
vescie, p. 379.
[20] Ibi, p. 380.
[21] Ibi, Amor non ha sapienza, p. 621.
[25] Ibi, Temporal di mattina è per la campagna gran
rovina, p. 580.
[26] Ibi, I sudditi dormono cogli occhi del principe,
p. 399.
[29] Ibi, Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa
quel che lascia, non sa quel che trova, p. 514.
[30] Ibi, Beato quel corpo che in sabato è morto,
p. 534.
[31] H. Richter, dada
art and anti-art (1965), Thames & Hudson, London, 1997, p. 28.
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