mercoledì 11 agosto 2010

Wystan Hugh Auden – complessità, memoria e ironia

articolo pubblicato sulla rivista
La Mosca di Milano - intrecci di poesia, arte e filosofia (n.21, Edizioni La Vita Felice, Milano 2009)



Wystan Hugh Auden –
complessità, memoria e ironia



Rimbaud

Le notti, gli archi della ferrovia, il puro cielo,
erano ignoti ai suoi orribili compagni;
ma in quel bimbo scoppiò la menzogna del retore
come una tubatura: poeta lo rese il freddo.


Il bere che gli offriva l'amico fiacco e lirico
gli sregolava i sensi in modo sistematico,
ponendo fine a tutto il solito nonsenso;
finché alla debolezza e alla lira fu estraneo.


Il verso era una strana malattia dell'orecchio;
sufficiente non era l'integrità; pareva
l'inferno dell'infanzia: doveva ritentare.


Adesso, galoppando per l'Africa, sognava
un'altra identità, il figlio, l'ingegnere,
quella sua verità buona per i bugiardi.

Wystan Hugh Auden, da Another Time (London, New York 1940)






Nel marzo del 1938, assieme allo scrittore Christopher Isherwood, amico d’infanzia e suo attuale amante, Auden raggiunse la Cina con l’incarico di realizzare un reportage di guerra. Da alcuni mesi la Cina resisteva all’urto dell’imperialismo nipponico, alle violenze e alle razzie che, in ogni tempo, sono consueto corollario alle campagne belliche. Durante quello stesso anno e durante il successivo, il mondo intero sarebbe sprofondato nel baratro della carneficina globale. Nei commentari in versi, che Auden aggiunse al diario di viaggio dell’amico, si leggono alcuni passi che illustrano bene la profondità e la consapevolezza alle quali, già in quel tempo, era approdata la sua poetica: “Ѐ questo un settore e un episodio della generale guerra tra i morti e i non ancora nati, tra il Reale e l’Immaginario, che, per la creatura che crea, comunica e sceglie, unica tra gli animali conscia dell’incompiuto, è, nell’essenza, eterna”.
Allora Wystan era già poeta affermato. Nel 1930 era stata pubblicata, presso la prestigiosa casa editrice londinese Faber&Faber, la sua prima raccolta di versi, dal titolo icastico e promettente, Poems. Egli vantava, inoltre, la stima di Thomas Stearn Eliot, che di Faber&Faber era direttore editoriale, nonché di altri poeti e critci: Stephen Spender , Dylan Thomas o Naomi Mitchison, la quale, sulle pagine di The Week-end Review, recensì la sua opera di esordio con toni encomiastici. In virtù di tali titoli di merito l’opinione pubblica inglese gli perdonava ciò che appena cinquant’anni prima non aveva potuto perdonare ad un altro grande della letteratura patria, Oscar Wilde. Se le inclinazioni omosessuali, che Wystan viveva con coraggio e senza infingimenti, non pregiudicavano agli occhi del pubblico il suo valore di poeta, nondimeno procuravano che egli fosse considerato con sospetto e fatto segno di prudente biasimo, soprattutto presso gli ambienti ideologicamente conservatori e perbenisti. Ricordiamo che i comportamenti omosessuali, nel Regno Unito, iniziarono gradualmente ad essere depenalizzati soltanto a partire dal 1923, quando Wystan era un ragazzo di sedici anni. Il poeta di York, del resto, vantava altre caratteristiche tali da riuscire invise a molti dei sudditi britannici, in anni in cui l’impero coloniale andava dissolvendosi assieme ai sistemi del libero scambio e della base aurea grazie ai quali al Regno era stata, fino ad allora, garantita potenza politica e prosperità industriale. In quegli anni trenta, quando il governo e il senso comune inglesi non avevano ancora maturato una posizione chiara e cosciente nei confronti della minaccia nazista, la esplicita adesione di Auden all’ideologia marxista non giovava certo ad un consenso alla sua opera che fosse unanime e diffuso. In un frangente storico durante il quale anche in Gran Bretagna, modello di stabilità politica e sociale, il movimento fascista di sir Oswald Mosley era riuscito a guadagnare non pochi proseliti, a quanti componevano i ceti colti e professionali, tradizionali consumatori della letteratura, non doveva essere insolito né arduo giudicare con patriottico disprezzo opere satiriche e dall’ironia pungente quali The Orators (1932) o le pièces teatrali composte a quattro mani assieme a Isherwood (The Dance of Death, 1933; The Dog Beneath the Skin, 1935; The Ascent of F6, 1937). A dispetto di ciò Auden poteva allora godere di amicizie importanti, principalmente negli ambienti progressisti; egli si giovava della solidarietà e della simpatia di uomini illustri, dalla incontestabile autorevolezza. Apparteneva, pertanto, e a pieno titolo, alla classe intellettuale, al ristretto novero di brillanti e censiti ingegni alle cui cure erano, per consuetudine, delegate le scelte decisive, vuoi nel campo pratico vuoi in quello spirituale. Quand’anche costoro si sbagliassero, essi erano, pur tuttavia, ben consapevoli delle ragioni che li avevano tratti in inganno. Perciò, se Wystan non era esecrato pubblicamente e in modo esplicito, era soltanto perché chi lo avesse fatto sarebbe stato giudicato un inopportuno ingenuo. A sottrarsi a tutto ciò il poeta aveva già provato: prima arruolandosi come autista nelle brigate internazionaliste che avevano combattuto nella guerra civile spagnola, poi accettando da parte di Random House e Faber&Faber l’incarico per il reportage di guerra in Cina. Al ritorno dall’oriente egli decise di lasciare definitivamente l’Inghilterra per gli Stati Uniti, dei quali ricevette in seguito la cittadinanza, nel 1946.
Il suo imbarco per New York rese a molti, in patria, l’opportunità per apostrofarlo come un traditore, un egoista che, di fronte ai difficili frangenti che il paese si apprestava ad affrontare, non aveva saputo rinunciare agli agi e ai conforti che oltreoceano gli sarebbero stati dispensati. Soprattutto da parte di coloro che avevano condiviso con lui idee radicali e progressiste egli fu aspramente criticato. La sua partenza dall’Europa, che andava a grandi passi sprofondando nella barbarie, dovette avvenire in uno stato d’animo affine a quello in cui Arthur Rimbaud raggiunse il continente africano, l’altra terra o la terra dell’altro, dove egli aveva ricercato un orizzonte da inseguire, la liberazione dalla bellicosa angustia della quotidianità borghese, il risarcimento, attraverso la distanza, della ferita della sua diversità, del suo essere poeta. Wystan lo raccontò in una delle liriche più belle della raccolta Another Time (1939), il sonetto dedicato appunto a Rimbaud, che si conclude così: “Now, gallouping through Afrika, he dreamed/ Of a new Self, the son, the engineer,/ His truth acceptable to lying men.”¹
Nondimeno, non fu il risentimento a indurlo ad abbandonare la terra natale. Nel corso del secondo anno della sua residenza newyorchese egli ebbe a scrivere, in una lettera indirizzata all’amico Louis McNeice, che sia in Inghilterra che negli Stati Uniti “oggi un artista si sente essenzialmente solo, intrecciato a radici morenti, sempre in opposizione ad un gruppo”, con la sola ma fondamentale differenza che in America “assieme a 140 milioni di solitari che gli girano attorno egli è costretto a non perdere il suo tempo ad uniformarsi oppure a ribellarsi”. Una necessità interiore, che non poteva non emergere né poteva essere censurata, lo sospingeva a creare una lingua poetica dove il mito si intrecciasse all’esperienza, foss’anche l’esperienza banale e quotidiana, della quale egli, con lucidità unica e penetrante, intuì la tendenza a ridursi ovunque alla forma monopolista della nevrosi di massa, sotto tutte le latitudini e tutti i regimi. Tale consapevolezza fu espressa in maniera mirabile nelle raccolte di versi scritti durante i suoi primi anni americani: The Double Man (1941), For the Time Being (1944), The Age of Anxiety (1947) e The Shield of Achilles (1955).
In questi anni si operò nel poeta un ripensamento profondo delle radici della propria particolare vocazione, del resto mai disgiunto da una riflessione generale sulle condizioni di esistenza di una poetica possibile; ne fu segno distintivo il tema del disvelamento delle molteplicità, sottaciute o alluse, in ogni fissazione identitaria del pensiero. “All real unity commences/ In consciousness of differences”² scrisse in The Age of Anxiety, dove le differenze sono tanto quelle tra gli individui, socialmente determinate dai modi delle loro relazioni, quanto quelle che ripartiscono internamente i soggetti di ogni enunciazione e di ogni atto. Nel lungo poema Horae canonicae, che fu pubblicato all’interno della raccolta The Shield of Achilles, le voci del carnefice, della vittima e del testimone intrecciano una soggettività elegiaca sostante in una vigilia atemporale, che è il momento antropologico dell’attesa, completo dei fremiti del corpo che si risveglia e delle immagini inconsce che lo incalzano dal sonno, non meno di quanto sia il Venerdì di cui parla la teologia cristiana o la memoria di altri eventi messianici, più a fondo dimenticati. La sostanza della sua ricerca, instancabilmente rivolta a esplorare la complessità e la profondità dell’essere, spiega anche il suo riavvicinamento, che data dal periodo in questione, alla religione cristiana. Se, dunque, nel Dicembre del 1939, dopo essere rimasto turbato alla visione dell’esultanza nazionalistica del pubblico di immigrati tedeschi che gremiva una sala cinematografica di New York, egli ricusò i versi con cui, nella celebre lirica Spain, aveva invocato la resistenza internazionalista, Auden non si riaccostò alla teologia per averne rassicurazioni equivoche sul senso di una perduta identità. Il tempo dei nazionalismi armati già inscenava apertamente la sua profana apocalisse, e il poeta aveva di ciò coscienza troppo acuta per incamminarsi a ritroso sul terreno che aveva lasciato dietro si sé (i nonni di Auden erano stati entrambi pastori della Chiesa d’Inghilterra, e il loro lascito spirituale era stato ricevuto con devozione dai genitori del poeta). Il suo senso del sacro fu, al contrario, sempre accompagnato da una tensione inestinta verso l’incontro con la diversità, che Wystan testimoniò pure nella vita, unendosi sentimentalmente al poeta ebreo Chester Kallman, stringendo sodalizio con i poeti afro-americani Owen Dodson e Robert Hayden, dimostrando una spiccata sensibilità per la nuova condizione della donna nei mutati contesti sociali.
Quando Auden rivide il proprio giudizio su alcune sue opere passate e mutò posizione rispetto all’ideologia marxista, della quale i suoi lavori degli anni trenta erano impregnati, non fu affatto per aderire a posizioni retrive quali, nel mondo letterario anglosassone, ne avevano espresse autori nazionalisti e antisemiti come Wyndham Lewis: “Whichever cause you adopt it is a game purely and simply. The only important thing is to be on the side to which you belong”³. Al contrario, Auden, pur riconoscendo la propria appartenenza alla “bourgeoisie” (“No, I am a bourgeois” egli conclude una lettera all’amico Rupert Doone, nella quale spiega le ragioni che, nel 1932, lo avevano fatto desistere dall’aderire al partito comunista), proseguì il proprio cammino artistico e esistenziale sul sentiero che, sebbene egli fosse consapevole dei limiti e della perfettibilità umane, liberasse la sua visione sulla prospettiva del futuro, tenendola in equilibrio sulle corde parallele della soggettività desiderante e delle tendenze storiche oggettuali. Nelle raccolte che pubblicò nell’ultima parte della vita, da Homage to Clio (1960) a Thank You, Fog (1974), egli fuse in maniera sempre più felice il metro classico, giambico o trocaico, alla lingua colloquiale e gergale, traendone, sotto gli auspici di una musa congeniale e ironica, l’esito di versi lievi e magnanimi, dispensati dalle labbra di un esperto centauro che abbia oramai appreso a dimenticare le verità da cui i suoi futuri discepoli non mancheranno di essere scossi e, forse, risvegliati.
Sono esempio di ciò i versi, amari e disillusi, con i quali il poeta rifletté sull’occupazione sovietica della Cecoslovacchia, in August 1968: “About a subjugated plain,/ Among its desperate slain,/ The Ogre stalks with hands on hips,/ While drivel gushes from his lips”⁴.

Giancarlo Micheli

 

1 “Ora, attraversando l’Africa al galoppo, sognò/ Di un nuovo sé, il figlio, l’ingegnere,/ La sua verità accettabile per i bugiardi.”
2 “Ogni autentica unità comincia/ Nella consapevolezza delle diversità.”
3 “Qualsiasi causa tu adotti, si tratta di un puro e semplice gioco. La sola cosa importante è, invece, scegliere di stare dalla parte cui si appartiene” in English Review, 59 (Novembre 1934).
4 “Lungo una soggiogata pianura,/ Tra le sue vittime disperate,/ l’Orco incede con disinvoltura,/ mani sui fianchi e facendo battute.”

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