nota stilistica di Neil Novello a Elegia provinciale (Fratini, Firenze
2013) di Giancarlo Micheli
Consegnando al settimanale «Tempo» l’ultima recensione letteraria su Todo modo di Leonardo Sciascia,
contributo finale di un’estesissima serie di scritti critici iniziata nel 1972
e conclusa nel 1975, e che finalmente costituirà il postumo Descrizioni di descrizioni, pubblicato
quattro anni più tardi nel 1979, Pier Paolo Pasolini fornisce un chiarimento
(sul titolo del volume che raccoglierà le recensioni) introducendo a una
materia, il campo della critica letteraria e la definizione della sua identità:
Ho fatto delle «descrizioni». Ecco tutto quello che so della mia critica
in quanto critica. E «descrizioni» di che cosa? Di altre «descrizioni», che
altro i libri non sono. L’antropologia l’insegna: c’è il drómenon, il fatto, la cosa occorsa, e il legómenon, la sua descrizione parlata.
Tra drómenon, cosa o fatto in
sé, e legómenon, descrizione in
parole della cosa o del fatto, Pasolini ripropone un cardine dell’idea critica,
la distinzione tra il “cosa” e il “come” della narrazione, in altre parole
distingue la sostanza dalla forma, il contenuto dallo stile. Non il “cosa” del
racconto, al contrario il “come” del linguaggio proprio al récit istituisce l’ideale luogo dell’analisi pasoliniana. Con due
categorie di Seymour Chatman, si potrebbe proporre la seguente descrizione: non il “cosa” o la storia ma il “come” o il discorso.
Chi abbia letto Indie occidentali,
secondo romanzo di Giancarlo Micheli (Campanotto, 2008), e più ancora La grazia sufficiente (Campanotto,
2010), terza prova narrativa dopo l’esordio di Elegia provinciale (Baroni, 2007, ora Fratini 2013), potrebbe
essere indotto in errore se pensasse che la koinè
del narratore nell’Elegia, emanazione
lavica in paroleria stupendamente
culta, ancorché esito di una conquista di lungo corso, è una congenita
presenza, uno stato di cose coevo all’esordio letterario. In realtà, essa
figura l’espressione di uno stile–Micheli che viene da più lontano, addirittura
forse dalle prove narrative antecedenti l’Elegia,
a segnalare l’abnormità già cristallizzata di un’occorrenza stilcritica, quella
della lingua alta che si fa stile e,
a riflesso, dello stile alto in
Micheli connotato esemplarmente nel Kunstwollen
della stupefacente capacità d’esecuzione linguistica.
Di ritorno a casa, dopo un turno lavorativo nell’abitazione di Giacomo
Puccini, Doria è frastornata dall’incontro con Elvira (moglie di secondo letto
del maestro) e Fosca (figlia di Elvira e figliastra di Giacomo), a proposito di
una casuale e grave scoperta, il tradimento di Fosca ai danni del marito, Totò
Leonardi, tradimento consumato con il poeta e collaboratore del maestro, Guelfo
(a Torre del Lago, teatro delle vicende romanzesche, per la stesura della
pucciniana Fanciulla del West). Non
ecfrastica o esornativa, anzi da annoverare quale operazione del discorso
libero indiretto o dell’oratio obliqua,
la voce del narratore si rivela occorrenza finanche plastica nella sua indubbia
capacità di far rivivere il personaggio:
La Doria intanto era andata a buttarsi sul letto, prona, il volto
annegato nelle piume del cuscino di cui le sue lacrime bagnavano la coltre di canapa.
Nella sua testa vorticavano pensieri mozzi, intenti senza risoluzioni;
ipnagogiche larve e minacciose figure la offendevano, affioranti dal buio pozzo
di un rassegnato sentimento di impotenza. Si rivoltava sopra alle lenzuola, a
scatti ossuti, sfibrati e secchi, sarmenti di moti bruciati nel concavo forno
delle viscere. Ebbe ancora un pensiero tenero dove si dipingevano ingenue
fantasie, nelle quali Giacomo appariva quale numinoso salvatore, indomito
cavaliere ebbro di giustizia, in parusìa di elette ed alte dignità, e la
prendeva tra le braccia, e la portava via con sé. Poi venne il sonno.
Ciò che si potrebbe definire il superlinguismo
del narratore non è la spia di una forma di verbalismo letterario acuito da
intrattenibili pulsioni narcisistiche né appare il develamento di una scrittura
egoica irrefrenabile, proprio perché sfrenato si figura il desiderio di dominio
sulla lingua attraversata, quasi folgorata da miriadi di clic espressivo–espressionistici. Sarebbe, così fosse, una diagnosi
psicolinguistica tutta incentrata nel tentativo di dimostrare che la dittatura
del narratore connota, in un febbrile cortocircuito poietico enigmaticamente
tutto interno all’autore, la volontà di non emanciparsi da un patologico
gigantismo dell’Es linguistico la cui epifania più evidente è per l’appunto uno
stilo culto che non può, perché non
vuole o perché non sa, rinunciare al rischio più grande, confinare il lettore
nel ruolo di comparsa nella
dialettica tra destinante e destinatario.
Il momento definito culto della
lingua narratoriale richiede, però, altri sondaggi e più acuminate verifiche
ermeneutiche. Tra i rilievi, uno riguarda l’altra realtà del presenzialismo
narratoriale. Non più la lingua corrente del narratore, la letteraria lingua italiana, ma la decisione di ordire in filigrana
una texture che oltre il superlinguismo (lingua del narratore) riveli una forma di plurilinguismo per così
dire eurolinguistico (lingue del
narratore), se si vuole una babele in cui confluiscono, sempre sotto la libido dominandi del narratore,
espressioni, modi di dire, apoftegmi, adagi, versi poetici, questi ultimi tolti
da Lautrèamont, Auden, Shakespeare, Rilke, nelle più svariate lingue:
l’inglese,
il francese, lo
spagnolo,
il tedesco. E non
solo. Una ricognizione solamente sommaria apporterebbe allo scrutinio lessicale
e frastico anche occorrenze linguistiche ibride, anglo–francesi (e
franco–inglesi),
ispano–inglesi,
franco–tedesche,
anglo–italo–francesi,
e, perché la storia stessa delle lingue occidentali entri a infoltire il
vocabolario di Elegia provinciale,
punte lessicali di lingua greca (date qui in traslitterazione)
e di lingua latina.
Un plurilinguismo, si potrà rilevare, tutto interno al lavoro del
narratore, anch’esso esornativo all’apparenza, di marca in realtà espressamente
sperimentale. Già con Indie occidentali Micheli
esprimeva uno stile sublimis proprio
alla voce narrante. Nell’Elegia lo
stile alto narratoriale (il plurilinguismo trapiantato nel superlinguismo)
innesca altresì una lingua ancora diversa, isolata, la lingua dei personaggi
(unilinguistica). È lo stile piscatorius o
basso, pertanto, l’evidenza linguistica di un’elaborazione scrittoria tesa a
identificare il personaggio del popolo o del parlante dialettale attraverso
l’utilizzo del vernacolare
di Torre del Lago (con inserti dialettali messinesi nella breve citazione del
terremoto del 1908),
la località viareggina del lucchese dove si consuma l’elegia di provincia, i
fatti e i drammi, le storie e i dolori fioriti intorno alla vita di Giacomo
Puccini e al suo harem: Doria, il suo
bovarismo e il suo suicidio, proprio come la flaubertiana Madame, Giulia, cugina di Doria, l’amica inglese del maestro,
Sybil, la moglie di lui Elvira.A
Rodolfo, che informa la madre Emilia sull’intercessione del maestro Puccini per
un lavoro alla Ansaldo di Genova, nel discorso diretto della koinè vernacolare, la donna risponde:
“Vergine santa, speramo che vada tutto per il meglio, Rodolfo. Qua ’un
si sa più come tira’ avanti”.
Pensando anche a Doria, innamorata del maestro Puccini e pietra di
scandalo perché scopritrice della liaison
tra Fosca e Guelfo, più avanti Emilia si lascia andare a sogni diuturni non
differenti in confronto alle speranze sofferte per l’altro figlio, Rodolfo:
“Speramo che Rodolfo abbi il su’ posto. Speramo che la Doria trovi un
bravo ragazzo, co’ ’na posizione, uno che la facci sta’ bene”.
Due frammenti d’inizio romanzo a titolo di esempio (la texture vernacolare riguarda alcuni
personaggi che però parlano sempre in
dialetto), per una partitura dialettale che investe, secondo una modalità
trasversale, classi sociali basse (i Manfredi di Emilia, la madre, i figli,
Doria, Salvatore e Rodolfo, la famiglia di Emilio, cognato di Emilia, Maria, la
moglie, e i figli: Vittorio e Giulia) e classi sociali alte (i
Puccini/Gemignani: Elvira, moglie del maestro, Fosca, la figliastra di
Giacomo), con l’eccezione si è detto della lingua di Puccini o di quella
magnifica calcografia del Don Abbondio
manzoniano, don Giuseppe, la cui lingua è l’italiano standard. Non esclusi dall’uso dialettale sono anche i personaggi
comprimarî (anche nell’uso non dialettale, ad esempio l’amico di famiglia Mario
Crespi, il medico di Torre, il dottor Giacchi) come Antonio Bettolacci, ad
esempio, figura di intrigante faccendiere del luogo, e altri del bulicame
antropologico di Torre del Lago.
Se il narratore parla quindi una lingua alta, i personaggi popolari (e
non) parlano una lingua bassa, la koinè
del luogo. E se il narratore sale al sublimis,
il personaggio del popolo (e quasi per contaminazione di classe, anche Elvira,
Fosca…), tramite il discorso diretto si esprime attraverso una materia
linguistica in cui il piscatorius
rivela ancora di più la presenza di un narratore vigile, vigile al punto da rivivere
– perché possiede una consapevolezza socio–linguistica del personaggio
romanzesco –, attraverso la lingua autoctona, la lingua originaria del parlante
del luogo. Rivive cioè la matrice dialettale fondando la sua prerogativa
essenziale, controbilanciare l’italiano colto del narratore per un universo
linguistico ibrido e una partitura lessicografica da romanzo totale, l’Elegia come modello di pastiche.
Non bisognerà immaginare però che l’oscillazione ossessiva tra la lingua
alta del narratore e la lingua bassa
del personaggio definisca il campo di una meccanicità stilistica,
l’applicazione di una tecnica che alterna l’oggettività narratoriale della
terza persona all’incursione socio–antropologica nel mondo del parlante
vernacolare, con il relativo esito linguistico dialettale. Al contrario,
l’intero universo stilistico dell’Elegia
non è che volontà spregiudicata di lavoro sul prisma–parola, più ancora è
insopprimibile desiderio di ricerca, lavoro di trovatore contemporaneo verrebbe da dire, o di spontaneo ma
insopprimibile desiderio (e vocazione in Micheli) di allargamento del
vocabolario rivelantesi, alla prova del lavoro, più che infinito, dalla
sostanza infinibile. Ogni articolazione linguistica, per l’autore si fa quindi
stile assoluto nel momento in cui il territorio lessicale è percorso per
progressivo allargamento di confine. Micheli procede quindi per continui
sconfinamenti, per successive ricollocazioni di sé dinanzi alla parola, parola
che sola è il suo vero mito resistente (ed elettivo), poiché il momento
poietico di Micheli è un atto di creazione vissuto come una sorta di
nevrotizzato desiderio, la volontà di abbattere l’ideale limite oltre il quale
continuare a scrivere significa di necessità veder scomparire le parole già scritte allo stesso vertiginoso
ritmo con cui germinano, o dovranno venire alla pagina, nella formidabile inventio, nella meravigliosa variatio
dello scrittore viareggino, nuove parole da scrivere, nuove parole per continuare a scrivere.