un articolo di Giancarlo Micheli
pubblicato in Zeta (Anno XLVII, n.2, 2024)
Un tipico gioco surrealista consiste
nell’estrapolare da banali conversazioni, registrabili nelle più varie circostanze
– in camere di postriboli, interni familiari, stanze del potere pubblico o
segreto –, modelli morfologici da distribuire alla forza lavoro disponibile
all’apparato editoriale-industriale, affinché essa li applichi nella prassi
discorsiva, quanto basta a riprodurre il valore linguistico necessario come
mezzo di circolazione dei significati e ad aggiungere un’eccedenza incorporabile
al capitale fisso di conoscenza il quale, solo al prezzo stabilito nelle
relazioni socioeconomiche di ciascun elemento con tutti gli altri e di ciascuno
con il tutto da essi composto, diventa collettivo. Un sottoinsieme delle regole
che governano tale gioco è quello che sovraintende al funzionamento reale
dell’apparato editoriale-industriale, in tutta la complessa struttura di
gerarchie professionali, componenti metodologiche e disciplinari. D’altronde,
come insegnò pure Umberto Eco nel massimo ed italico dizionario enciclopedico
d’una scienza tipicamente novecentesca, dato alle stampe a metà anni Settanta
sotto il titolo di Trattato di semiologia generale, e come insegnava, si
parva licet componere magnis, pure il critico letterario statunitense Eric
Donald Hirsch accorgendosi che «anche quando il significato che l’enunciante
desidera esprimere è inusuale egli sa che per esprimere il suo significato deve
prendere in considerazione la probabile comprensione dell’enunciatario», tant’è
che, in anticipo su entrambi, il linguista svizzero Charles Bally descrivesse
tale transfert tra enunciante ed enunciatario come «sdoppiamento della
personalità» nel suo Linguistique générale et linguistique française,
pubblicato a Berna durante il penultimo anno della Seconda guerra mondiale,
d’altro canto, l’insolito non trova per manifestarsi un luogo d’elezione ed un
miglior contesto altro che nell’ovvio e persino nel triviale, addirittura nel tetraviale
secondo l’accentuazione da cui è orientata questa breve prosa prospettica. Esiste
un punto della superficie terrestre dove lo stato capitalistico si è fatto in
quattro più letteralmente che altrove: lungo coppie di segmenti rettilinei e
perpendicolari, vi concorrono i confini territoriali di Utah, Colorado, New
Mexico e Arizona, in forza di quanto sancito dal Congresso degli Stati Uniti al
tempo in cui era ancora in corso la guerra civile. L’area sulla quale insistette
l’efficacia di quei decreti fu abitata, sin dall’alba dell’olocene, da numerose
popolazioni native, una delle quali venne icasticamente denominata Pueblo da
parte dei precedenti colonizzatori spagnoli ed è oggi nota, nel lessico
dell’etnologia nonché in quello generico, sotto la forma abbreviata alle prime
due sillabe dell’autonimo Hopituh Shi-nu-mu, il popolo pacifico. Eppure non è
ancora il genere di meraviglia di cui stiamo andando in cerca quello esemplato dall’ineccepibile
corollario democratico che, sotto al dominio giuridico fattovisi via via bellicoso
ed occidentale, concede ai parlanti di quell’antico idioma una libertà di
espressione ed autodeterminazione proporzionale alla quota irrilevante che essi
rappresentano sul totale della cittadinanza nella patria del primo emendamento.
Tra le credenze cui indulsero codesti aborigeni e delle quali l’evoluzione
adattiva della specie si affretta a fare giustizia, tra le interpretazioni
ingenue rilevabili nei loro miti cosmogonici, che un’analisi narratologica bachtiniana
annovererebbe senza ambage al cronotopo folclorico-idillico, modellato sulla
ciclicità del regno vegetale, ve n’era una stando alla quale la terra, che essi
calpestarono e su cui seminarono il mais a partire dal disgelo würmiano, fosse
composta dalla polvere d’ossa degli antenati. Ora, lettore, fai ricorso alla
minima alchimia che serve a trasformare non tanto lo sterco in oro massiccio,
bensì il fosfato di calcio, da cui è composta la parte mineralizzata del nostro
scheletro, in solfato del medesimo metallo alcalino e, a meno che tu non sia persuaso
di non poter assolutamente aprire una porta ruotando la serratura attorno alla
chiave, acconsentirai a lasciarti guidare, all’istante e senza alcun onere di
lunghe e faticose tratte, su un sedimento dove la storia ha impresso omologhi
segni cruenti.
Nel bacino di Parigi, a metà del periodo geologico terziario, si formarono gli strati calcarei e gessosi che l’erosione avrebbe poi rimodellato fino a farli affiorare in una serie di modesti rilievi lungo i meandri della Senna. A nord-est svettarono, poche decine di metri sopra al livello del mare, alcune di queste buttes, alle quali sarebbe stato attribuito il toponimo Chaumont a causa del loro brullo aspetto (chauve mont, monte calvo), se è vero quel che sostenne nelle sue memorie il barone Haussmann, prefetto dell’ultimo imperatore Bonaparte e promotore della grande ristrutturazione urbanistica della capitale; fin dal Seicento le grotte sui loro fianchi vennero adibite a cloaca, dove, ad effetto della successiva crescita demografica, i bottinai vennero a scaricare da sempre più lontano, sicché nei paraggi si sviluppò presto un’economia sussidiaria e malsana, di macellatori, conciatori, allevatori di vermi per la pesca, mentre ai piedi delle collinette si somministrava la pena capitale sul patibolo di Montfaucon, tanto da supplire con archetipi del tutto autoctoni alle esigenze creative di Antonin Artaud quando, negli anni Trenta del ventesimo secolo, si accinse ad evocare i truci riti assiri degli imperatori bassianidi nel noto Eliogabalo o l’anarchico coronato. A quel tempo, però, il sito aveva ormai subito ampie bonifiche: durante la Rivoluzione erano state aperte le cave di scagliola, le quali dettero incremento all’edilizia parigina ma infersero nuove sofferenze all’ambiente e alla cittadinanza, come registrarono le cronache di crolli e cedimenti del sottosuolo, tant’è che a metà dell’Ottocento le condizioni dei residenti non si fossero di molto sollevate al di sopra di quelle degli antenati. Come poteva dunque non intervenire un uomo della provvidenza? Ordinata la cessazione delle attività estrattive e colta l’occasione offerta dall’Esposizione universale in programma nel 1867, Napoleone III volle donare agli abitanti un parco, edificato sulla sede della preesistente discarica senza nulla lesinare quanto a supremazia tecnologica e salubrità di competenze. Tramite lavori di sterro e di riporto a dir poco pionieristici la planimetria fu rivista e le alture riattate, cosicché l’eminente, ribattezzata butte Puebla, sovrastasse un laghetto artificiale ed un sofisticato sistema idraulico d’acque correnti, in modo da fornire la perfetta suggestione d’un paesaggio alpino in piena regola e da saziare con effluvi oltremodo balsamici i polmoni dei visitatori proletari, adusi ai miasmi della banlieue. Il pianeta non fece però a tempo a completare quattro orbite che già i sogni positivisti dell’autocrate s’infransero contro gli acuminati Pickelhauben prussiani e proprio quei lotti di terreno, i tempietti e i padiglioni in mattoncini, ceramiche colorate ed altri materiali innovativi caratteristici dell’Art nouveau, furono sventrati dagli obici delle truppe di Thiers incaricate di reprimere la resistenza degli ultimi comunardi, che si erano asserragliati là. «Alle buttes Chaumont fu innalzato un rogo colossale, inondato di petrolio, e per giorni un fumo spesso, nauseabondo impennacchiò le massicciate»; di quanti difesero eroicamente il popolo parigino fino all’ultimo respiro «trecento, che erano stati gettati nei laghetti artificiali, riaffiorarono in superficie e, gonfi, emanavano il loro afrore di morte» riferì, in Histoire de la Commune, Olivier Lissagaray, genero di Marx. Eppure, mezzo secolo più tardi, tra quei poggioli di pietra gessosa, una volta che fu ripristinato l’arredo vegetale tramite la piantumazione di sofore, gledissie e tutta una ricca epitome di biodiversità, i surrealisti stabilirono uno specifico culto della loro poetica visionaria e Louis Aragon dedicò ai giardini pubblici del quartiere del Combat persino un lungo capitolo del suo romanzo Le paysan de Paris (Gallimard, 1926), dove, come ebbi a scrivere anni or sono, permise «all’opera, quale compimento di attimi vissuti, di risalire fino alla quota dove il paesaggio, non più mero sfondo delle azioni incorrelabili e contraddittorie dei personaggi, si lascia ammirare come un volto umano, come il volto della donna amata».
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