recensione
di Stefano Busellato a Elegia provinciale
(Fratini, Firenze 2013; pp. 297, € 18) di Giancarlo Micheli
pubblicata
in l’immaginazione (Anno
trentunesimo, n.285, gennaio-febbraio 2015)
«Stile
significa un uomo solo circondato da miliardi di uomini»: lo scrisse Charles
Bukowski in Portions of a Wine-stained Notebook, in Italia Azzeccare i cavalli vincenti
(Feltrinelli, 2009). Nell’odierno contesto della produzione editoriale e
letteraria, che pone in mostra innegabilmente una relazione di proporzionalità
inversa tra il valore delle opere ed il loro successo commerciale, questo
aforisma diviene perfetto per l’opera e la prassi di scrittura di Giancarlo
Micheli, uno scrittore, lui, in mezzo a così tanti semplici scriventi. Se il
romanzo d’esordio, Elegia provinciale
(Baroni, 2007 ed oggi riproposto nei tipi dell’editore fiorentino Fratini),
lasciò pensare che un’opera eccellente porti con sé la difficoltà di
confermarsi con le successive, Micheli ha dato dimostrazione di essere una voce
cui dover prestare attenzione con Indie
occidentali (Campanotto, 2008) e La
grazia sufficiente (id. 2010). Quali, dunque, le caratteristiche di stile
che contraddistinguono la prosa di questo autore e la fanno spiccare
nell’attuale contesto letterario – vittima passiva o, di più, consenziente,
delle patologie mediatiche vigenti? Nell’attuale temperie, inflazionata di
antiromanzi e poverissima di scrittori autentici, il corpus di Micheli si presenta, invece, quale rifondazione del
romanzo classico. Alcuni hanno paragonato il suo stile a quello di Gadda: io
ritengo sia improprio; più semplicemente, ritrovo nelle sue pagine l’originaria
forma manzoniana. Anche Elegia
provinciale è un romanzo storico, che racconta la Storia maiuscola dando
voce alle minuscole di umiliati ed offesi dostoevskiani, che in questo caso
sono i personaggi dell’ambiente rurale ed umilissimo della Torre del Lago di
inizio Novecento, dove il maestro Puccini attende alla composizione di Fanciulla del West e si prepara alla
spettacolare e consacratoria messa in scena del Metropolitan di New York.
Protagonista della vicenda non è infatti il musicista con i suoi celeberrimi
fasti artistici conditi dalle piccanti, e non meno rinomate, sue intemperanze
erotiche e sentimentali, bensì il tessuto della civiltà contadina che, sotto i
colpi di una modernità di cui l’arte pucciniana è esponente, viene sradicata –
siamo negli anni che precedettero la Grande Guerra – dai propri rapporti animici e sensoriali con
i cicli della natura.
I
caratteri della lingua del narratore sono quelli di un periodare disteso, se
non manzoniano, alla Mann, che obbliga il lettore a soffermarsi, a ponderare, a
gustare. Le scelte lessicali vivono nell’estrema ricercatezza, non però come
arcaismi, ma per mantenere in vita l’infinita ricchezza della lingua italiana.
Ora, poiché una lingua non solo è il sostrato del pensiero ma anche lo
strumento che permette al pensiero di ampliarsi, approfondirsi, afferrare, ciò
che si guadagna alla fine della lettura dei romanzi di Micheli è un
accrescimento della facoltà percettiva e intellettiva. Non è un dono da
disprezzare. Luigi Meneghello scrisse che «morendo
una lingua non muoiono certe alternative per dire le cose, ma muoiono certe
cose»: quanto più si impoverisce, ci impoveriamo di linguaggio, tanto più si
impoverisce la nostra realtà. In ciò il lavoro di Micheli sulla forma romanzo
non solo è utile, ma indispensabile. Riuscendo ad alternare registri distinti
per dare voce ai vari personaggi, nella piena consapevolezza linguistica delle
loro strutture psicologiche e delle loro specificità sociali, egli realizza
quello che Francis Ponge, un altro virtuoso della lingua, diceva essere il
segreto dello scrivere bene, vale a dire lo scoprire mondi in questo mondo,
panorami di sentimenti e percezioni che altrimenti, senza l’alta letteratura,
rimarrebbero perduti. Si legge in uno dei capitoli centrali di Elegia provinciale: «Imbruniva la luce del pomeriggio di settembre. Si era
levata da ponente la brezza vespertina, a scompigliare le scarne chiome dei
tigli, scossi, come in ansia per il sentimento succhiato dalle radici profonde,
nelle quali la terra presentiva il desiderio del prossimo freddo. Ogni contorta
fibra legnosa si insinuava nelle tenebre, là-bas,
nel crogiuolo dell’opera al nero, aniconica alchimia del nutrimento, ignorante
della morte ma ad essa non ignota. Là-bas
la natura delle cose, non vista, istruisce lo spirito all’impietoso décor del vero». L’ormai comprovata abilità di Micheli nell’esser
capace di aprire la ricchezza della realtà nel nostro vivere quotidiano
frenetico e ovatatto, lo rende un autore di indubbio rilievo nello scenario
contemporaneo, in attesa di un pubblico di buoni lettori, che riconoscono
l’importanza della lettura rispetto al mero sfogliare.
Stefano
Busellato
Posso soltanto precisare che per me è stato un incontro casuale, che però non avrei voluto perdere ? Ha suscitato interesse e apprezzamento convinti.
RispondiEliminaRingrazio
Arple Ferrato - COMO
Gentile Arple Ferrato,
RispondiEliminagrazie per il suo commento. Un augurio di buoni giorni e casi felici
Giancarlo