Già in un romanzo precedente, Elegia provinciale, in cui si trattava della morte di Doria Manfredi, presunta amante dell’indimenticabile Maestro Puccini, fatto di cronaca assai clamoroso nell’epoca e nell’ambiente dove avvenne, consono a mostrarsi quasi come un gossip ante litteram, Micheli si concentrava invece ad evocare il paesaggio agricolo che andava progressivamente diventando industriale, le consuetudini, i numerosi vizi e le rare virtù di una nazione che si preparava all’ecatombe della prima guerra mondiale. Se può ritenersi facile formulare vaticinî retrospettivi sulla base di accadimenti storici assodati, come l’autore faceva allora, egli con Il fine del mondo conferma, adesso, una vena profetica.
Volendo istituire un parallelo con un intellettuale di fama quale Umberto Eco, laddove questi esercitava la virtuosistica capacità, avendo ben studiato Tommaso d’Aquino, di costruire delle tipologie di eventi cui dare un significato in rapporto al presente, Micheli dispiega nella prosa un acume critico, talvolta visionario, che potrebbe essere considerato neo-marxiano. Se lo psicoanalista legge un sintomo per dargli un senso, in maniera analoga Micheli accompagna il lettore lungo belle descrizioni naturali, amorose, ecologiche, relative a contesti delle più varie situazioni sociali e geografiche, come in quest’ultimo romanzo dove si spazia dalla Cina alla valle del Niger e fin nel Vecchio e nel Nuovo continente, finché, sotto la nebbiolina di uno stile complesso e mentre si indagano i temi fondamentali della vita – cos’è l’amore, cosa il denaro, cosa la gioia o il dolore –, appare in filigrana il pericolo della fine del mondo, proprio alla stregua di un mostruoso segno rivelatore degli impulsi autodistruttivi sepolti nell’inconscio collettivo della specie. In un’epoca di scrittura superficiale, talvolta magari anche brillante, l’autore di Indie occidentali e della Grazia sufficiente ne esibisce, in esplicita controtendenza, una che è tutta densità, stratificata in piani polisemici che sempre stimolano la perspicacia interpretativa del lettore. In un passo di uno dei capitoli iniziali, che mi sembra esplicativo per illustrare quali siano gli strumenti espressivi caratteristici della lingua narrativa di Micheli, è dato imbattersi in una tipica epifania joyciana, in cui il racconto si illumina di senso: «La corrente trascinava tronchi d’albero, suppellettili e veicoli con parimenti equanime inerzia. Sul tetto di un’automobile un prete cattolico, la veste talare a tal segno intrisa d’acqua da piegargli le ginocchia sotto al proprio peso, resisteva tuttavia in postura eretta e volgeva al cielo ossecrazioni che doveva aver tratte dal Libro di Daniele o dall’Apocalisse di Giovanni». Troviamo qua, oltre ad un’ironia che ricorre spesso anche altrove ed ogni volta attentamente dosata, la forza travolgente della natura, la quale prostra il malcapitato sacerdote nel medesimo gesto che egli ha appreso ad eseguire in segno di lode o di supplica dinanzi all’oggetto della propria fede. Non dunque la forza del destino, sempre connotata da un’esuberanza drammatica, bensì quella della natura, che ama nascondere il grande dentro al piccolo, il limite superiore dell’energia nei minuscoli orbitali dell’atomo. In ciò consiste anche la forza della scrittura di Micheli, poiché essa non esplicita i contenuti ma si limita a renderli accessibili all’illuminazione di chi legge. Il fine del mondo risulta, pertanto, un’opera interamente inscritta nel tempo presente, così da lasciare intravedere, nell’aspetto intimamente concreto dei vissuti soggettivi, la terribile minaccia apocalittica incombente sul pianeta, minaccia che lo stile stesso evoca, attraverso la congruente metafora del diluvio: frasi dilatate con impetuosità, che offrono una rappresentazione indiretta dei flagelli attestati in molteplici tradizioni. Accanto a ciò – cosa che ci ha suggerito una lettura del testo in termini, come detto, neo-marxiani – compaiono, in antitesi dialettica, le ragioni per cui valga la pena di vivere.
Tomaso Kemeny