un articolo di Giancarlo Micheli
pubblicato su Il Ponte – rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei
(Anno LXXVII, n.3, maggio-giugno 2021)
Allorché
il capitalismo francese magnificava sé stesso nei panni della Terza Repubblica,
durante un’Esposizione Universale agli Champs de Mars che vide erigersi, al di
sopra delle anse della Senna, una ferrea cuspide tale da umiliare la pristina
gloria, liberale ed imperiale, cui Napoléon le petit, ventidue anni avanti,
nell’imminenza di quella che un romanzo di Zola avrebbe tramandata come la Débâcle[1],
s’era prematuramente acconciato, proprio
allora, l’Europa intera venne investita da una pandemia influenzale, detta
‘russa’. Lo sviluppo ancora incompleto del sistema produttivo e commerciale
consentì nondimeno, per la prima volta negli annali della nosologia, che
l’agente virale facesse registrare una diffusione su scala planetaria, nelle
Americhe, in Africa e, ovviamente, in Asia, dove il focolaio d’origine pare
venisse individuato nell’emirato di Bukhara, attuale Uzbekistan, allora
protettorato dell’Impero zarista. Luminari della siero-archeologia, oggi,
ipotizzano il ceppo genetico del morbo fosse progenitore di quello che, nel
corso della successiva mattanza taylorista, avrebbe moltiplicato per un fattore
pari a sei, stando ad alcuni epidemiologi, il numero delle vittime mietute sui
teatri di combattimento. L’immunità acquisita in conseguenza all’imperversare
di quella prima ondata di contagi, spiegherebbe dunque la virulenza
relativamente inferiore con cui la cosiddetta febbre spagnola colpì la
popolazione che, giovandosi pure di questo inatteso espediente, nelle
condizioni storicamente determinate del ritorno dal fronte, portò a compimento
la Rivoluzione d’Ottobre. Estinto in tal modo, a scanso d’equivoci, il debito
nei confronti dell’ideologia in vigore, che impone ogni giudizio sia vagliato
attraverso i prismi dell’urgenza sanitaria, una volta versato persino l’obolo
d’un accenno al fatto che quel nocivo germe patogeno di oltre un secolo fa
sarebbe uno dei sette Coronavirus conosciuti, in compagine equinumerabile ai
sigilli dell’Apocalisse giovannea, limitiamoci a constatare come in quel
medesimo anno 1889, protetto dal romitaggio di Jàsnaja Poljana, Lev Nikolaevič
Tolstoj abbozzò un racconto al quale, dopo averlo riposto in un cassetto per
vent’anni, rimise mano solo in quello immediatamente precedente alla dipartita
e che sarebbe andato postumo alle stampe nel successivo, con il titolo di D’javol[2],
Il Diavolo.
Evgenij
Irtenev è un piccolo proprietario terriero d’un imprecisato distretto
imperiale, nel tempo in cui ebbe tutte le carte in regola per reclamare una
carica eminente nello zemstvo, l’istituto amministrativo eletto localmente su
base censitaria in seguito alla riforma di Alessandro II, il sovrano che
sarebbe poi caduto ad opera d’un agguato terroristico di Narodnaja Volja. Il
racconto breve, in ottemperanza a quanto, nella prospettiva formalistica
dell’umanesimo democratico, sarebbe parso a Thomas Mann il tratto distintivo dello
specifico genere novellistico, si concentra su un unico elemento, l’ingenuo
disagio della civiltà di cui il protagonista pagherà, all’epilogo, lo scotto,
nella prima variante del finale optando per il suicidio, perseguitato dal senso
di colpa nei confronti della giovane sposa, nella seconda risolvendosi invece a
sciogliere il dilemma tramite l’assassinio della procace contadina la quale
aveva diabolicamente risvegliato in lui il tragico istinto della concupiscenza.
Quello che, esposto in estrema sintesi, potrebbe risultare un tema anacronistico,
conserva al contrario intatto, ancora oggi, l’intrinseco valore artistico,
poiché quel richiamo, che attrae irresistibilmente Evgenij e, senza che egli
sappia spiegare come, lo sospinge infine all’umano fallimento, tale ineffabile
seduzione esprime, mercé il vissuto del personaggio e fin dentro al cuore della
morbosa soggettività di lui, l’intimo intreccio delle forze sociali operanti
nella Storia, dà accesso alla comprensione del lento ma inesorabile estinguersi
d’una classe cui, superate ormai le colonne d’Ercole delle fasi imperialistiche
sulle quali già Lenin fu in grado di far chiarezza, le forme del vigente
solipsismo delle coscienze concedono un’esistenza succedanea, non scevra di
analogie con quella delle anime nell’Ade classico, nonché una sussidiaria
eternità, in breccia alle cronache più viete e quotidiane. Questa particolare fatica
tolstojana, tra l’altro, ben si attaglia ad esemplare un caso di transizione
tra i due generi, rilevato dal grande storico marxista della letteratura György
Lukács, dal momento che, nell’ottica del materialismo dialettico, «a fondamento
d’una elaborazione formale specifica, di un genere letterario, deve trovarsi
una specifica verità della vita»[3] e, mentre il romanzo mira
ad offrirne un quadro generale attraverso la “totalità degli oggetti” culturali
e materiali, propri di un certo periodo storico, la novella rimane esente da una
simile pretesa.
Com’è
noto, secondo Lukács, il tradimento degli ideali rivoluzionari d’opposizione al
dissolvente sistema feudale, che la classe borghese consumò nella prima metà
dell’Ottocento, fino allo spartiacque del 1848, in concomitanza all’emergere
minaccioso del movimento internazionalista dei lavoratori, si riflesse nella
morfologia delle opere letterarie, nella fattispecie nel romanzo storico, in
modo che «i personaggi vengono isolati dalle vere forze motrici della loro
epoca, e le loro azioni, divenute perciò incomprensibili, sono elevate, proprio
in virtù di questa loro incomprensibilità, a una magnificenza decorativa»[4]. Così come l’astrattezza
morale e la fede nella ragione che potevano desumersi dall’opera d’un Fielding
o d’uno Smollett, una volta compiutasi la rottura rivoluzionaria di fine
Settecento, ebbero evoluzione nel senso di un approfondirsi del sentimento
storico, in conseguenza del quale Walter Scott espresse, nella propria, la
consapevolezza che «la reale comprensione dei problemi della società moderna
può nascere solo dalla comprensione della storia precedente, della genesi
storica di questa società»[5], per converso, dopo il
riflusso di classe in sostegno all’imperialismo del sistema liberale, la
cognizione dei reali fenomeni storici tornò ad inaridirsi, cosicché nei
migliori esponenti della patria umanistica il tema storico si affermò quale
rifugio nei riguardi d’un presente disprezzabile ed indegno di compianto;
presto, una visione impressionista e soggettivista si concentrò sulle atrocità
e le brutalità dei protagonisti, le quali divennero «i succedanei della
grandezza storica reale andata perduta»[6].
Il
filosofo e storico della letteratura il quale, già quindici anni avanti, aveva
raccolto i frutti teorici del lavoro politico durante la breve esperienza
sovietica sulle rive del Danubio (1919), componendo quel testo miliare del
pensiero marxista novecentesco che fu Storia e coscienza di classe, dove
pose nei termini dialettici il rapporto tra l’iniziativa soggettiva delle masse
e delle loro avanguardie politiche rispetto al processo oggettivo delle forze
socio-economiche, sarebbe venuto poi ad indagare il processo generale della
decadenza borghese e ad illuminarlo, al punto morto inferiore della Endlösung,
nel mirabile La distruzione della ragione, in cui tracciò le direttrici
ideologiche mediante le quali la cultura guglielmina attinse la putrefazione totalitaria
del nazismo; vicissitudini imponderabili ne distanziarono la pubblicazione in
lingua tedesca da quella del trattato sul romanzo storico di tre anni appena,
benché la stesura del tetragono tomo filosofico avesse richiesto un tempo
almeno sei volte superiore; entrambe avvennero sotto l’etichetta della Aufbau
Verlag, la quale nel Secondo dopoguerra diventò rapidamente la più prestigiosa
casa editrice della Repubblica democratica tedesca. È curioso constatare il
fatto che il quarantennio di dominio stalinista e poststalinista sui Länder
orientali venga canonizzato, nelle odierne forme della memoria, quale eponimo
di regime fondato sullo spionaggio e la delazione sociale, in modo che venga
proiettata, a ben porre attenzione, la prospettiva ideologica dell’attuale
sistema di controllo in corso di globalizzazione su quegli obsoleti
esperimenti, al confronto del tutto pionieristici. Qualora tornassimo però alla
Distruzione della ragione, rinverremmo di ciò le plausibili cause, là dove,
ad esempio, il budapestiano vi esamina le dottrine di Kierkegaard e di
Heidegger:
Anche
per Kierkegaard le categorie della perduta vita dell’individualità isolata (del
filisteo), come l’angoscia, la pena, il sentimento di colpa, la risolutezza e
via dicendo, sono le categorie «esistenziali» della realtà «vera». Ma mentre
Kierkegaard, grazie ai residui di una filosofia teologica della storia, che
stabilisce in lui, per Dio, una storia reale, è in condizione di negare
radicalmente la storicità per l’uomo singolo che cerca la salvezza dell’anima,
Heidegger è costretto a mascherare questa esistenza priva di storicità come la
«vera» storia, per avere un contraltare alla negazione della storia reale come
storia «impropria». Anche in questa diversità il contenuto storico-sociale è l’elemento
decisivo. Kierkegaard, che ripudiava dal punto di vista filosofico il progresso
borghese-democratico, poteva ancora vedere dinanzi a sé una via per ritornare
al mondo feudale della religione; ancorché, come abbiamo mostrato, in lui
questa concezione mettesse già capo a una dissoluzione borghese decadente.
Heidegger, che opera al tempo della crisi del capitalismo monopolistico e nella
vicinanza di uno Stato socialista sempre più forte e allettante, poteva
sfuggire alle conseguenze del periodo della crisi solo degradando la storia
reale a storia inautentica e riconoscendo come storia autentica solo un
processo psicologico che attraverso la cura, la disperazione etc. distoglie gli
uomini dall’agire sociale e dalle decisioni sociali, e li fissa al tempo stesso
in una disperata condizione interiore di disorientamento e di confusione, tale
da favorire al massimo la conversione all’attivismo hitleriano[7].
Se,
nel corso del contingente delirio di protocolli medico-scientifici e correlative
applicazioni legislative, mentre la libertà si riproduce, entro le bolle
mediatiche, in misura proporzionale a quella che serve ai monopoli farmaceutici
per mettere profitti a preventivo, se l’elemento senza qualità della forza
lavoro – e con che costernato stupore, sempre più spesso, si è costretti a
constatare quanto fittizia, talora ingannevole, sia la qualità che il vigente
sistema di produzione conferisce alle proprie vive componenti! – può reputare
le eventuali alternative imperialiste ancor meno «allettanti» di quanto, in
effetti, il comunismo in un solo Paese apparisse ai suoi genitori o nonni,
cionondimeno l’angoscia ed il sentimento d’impotenza, misurati dal suo recente
vissuto pressoché ovunque, fanno sì che il diminuito individuo affliggerebbe sé
stesso d’una pena soprannumeraria, laddove volesse negare ogni ragione agli
argomenti esposti da Lukács alla metà del secolo scorso. Quando questi vergava
i primi appunti del magnum opus, d’altronde, un reduce delle lotte per la
creazione delle Repubbliche consiliari nella Germania dopo Compiègne ed oltre Weimar,
un tale Karl Korsch, oggi ai più ignoto, era intanto venuto ad implementare le
tesi di Storia e coscienza di classe: incaricato dai curatori della
collana “Modern Sociologists” della londinese Chapman&Hall, che avrebbe
incluso testi su Pareto, Vleben, Comte ed altri, di occuparsi della redazione
di un volume dedicato a Marx, egli vi ribadì il concetto della irriducibilità
epistemologica del materialismo dialettico alla sociologia borghese, già
centrale nell’opera giovanile Marxismus und Philosophie, quasi coeva
della lukacsiana. Nel testo, al quale apportò stratificate rettifiche durante
l’esilio cui l’ascesa del Partito nazionalsocialista lo costrinse, in Francia,
Danimarca e negli Stati Uniti, Korsch attinse passaggi d’una certa limpidezza,
come quello in cui afferma:
Invece
di derivare le esigenze del socialismo e del comunismo idealisticamente e
utopisticamente dalle leggi dell’economia borghese, Marx e Engels hanno
espresso il riconoscimento materialistico che «secondo le leggi dell’economia
borghese, la maggior parte del prodotto non appartiene ai lavoratori che
l’hanno creato».
Non
si deve perciò, per rimuovere questa condizione, interpretare l’economia
diversamente, ma produrre, per mezzo di un mutamento reale della società, una
condizione in cui queste leggi dell’economia borghese cessino di valere e così
anche la scienza borghese dell’economia divenga priva di oggetto[8].
Alla
luce di ciò, il presente, caratterizzato dal trionfo di quello che, illo
tempore, sarebbe stato possibile designare come menscevismo, così da evocare
agevolmente nelle coscienze il voto dei crediti di guerra da parte della SPD
del Kautsky, la Burgfrieden, la civil truce o l’union sacrée, assicurate dalle
compagini parlamentari socialiste ai rispettivi imperialismi, addirittura la
repressione armata contro i consigli dei lavoratori, eseguita dall’esercito
tedesco per ordine del primo cancelliere di Weimar, il socialdemocratico
Friedrich Ebert, senza alcun timore di lasciare, in tal modo, gli enunciatari a
labbra spalancate, esterrefatti come dinanzi all’apparizione d’un catoblepa,
d’una chimera o di chissà che diavolo di fantastico essere immaginario, trionfo
irrecusabile ed in odore di perennità, sia pur condizionato al precario
connubio d’una credulità dogmatica e d’una corrispondente ipocrisia, e solo a
patto di confondersi mimeticamente con l’ombra di sé stesso, ossia con
l’irrazionalismo narrativo dei monopoli che allestiscono, di giorno in giorno,
la società dello spettacolo e, sempre più saldamente, detengono l’ordine
nell’organizzazione delle apparenze, tale presente che, come anticipato in
apertura, ha quasi innumerabili punti di contatto con un averno virgiliano su
cui vengano cosparse, dietro compensi d’ora in ora più miserabili, opportune
dosi d’oblio quotidiano ed incessanti compulsioni, esige, più d’ogni altro che
l’abbia preceduto, il racconto capace di immunizzare la specie tramite la
consapevolezza che «la reale comprensione dei problemi della società moderna
può nascere solo dalla comprensione della storia precedente, della genesi
storica di questa società», dove si mostri che proprio quell’esistenza che
l’ideologia borghese vorrebbe eternare in una psicologica mitizzazione,
passibile d’un tormento virtualmente senza fine, altro non sia che il residuo
di coscienza, la punta dell’iceberg inconscio delle forze sociali storicamente
determinate. A tale scopo, non è affatto propedeutica la trasgressione della
norma che il budapestiano rilevò, quale principio d’invarianza inerente allo
specifico genere letterario del romanzo storico, vale a dire che, laddove «il
rapporto tra individuo e popolo nell’età degli eroi esigono che nell’epos la
figura più importante abbia una posizione centrale, nel romanzo storico invece
viene ad essere di necessità soltanto una figura di contorno»[9]; sarà altresì propizio
imbattersi in protagonisti nei quali si sommi, in progressione geometrica, la
qualità umana degli oppressi, i quali, nel corso di cupi e brutali millenni,
dovettero dar prova di compassione ed altruismo senza lasciare una discendenza
in cui dar seguito di consanguineità alle proprie giovevoli propensioni, né
ebbero occasione di assurgere all’esemplare visibilità che basti a suscitare
emulazione, cosicché alle anime superstiti nel triste limbo della contemporaneità
sia reso un corpo, generato dal seme fecondo dell’umanità non ancora divenuta.
Eppure,
non è affatto da escludere che tale racconto esista già adesso, mentre ne
scriviamo, cosicché non sia tanto urgente riconfigurare le basi della teoria
letteraria, quanto piuttosto procurare un mutamento reale della produzione
editoriale, tale da privare del proprio oggetto e della relativa forza di
persuasione l’ideologia in vigore, tale da sostituire alle tartaree prospettive
da essa imposte l’apertura verso la vivente evoluzione storica della specie.
Giancarlo Micheli
[1] Émile Zola, La
Débâcle, Charpentier et Fasquelle, Paris, 1892. Penultimo romanzo della
serie dei Rougon Maquart, dov’è narrata la vicenda di due compagni d’armi nella
disfatta di Sedan, poi avversari sulle barricate della Comune.
[2] Lev Nikolàevič Tolstoj, D’javol,
in Posmertnye chudožestvennye proizvedenija L'va Nikolaeviča Tolstogo (Opere
artistiche postume di Lev Nikolàevič Tolstòj, a cura di V.G. Čertkov),
Mosca, ed. A.L. Tolstaja, tomo I, 1911. Questa prima edizione era priva della
variante di finale, la cui esistenza era ignota al curatore. In Polnoe
sobranie sočinenii v 90 tomach (Opere complete in 90 volumi),
Vol. 37, Mosca, 1940, apparve la variante di finale.
[3] György Lukács, Il
romanzo storico, Einaudi, Torino, 1970, p.329. L’edizione originale fu
quella russa, Istoričeskij roman, «Literaturnij Kritik», Mosca,
1937-1938. La tedesca, con sostanziali revisioni, fu Der historische Roman,
Aufbau Verlag, Berlin, 1957.
[4] Ivi, p.238.
[5] Ivi, p.314.
[6] Ivi, p.259.
[7] György Lukács, La
distruzione della ragione, Mimesis, Milano, 2011, p.525. Edizione
originale: György Lukács, Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau Verlag,
Berlin, 1954.
[8] Karl Korsch, Karl Marx,
Laterza, Bari, 1969, p.78-9. La prima pubblicazione avvenne nel Regno Unito,
come Karl Korsch, Karl Marx, Chapman & Hall London, 1938. L’edizione
tedesca, Karl Marx, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt am Main, 1967,
a cura di Götz Langkau, recuperò i manoscritti su cui l’autore aveva lavorato
in diverse fasi della vita.
[9] György Lukács, Il
romanzo storico, Einaudi, Torino, 1970, p.47.