martedì 22 novembre 2016

Le ragioni per cui valga la pena di vivere

recensione di Tomaso Kemeny
Il fine del mondo (Ladolfi, 2016) di Giancarlo Micheli
pubblicata in l’immaginazione – rivista di letteratura (Anno XXXII, n.296, novembre 2016)

Già in un romanzo precedente, Elegia provinciale, in cui si trattava della morte di Doria Manfredi, presunta amante dell’indimenticabile Maestro Puccini, fatto di cronaca assai clamoroso nell’epoca e nell’ambiente dove avvenne, consono a mostrarsi quasi come un gossip ante litteram, Micheli si concentrava invece ad evocare il paesaggio agricolo che andava progressivamente diventando industriale, le consuetudini, i numerosi vizi e le rare virtù di una nazione che si preparava all’ecatombe della prima guerra mondiale. Se può ritenersi facile formulare vaticinî retrospettivi sulla base di accadimenti storici assodati, come l’autore faceva allora, egli con Il fine del mondo conferma, adesso, una vena profetica.
Volendo istituire un parallelo con un intellettuale di fama quale Umberto Eco, laddove questi esercitava la virtuosistica capacità, avendo ben studiato Tommaso d’Aquino, di costruire delle tipologie di eventi cui dare un significato in rapporto al presente, Micheli dispiega nella prosa un acume critico, talvolta visionario, che potrebbe essere considerato neo-marxiano. Se lo psicoanalista legge un sintomo per dargli un senso, in maniera analoga Micheli accompagna il lettore lungo belle descrizioni naturali, amorose, ecologiche, relative a contesti delle più varie situazioni sociali e geografiche, come in quest’ultimo romanzo dove si spazia dalla Cina alla valle del Niger e fin nel Vecchio e nel Nuovo continente, finché, sotto la nebbiolina di uno stile complesso e mentre si indagano i temi fondamentali della vita – cos’è l’amore, cosa il denaro, cosa la gioia o il dolore  –, appare in filigrana il pericolo della fine del mondo, proprio alla stregua di un mostruoso segno rivelatore degli impulsi autodistruttivi sepolti nell’inconscio collettivo della specie. In un’epoca di scrittura superficiale, talvolta magari anche brillante, l’autore di Indie occidentali e della Grazia sufficiente ne esibisce, in esplicita controtendenza, una che è tutta densità, stratificata in piani polisemici che sempre stimolano la perspicacia interpretativa del lettore. In un passo di uno dei capitoli iniziali, che mi sembra esplicativo per illustrare quali siano gli strumenti espressivi caratteristici della lingua narrativa di Micheli, è dato imbattersi in una tipica epifania joyciana, in cui il racconto si illumina di senso: «La corrente trascinava tronchi d’albero, suppellettili e veicoli con parimenti equanime inerzia. Sul tetto di un’automobile un prete cattolico, la veste talare a tal segno intrisa d’acqua da piegargli le ginocchia sotto al proprio peso, resisteva tuttavia in postura eretta e volgeva al cielo ossecrazioni che doveva aver tratte dal Libro di Daniele o dall’Apocalisse di Giovanni». Troviamo qua, oltre ad un’ironia che ricorre spesso anche altrove ed ogni volta attentamente dosata, la forza travolgente della natura, la quale prostra il malcapitato sacerdote nel medesimo gesto che egli ha appreso ad eseguire in segno di lode o di supplica dinanzi  all’oggetto della propria fede. Non dunque la forza del destino, sempre connotata da un’esuberanza drammatica, bensì quella della natura, che ama nascondere il grande dentro al piccolo, il limite superiore dell’energia nei minuscoli orbitali dell’atomo. In ciò consiste anche la forza della scrittura di Micheli, poiché essa non esplicita i contenuti ma si limita a renderli accessibili all’illuminazione di chi legge. Il fine del mondo risulta, pertanto, un’opera interamente inscritta nel tempo presente, così da lasciare intravedere, nell’aspetto intimamente concreto dei vissuti soggettivi, la terribile minaccia apocalittica incombente sul pianeta, minaccia che lo stile stesso evoca, attraverso la congruente metafora del diluvio: frasi dilatate con impetuosità, che offrono una rappresentazione indiretta dei flagelli attestati in molteplici tradizioni. Accanto a ciò – cosa che ci ha suggerito una lettura del testo in termini, come detto, neo-marxiani  compaiono, in antitesi dialettica, le ragioni per cui valga la pena di vivere.
Tomaso Kemeny

II fine dell’esistenza o la cognizione di un mondo infine abitabile

recensione di Fabio Flego
a II fine del mondo (Ladolfi, Borgomanero , 2016, pp. 126, € 12) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Erba d’Arno (n.144/145, primavera/estate 2016)

Giancarlo Micheli, classe 1967, si dedica alla scrittura, in versi e in prosa, da oltre vent’anni ed ha al suo attivo numerose pubblicazioni comparse in volume, in riviste letterarie e in antologie.
Delle sue raccolte di poesia si segnalano Canto senza preghiera (Baroni, Viareggio 2004), Nell’ombra della terra (Gabrieli, Roma 2008) e La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012).
In ambito narrativo, II fine del mondo è il suo quarto successo editoriale. Dopo l’esordio con Elegia provinciale (Baroni, 2007), un romanzo giallo, storico e biografico al tempo stesso, una love story, un’analisi di coscienza e delle coscienze che sul Lago di Massaciuccoli, «specchio di antichi e selvaggi enigmi», vedono protagonisti il maestro Puccini e le sue donne, passando attraverso la storia, in Indie occidentali (Campanotto, 2008), dell’emigrazione di una coppia di giovani sposi toscani «guidati dal desiderio di affermare valori condivisi e di progredire umanamente», fino al viaggio narrativo di La grazia sufficiente (Campanotto, 2010) «per risalire al tempo dei primi contatti tra le culture occidentale e orientale, alla ricerca di una vita umana e sensibile, equanime e felice», Micheli torna ora a stupirci con il messaggio subliminale di questi trenta capitoli coinvolgenti e scioccanti, impreziositi da un prologo, un epilogo e un’appendice illuminanti, che, con l’incalzante urgenza di trenta sequenze sceniche non sempre consequenziali, si rincorrono per dare una visione utopica della realtà ed invitare a una riflessione sul fine dell’esistenza o sulla cognizione di un mondo infine abitabile.
Il fine, appunto, sostantivo maschile, come scopo o termine cui è diretta un’azione [lat. finis, per calco dal gr. τέλος nel significato di «fine, scopo»], ma anche il/la fine, sostantivo maschile e femminile ma più comunemente usato al femminile, come l’ultima parte, l’ultimo tempo d’una cosa, il punto o il momento in cui questa cessa [lat. finis «limite, cessazione»], secondo la definizione del lemma riportata sul Vocabolario della lingua italiana Treccani.
Micheli, deliberatamente, opta per il maschile e in uno scenario apocalittico dipana un’onirica analisi dell’inconscio collettivo che guida le dinamiche del potere ed innesca soluzioni di non ritorno verso un’ipotetica terza guerra mondiale nucleare tra gli Stati Uniti d’America di un presidente permissivo e impotente seppur «presuntuoso narcisista», Wu, «prigioniero» dei vertici militari che lo escludono dal banco di regia e ne revocano ogni legittima autorità per appagare «il loro sogno [...] di regnare [...] sopra un mondo di rovine», e la Repubblica popolare cinese del presidente Wei.
Sullo sfondo, ad alimentare i venti di un’aperta dichiarazione di guerra, anche «le politiche [cinesi] di manipolazione della valuta», che danneggiano l’economia nazionale statunitense, e «la piaga nefanda degli aborti clandestini e degli infanticidi», legata alla legge limitativa delle nascite e ad «un’alleanza di interessi per il controllo economico e biologico della classe lavoratrice cinese», che offende la coscienza di qualsiasi uomo e non consente ai giovani in Cina di disporre liberamente della propria sessualità e della propria vita.
Eppure i prodromi della catastrofe e delle sue conseguenze si erano già manifestati in Natura con le inclementi calamità di un’alluvione e di un fortunale d’inaudita violenza, con la frana a valle dell’intero costone di una montagna, col flagello di una carestia... come se, appunto, la Natura, con la sua forza devastante, volesse mettere l’Uomo di fronte alle sue responsabilità di un attacco atomico definitivo, i cui esiti ben documentava un’esposizione di cadaveri dilaniati al Museum of Modern Art of New York, «un autentico pugno nello stomaco, un’autentica strizzata alle viscere immonde del militarismo».
È un sogno, alla fine, quello che i quattro superstiti protagonisti saranno chiamati a rivelare e decifrare al presidente Wu, responsabile dell’esplosione di una devastante testata all’idrogeno che aveva «procurato tanto male a bambini innocenti, donne e uomini che coltivavano il sogno di una vita felice». Addirittura i vivi rimpiansero la morte e «le madri videro le carni dei figli aprirsi come fiori di morte»!
Da un lato, il concreto mondo occidentale di Mark e Sophie, due vite perse in momenti «di umana felicità e mutua empatia» e congiunte nell’atto d’amore fisico e spirituale che compone i loro pensieri in un’univoca armonia di percezioni e, in sintonia, genera all’unisono la domanda «Chi sono io?» e, nella «contemplazione degli eventi futuri», la concisa ed efficace sentenza: «io sono colui che sarà». Un messaggio in codice, se vogliamo, che Mark fonda sulla conoscenza del cuore e dell’anima di ogni essere umano per rigenerare una nuova vita sulla terra, per spargere «il seme da cui germoglieranno vite future».
Dall’altro, il mistico mondo orientale di Huang e Kuei Fei, disegnato attraverso le sensazioni d’amore «delle loro anime lungo il sogno, ciclico e infinito, delle morti e delle nascite», e l’osservazione di sé dall’esterno nell’«attraversare la grande acqua, e giungere infine presso ciò che sarà».
Quattro personaggi sottratti alla morte per il nobile fine della rivelazione, ma dannati «all’esperienza del fallimento delle più profonde aspirazioni».
Un romanzo, dunque, che è un distillato di densa prosa poetica dal carattere forte e deciso, ma dal tono malinconico e sentimentale, talora angoscioso, nelle altalenanti dicotomie tra guerra e pace, luce e ombra, amore e odio, felicità e dolore alla base di una trama profonda, discussa con valido spirito critico. L’ampiezza concettuale del narrato si materializza in un linguaggio cólto ed essenziale, com’é nelle corde di Micheli, giocato sulla ricerca ossessiva del lemma, che così impreziosisce le sapienti descrizioni della natura e degli stati d’animo.
Forse, ad una prima lettura superficiale, il lettore potrebbe rischiare di smarrirsi nel caotico flusso di coscienza della narrazione e perdere le coordinate di azione, spazio e tempo del romanzo, ma Micheli conosce bene le asperità e le difficoltà della propria scrittura e quindi lo invita, sternianamente, a collaborare con l’onnisciente io narrante alla conduzione dell’opera («il lettore serberà una pur vaga impressione», «se il lettore avrà in precedenza», «il lettore vorrà accettare di buon grado»), finché non sia giunto, dopo la formulazione di alcune ipotesi necessarie ed immanenti alla realtà in cui lo ha accompagnato, il momento diegetico di suggerirgli l’explicit di cui l’umanità è il vivente argomento: «Allora, forse, desidereresti vivere di nuovo l’alba dell’umanità; sapresti se, oggi, vorrai soltanto sopravvivere alla malattia che, fuori e dentro, ti contagia, oppure guarire».
Fabio Flego

Un romanzo sull’ineluttabilità della catastrofe

recensione di Monica Florio
a Il fine del mondo (Ladolfi, 2016) di Giancarlo Micheli

pubblicata in Literary n.10/2016


“Il fine del mondo” è un romanzo sull’ineluttabilità della catastrofe e, al tempo stesso, una critica all’imperialismo di quell’America che Gordon Poole definì in modo appropriato “nazione guerriera”.
L’attrito tra Oriente e Occidente, la strumentalizzazione dalla parte della controcultura, incarnata dalla body art di Katellenas, del pacifismo e dell’antimilitarismo, l’impotenza di chi governa (il ritratto impietoso del presidente statunitense Wu) rendono estremamente attuale la vicenda.
In un mondo dilaniato dalla carestia e dalla guerra, culminata nell’esplosione di una bomba all’idrogeno nelle Hawaii, l’unica speranza sembra rappresentata dall’amore fra Mark e Sophie, Huang e Kuei Fei.
Sarà proprio Mark nel suo discorso ad annunciare la necessità di una conoscenza “del cuore e dell’anima” che comporta il rifiuto del sapere consolidato, responsabile delle scelte sbagliate a cui sono state ispirate in precedenza le azioni umane.
Come una profezia, il libro ammonisce su come la nostra società sia avviata ormai verso una strada pericolosa e senza sbocchi e si fa apprezzare nonostante il linguaggio poetico talvolta criptico che fa apparire la narrazione più complessa di quanto sia realmente.
La citazione:
“Nel totale silenzio che succedette al consumarsi di un tempo, se mai possibile, ancora più breve, un alito di vento mutò dalla tiepida intensità di una brezza che vellicasse l’aria della riviera, da settentrione a mezzogiorno, fino alla rabbiosa raffica di immane calore nel cui fiato mortifero ogni essere vivente ed ogni oggetto inanimato che si trovassero entro il raggio di cento miglia furono sgretolati. La sabbia di tutte le spiagge da Makaha a Waikiki venne trasformata in vetro e, poche ore dopo, al sorgere del sole, l’alba vi specchiò i suoi colori dal rosa al giacinto quali unici e muti testimoni”.
Monica Florio



venerdì 16 settembre 2016

Apocalisse, messianismo, engagement - Il fine del mondo di Giancarlo Micheli

recensione di Neil Novello a Il fine del mondo (Ladolfi, 2016) di Giancarlo Micheli 
pubblicata in Rivista di Studi Italiani (Anno XXXIV n.2, Agosto 2016)


Il fine del mondo di Giancarlo Micheli (Giuliano Ladolfi Editore, 2016) è un trattato in prosa narrativa di futurologia politica transnazionale o un romanzo oracolare sulla fine dei tempi? È uno scritto teleologico sul destino della civiltà umana o uno spaccato apocalittico del presente storico illuminato dalla Realpolitik? Quel che è certo, è che dinanzi all'ultimo romanzo di Micheli il momento politico, l'attesa messianica, la civiltà dell'uomo, l'apocalisse come disastro, l'amore umano, la guerra globale e la storia edificano un lessico critico, non un vacuo corredo terminologico. […]

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Patrie lettere francesi nell'anno della Comune



Per orientarsi nel panorama vallonato della poesia e della narrativa francesi durante l’anno della Comune di Parigi, sarebbe capzioso stabilire un sistema di riferimento che non si fondi su cognizioni personalmente maturate e su un’attenta analisi filologica, tant’è che la vastità del campo d’indagine, il quale si rivelerebbe ex abrupto esteso ben al di là delle aspettative di chi si prefiggesse un tale scopo, scoraggi ad adottare criteri di selezione che esulino dall’imponderabile e dalle inclinazioni personali. D’altronde, laddove sia sacrosanto mirare ad un enciclopedismo in cui esaudire la completezza e la coerenza della memoria, tendere al fine di una coscienza di specie, i limiti della soggettività opporranno resistenza, in ogni tempo, a lasciarsi penetrare passivamente da un unico codice “imperialista”, vuoi pur declinato in tutti i contesti idiomatici producibili dal funzionamento tecnico del sistema di produzione (capitalistico). Quest’ultimo, per quanta intelligenza artificiale sappia introdurre nelle transazioni finanziarie ed in tutti i processi che emulano pateticamente gli effetti della vita, non è ancora assurto a dogma di fede nel sentimento comune, neppure nella misura che basti ad adempiere i protocolli concepiti dai miopi veggenti che ne arbitrano l’applicazione, sicché risulti viepiù remota l’eventualità che venga presto il giorno in cui il sapere accademico attingerà il referente oggettivo delle proprie logiche speculazioni in modo da tenere in pugno il “potere” sulla sola parola, viepiù peregrina di quella di chi ambisca metterlo alla prova nell’intento di sondarvi la consistenza dello spirito, quale variabile creativa sopra ad un preciso culmine tra i rami dell’evoluzione cosmica. Se qua la stadera, su cui il forte ed il debole sono stati sottoposti alla psicostasia che ebbe per antesignani padri e dottori della Chiesa, Friedrich Nietzsche ed un’intera genealogia di robusti intelletti, se qua essa prende connotazioni sorprendenti, non è che in forza della medesima ironia che, nell’incipit di un mio precedente articolo su Lautréamont[1], ponevo a metà strada sulla via verso la guarigione, cammino impraticabile in un mondo umano il quale si è potuto fino ad oggi conoscere solo attraverso tanto male che, quand’anche non assoluto, preclude la possibilità di tollerarlo sic et simpliciter. Esso deve essere dunque negato, ma per affermare al suo posto una verità, non una menzogna.
Nella narrazione della realtà, qual è organizzata dal fine del profitto capitalistico e dalla divisione del lavoro che distribuisce nozioni e facoltà sul correlativo corpo sociale globalizzato, i luoghi dove le donne e gli uomini potrebbero ancora, in ogni istante, principiare la costruzione di un mondo infine abitabile sono espropriati ben prima che essi abbiano l’opportunità di mettervi piede, dal momento che lo spazio tende, nelle loro percezioni, a costituirsi nella serie intensiva di una totalità astratta, congruente ad un sistema di comportamenti programmabili o comunque prevedibili. Sotto l’egida di questi fondamenti ideologici si attua l’odierno controllo sociale, fatti salvi i casi di esibita brutalità che confermino la regola, tramite un preordinato repertorio di scelte le quali, ai soggetti che le compiono, paiano consapevolmente deliberate. Ogni piazza, strada, officina o residenza è popolata dallo spettro di tale rete significante, colonizzatrice delle residue coscienze, a guisa di infezione endemica o di dottrina dell’imperialismo schizofrenico su cui uno sguardo compassionevole ha orrore a schiudersi. Nulla vieta che, in questo regime, invalga la moda di fingersi, dei luoghi, la profonda stratificazione storica che li impregna del vissuto delle generazioni che precedettero la nostra. Vediamo, pertanto, di cogliere l’occasione che ha tutta l’aria di sfrecciare davanti a ciascuno sulla cresta dell’onda dei suoi stessi riflessi condizionati: proviamo a prefiggerci uno scopo che, foss’anche in forza di un espediente ingannevole, travalichi la semplice produzione materiale, acceda quindi al regno della libertà come, giusto durante gli anni in breccia all’ultimo trentennio del diciannovesimo secolo, Karl Marx lo andò postulando negli appunti preparatori di quello che sarebbe divenuto il III libro del Capitale[2].
Affinché la storia abbia un simulacro di coerenza e completezza abbisogna anche di personaggi; ne individueremo tre, dovendo, per quanto attiene ai luoghi, contenerci invece a due soltanto: uno ove ambientare la scena iniziale ed uno per l’epilogo, giacché non sarebbe onesto pretendere dall’umanità contemporanea che essa si senta toccata altrove che nel proprio destino mortale, contuttoché della principale vittoria, quantunque effimera, nella lotta contro l’oppressione capitalista – la rivoluzione d’Ottobre –, non si sono di certo diffusi nella cultura di massa i fondamenti utopici del cosmismo di Nikolaj Fëdorov [3] o di Kostantin Ciolkovskij [4], i quali pur tuttavia ne composero lo sfondo ‘esoterico’, intesi a donare alla specie l’immortalità, la resurrezione e la virtù di adattarsi alle condizioni di esistenza nell’intero universo.
La notte che precedette il diffondersi della notizia della disfatta di Sedan e la proclamazione della decadenza dell’Impero, Victor Hugo, «qui un alexandrin tenait au rivage»[5] da quasi diciannove anni, rientrò a Parigi alla Gare du Nord. Si trattava di un’infrastruttura di recente edificazione, frutto di un investimento dalla notevole redditività, giacché sui suoi binari era convogliato il crescente traffico verso la Manica e il Belgio. Qualche sera prima, proveniente da Charleville – cittadina ardennese posta sulla linea che procede poi in direzione di Bruxelles, e che Zola[6], nel prendere spunto dalle nefaste vicende di cronaca, avrebbe descritta frivola e gaudente a paragone della vicina ed austera Sedan, dove intanto Louis Napoléon pativa l’onta della prigionia –, era sbarcato alla Gare du Nord il sedicenne Arthur Rimbaud, alla prima delle numerose fughe dai repressivi cronotopi della propria esistenza, le quali si sarebbero concluse solo quando «galloping through Africa, he dreamed/ Of a new self, a son, an engineer,/ His truth acceptable to lying men»[7]. Una volta sceso sulla banchina ferroviaria, egli non aveva riscosso l’attenzione altro che di un solerte controllore il quale, trovatolo sprovvisto di regolare titolo di viaggio, lo affidò alla giustizia. Il ragazzo trascorse dunque alcuni giorni, durante i quali i primi moti di piazza accompagnarono l’instaurazione del Governo di difesa nazionale, in una cella del carcere di Mazas, dove sia il Bonaparte che i suoi successori della sinistra repubblicana solevano spedire anche qualche oppositore politico. Il poeta dette espressione alla propria comprensibile rabbia schizzando un sonetto, Morts de Quatre-vingt-douze[8], risposta satirica ad un articolo del quotidiano bonapartista «Le Pays», che gli era capitato sott’occhio qualche giorno avanti e nel quale il direttore della testata, Bernard-Adolphe de Cassagnac[9], aveva incitato i francesi alla strenua difesa, a rinnovellare il patriottismo e l’audacia della Prima Repubblica. Sebbene avesse optato per arrivarvi nottetempo, così da evitare precoci estetizzazioni che non gli si addicevano, Hugo aveva trovato invece una fitta schiera di ammiratori acclamanti sotto alla pensilina della stazione nel X arrondissement. Nei giorni successivi, una lettura pubblica del suo poema Les Châtiments servì a raccogliere i fondi per la fusione di uno dei nuovi cannoni con cui i cittadini si preoccuparono di munire in extremis i bastioni della cinta muraria.
Intanto, in un appartamento situato al numero civico 7 di rue du Faubourg-Montmartre, Isidore Ducasse, il giovane autore degli epocali Chants de Maldoror[10], le copie della cui esigua tiratura l’editore Lacroix[11] sequestrava nel proprio magazzino nel timore di eventuali scandali, fu tra le prime vittime dell’assedio, che si sarebbe protratto mietendo strage per ben cinque mesi, e morì in solitudine, stroncato dalla tisi.
All’annuncio dell’armistizio, Hugo venne eletto come delegato parigino nell’assemblea incaricata di ratificare i trattati con i prussiani. Accanto a lui, sui banchi installati nel teatro di Bordeaux, sede acconcia di quell’esordiente politica spettacolare, trovò posto, forte anch’egli del mandato conferitogli dal suffragio popolare, persino Giuseppe Garibaldi. Quando l’eroe dei due mondi fu irriso e sbeffeggiato dai deputati della retriva maggioranza rurale che andò tempestivamente a radunarsi attorno al navigato statista del liberalismo monarchico Adolphe Thiers, l’autore dei Misérables, accorso a salvaguardia dell’incolumità del glorioso vegliardo, venne malmenato senza pietà.
Il 18 marzo 1871 esplose la rivolta che portò alla nascita della Comune. I cittadini si opposero ai reparti dell’esercito venuti a requisire le bocche da fuoco nei depositi di Montmartre, di Belleville, dei Buttes Chaumont. Alla Bastille, mentre le Guardie nazionali fraternizzavano con i soldati, un improvviso silenzio calò sulla folla festante allorché, alla testa di un folto corteo funebre proveniente dalla Gare d’Orléans e diretto al cimitero di Père Lachaise, un vecchio canuto incedette dietro ad un feretro: si trattava di Victor Hugo, appena rientrato da Bordeaux con la salma del figlio Charles, fulminato da un colpo apoplettico a soli quarant’anni mentre si recava ad un appuntamento con il genitore per cenare assieme in un ristorante del capoluogo della Gironda.
A Maggio i contingenti racimolati dal governo di Versailles con la compiacenza degli occupanti bonificarono infine la roccaforte della resistenza comunarda. Contemporanei martiri furono immolati, nessuno dei quali vantò la miracolosa prerogativa che l’agiografia attribuisce a Saint Denis, il vescovo che agli albori del cristianesimo, nel III secolo, sarebbe stato in grado di portare lui stesso il capo che gli era stato reciso, dalla cima della collina di Montmartre fino al luogo di sepoltura, dove sarebbe poi sorta la basilica intitolata al suo culto[12]; essi giacquero, piuttosto, sui selciati o sull’erba, condivisero la sorte dei tanti piouspious[13] di cui un altro sonetto rimbaudiano andò a scoprire l’emblematico fuori scena:

C’est un trou de verdure où chante une rivière
Accrochant follement aux herbes des haillons
D’argent ; où le soleil, de la montagne fière,
Luit: c’est un petit val qui mousse de rayons.

Un soldat jeune, bouche ouverte, tête nue,
Et la nuque baignant dans le frais cresson bleu,
Dort; il est étendu dans l’herbe, sous la nue,
Pâle dans son lit vert où la lumière pleut.

Les pieds dans les glaïeuls, il dort. Souriant comme
Sourirait un enfant malade, il fait un somme:
Nature, berce-le chaudement : il a froid.

Les parfums ne font pas frissonner sa narine;
Il dort dans le soleil, la main sur sa poitrine
Tranquille. Il a deux trous rouges au côté droit.[14]

Mentre gli infelici – anche vecchi, donne e bambini – dormivano per sempre, un devoto cattolico della capitale, monsieur Alexandre Legentil, pronunciò un voto solenne dinanzi al proprio confessore, affinché, in espiazione dei peccati della Comune, proprio nel luogo dove il popolo aveva rifiutato di consegnare alle truppe del Thiers i cannoni per la difesa di Parigi venisse eretto un santuario dedicato al Sacro Cuore di Gesù. In mezzo secolo, grazie alle elemosine di circa dieci milioni di fedeli, venne messa assieme la cifra sufficiente e, nel corso degli anni Venti del ventesimo secolo, fu ultimata la basilica a croce greca, in pietra bianca estratta dalle cave di Château-Langdon e di Souppes-sur-Loing.
Un popolo che saprà ascoltare ed amare i propri poeti vivrà le vittorie a venire, grazie alle quali l’arte e la vita ricomporranno il simbolo di un’umanità santificata, non nei marmorei ossari della penitenza, bensì nella gioia di generazioni future, strappata all’al di là e resa immanente ricchezza dei cuori e delle menti. uest’ultimo, per Q



[1] «Scrivere è sempre guarire. Il vero scrittore sa ogni volta da quale male e, qualora ne assuma a proprio arbitrio la responsabilità, sa anche come tenerlo celato al lettore; si tratta di ciò che il magnanimo chiama ironia, e colui che lo diventa serietà.» Giancarlo Micheli, Lautréamont toujours: temi etici e stilistici nelle Poésies di Isidore Ducasse, in «Cultura e Prospettive», n.26, Gennaio-Marzo 2015.

[2] «Il regno della libertà inizia solo laddove termina il lavoro comandato dalla necessità e dalla finalità estrinseca; per questo si trova al di fuori della sfera della produzione materiale propriamente detta.» Karl Marx, Il Capitale, Libro III. Il processo complessivo della produzione capitalistica, VII sezione, capitolo 48, La formula trinitaria, III, Roma, Newton Compton, 1996, p.1468.
[3] Nikolaj Fëdorovič Fëdorov (1829-1903). Filosofo russo, il cui pensiero esercitò fascino ed ascendete su Dostoevskij, Tolstoj, Majakovskij e su molti esponenti della letteratura russa prima e dopo la Rivoluzione, oltre che, più in generale, nella cultura nazionale.
[4] Konstantin Ėduardovič Ciolkovskij (1857-1935). Autodidatta, insegnante di fisica nei licei dell’Impero zarista e poi dell’Unione sovietica; precursore dell’astronautica.
[5] Prosper-Olivier Lissagaray, Histoire de la Commune de 1871, Paris, Librairie E. Dentu, 1896, p.18.
[6] «Sedan, très puritain, a toujours jugé avec sévérité Charleville, cité de rires et de fêtes.» Émile Zola, La Débâcle, Paris, Charpentier et Fasquelle, 1892, p. 181. Il romanzo sarebbe stato il diciannovesimo e penultimo della saga naturalistica dei Rougon-Maquart, il cui primo volume, La Fortune des Rougon, andò alle stampe per la Librairie internationale Lacroix et Verbœckhoven proprio nell’ottobre del 1871.
[7] Wystan Hugh Auden, Rimbaud in Another Time, London, Faber and Faber, 1940. «Galoppando per l’Africa, egli sognò/ Di un nuovo sé, un figlio, un ingegnere,/ La sua verità accettabile per i bugiardi.» (TdA).
[8] «Vous dont le sang lavait toute grandeur salie,/ Morts de Valmy, Morts de Fleurus, Morts d’Italie,/ Ô Million de Christs aux yeux sombres et doux;// Nous vous laissions dormir avec la République,/ Nous, courbés sous les rois comme sous une trique:/ – Messieurs de Cassagnac nous reparlent de vous!» Arthur Rimbaud, Poésies complètes, Paris, Léon Vanier librairie-éditeur, 1895. «Voi il cui sangue lavava ogni sporca grandezza,/ Morti di Valmy, Morti di Fleurus, Morti d’Italia,/ O milioni di Cristi dagli occhi dolci e cupi;// Che noi vi lasciamo dormire con la Repubblica,/ Noi, curvi sotto ai re come sotto ad un randello:/ – I signori de Cassagnac ci rammentano di voi!» (TdA).
[9] Una sorella del padre di Prosper-Olivier Lissagary, marxista nonché autore della citata storia della Comune e finanche futuro marito della figlia minore di Marx, aveva sposato il banchiere e pubblicista di stretta osservanza bonapartista Bernard-Adolphe de Cassagnac. Non è che un esempio dei molti che dimostrerebbero quanto, nella società francese di allora, i principî di patria, famiglia e religione fossero compromessi sin nei legami di sangue e nei più intimi affetti.
[10] Comte de Lautréamont, Les Chants de Maldoror, Bruxelles, Albert Lacroix, 1869.
[11] Albert Lacroix (1834-1903), editore belga, fondatore della Librairie internationale A. Lacroix, Verbœckhoven et Cie., il cui primo successo editoriale consistette nella pubblicazione dei Misérables di Victor Hugo. In seguito, la casa editrice si specializzò nella pubblicazione di autori francesi in esilio, tra i quali anche Pierre-Joseph Proudhon, cosa che costò alla società il coinvolgimento in un procedimento giudiziario. Nel 1869, Lacroix accettò di mandare alle stampe, a spese dell’autore, Les Chants de Maldoror; nonostante l’accortezza di evitare la distribuzione del titolo nelle librerie e di scongiurare in tal modo nuove possibili noie legali, la filiale francese della ditta fallì nel 1872, a causa di maldestri investimenti immobiliari.
[12] Jacopo da Varagine (tr. Théodor de Wyzewa), La Legende dorée, Paris, Librairies-éditeurs Perrin et Cie., 1910, p. 580.
[13] Reclute, soldatini.
[14] Arthur Rimbaud, Le dormeur du val, in Anthologie des poètes français, tome IV, Paris, Lemerre, 1888. «È un buco di vegetazione dove canta un fiume/ Appendendo follemente all’erba degli stracci/ D’argento; dove il sole, dalla fiera montagna,/ Riluce: è una piccola valle che schiuma di raggi.// Un giovane soldato, bocca aperta, capo nudo,/ E la nuca che si bagna nel fresco crescione azzurro,/ Dorme; è steso sull’erba, sotto la nuvola,/ Pallido nel suo letto verde dove piove la luce.// I piedi tra i gladioli, dorme. Sorridendo come/ Sorriderebbe un bimbo malato, fa un sonno:/ Natura, cullalo caldamente: ha freddo.// I profumi non fanno fremere le sue narici;/ Dorme nel sole, la mano sul petto/ Tranquillo. Ha due buchi rossi sul fianco destro.» (TdA).


Il fine del mondo (Ladolfi, 2016)

recensione a Il fine del mondo (Ladolfi, Borgomanero 2016) di Giancarlo Micheli
a cura di Luciano Nanni
pubblicata in Literary n.3/2016

Narrativa. Un romanzo che fin dal titolo pone una questione a dir poco filosofica. Ma il testo si distingue per una duplice linea: la scrittura quale elemento che dispiega le sue potenzialità con un lessico particolarmente vasto, correlando spesso a ogni suo tratto espressivo la funzione del linguaggio figurato che quindi esce da una descrizione solo formale, ma nel contempo si assiste a immagini indefinite, dove luoghi e personaggi, riferiti a una ‘mitologia’ storica guidano progressivamente alla conclusione.
Un altro modo per decifrare l’opera è il profilo collettivo in cui l’individuo si connota secondo caratteri peculiari, mai sottratti dall’insieme; è quasi una fuga verso paesaggi irreali, un’utopica unità che va sintetizzata: “L’anima del mondo e degli esseri è una.” Allora lo spessore concettuale emerge nitido, sfiorando talvolta il paradosso, già implicito nella realtà in cui viviamo: “soltanto se hai il coraggio di sbagliare consapevolmente ti sarà dato di trovare la verità”; è proprio quell’avverbio a concepire una conoscenza diversa da come si era finora intesa.
Capire il fine forse non ci è concesso; per alcuni l’esistenza è una palude piatta e priva di costrutto, per altri il significato va inteso avvicinandolo all’io: comunque sia un libro come questo ci mette in guardia da una società che rende precaria l’eventuale armonia del mondo.
Luciano Nanni


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G.Micheli, Elegia provinciale

recensione di Daniele Luti a Elegia provinciale (Baroni, 2007; Fratini, 2013) di Giancarlo Micheli

pubblicata in Alleo discovering contemporary cultures (Giugno 2008)


Tra gennaio e l’aprile di quest’anno ho dovuto leggere quasi cento romanzi pubblicati tra il gennaio 2006 e il dicembre 2007, per un premio letterario. Non so se definire l’esperienza sconvolgente o desolante. L’unica luce pierofrancescana (per intenderci quella che nasce da ogni particella di colore e sembra respirata da tutto il dipinto) me l’ha regalata Elegia provinciale, la bellissima opera di Giancarlo Micheli, uno scrittore, fino ad oggi, per me sconosciuto.
I personaggi, tutti raccontati con una attenzione dialettica tra il romanzo di tradizione e quello innovativo introdotto dai rondisti ed ex vociani nel primo Novecento, sono Giacomo Puccini, sua moglie Elvira, Doria Manfredi, una ragazza al servizio nella villa del Maestro, Torre del Lago (che è sì il luogo della scena, ma è carezzata e sentita come un corpo vivo) la sensuale Fosca, figlia di primo letto di Elvira, e Mario Crespi presentato come uno spiritello viaggiatore quasi sempre sui treni o in prossimità delle stazioni. La fluida geometria della narrazione ha come centro la disperazione e, poi, il suicidio di Doria, accusata da un’Elvira, devastata dalla gelosia e ridotta a pura elettricità istintuale, di essere l’amante di suo marito e, in seguito, gradualmente emarginata dal paese e abbandonata persino dalla parrocchia nella persona di un prete impegnato a camminare dentro se stesso e lungo le strade fangose del luogo, perché perseguitato da due bravi collocati nella sua coscienza morale.
La cosa, però, davvero innovativa è la tecnica utilizzata da Micheli per raccontare i fatti. Siamo di fronte a un fenomeno di anaglittica lessicale, a scelte di finissimo intaglio espressivo: l’autore, prima, descrive la scena, dando l’impressione al lettore che le vicende non sarebbero state plausibili se non inserite in quel preciso contesto, quindi, introduce la sua musica, aprendosi al vento travolgente della poesia e della creatività totale. Tutta la storia è raccontata attraverso una scrittura polifonica che non ha niente a che vedere né con la bigiotteria linguaiola, né con l’esibizione acrobatica propria di quei personaggi che fanno venire in mente lo sprezzante giudizio di Cocteau sul narcisismo letterario di Flaubert “sempre con il fucile in spalla, ma incapace di colpire il bersaglio”. Micheli si è reso conto che il “romanzo è una malattia del linguaggio”, che la capacità di raccontare si è pietrificata, che la lingua deve tornare a produrre coinvolgimento e sogno. Da qui il mosaico fatto di descrizioni rapite dove ogni situazione sembra essere partorita da quella che la precede, dove ogni lemma è l’eco, l’ombra dell’idea sulla cosa. Da qui i passaggi da un codice all’altro e l’inserimento nel pentagramma dell’italiano colto, di gioielli che possono implicare espressioni legate a superlingue classiche (il latino e il greco) o contemporanee (l’inglese, il tedesco) e al dialetto versiliese.

Daniele Luti