lunedì 9 dicembre 2024

Ricercando la compattezza della storia

 Una recensione di Carmen De Stasio

al romanzo Pâris Prassède (Monna Lisa edizioni, 2023)

pubblicata in Sanza-meta


Non è semplice sintetizzare i passi salienti della propria vita. Per altro, e viepiù, appare quasi un’operazione maestosa cercare di sintetizzare tutta una qualità di esistenze che, irrimediabilmente, si congiungono a qualsiasi tipo di eventi, ivi comprendendo lo stile e quel che dell’evento resta nel perdurare successivo. Sicché gli stessi eventi compaiono in una particolare, dettagliata, pur inspiegabile, panoramica al punto da marcarne la natura, lasciando assorbire dati apicali dai quali l’estinzione è avulsa; dai quali, anzi, sovviene l’immagine archetipica che, con sobrietà e fluida convenienza di sapere, comporta l’inesauribile ponderazione – giammai afflitta – di quel che – in quanto prodotto – giunge fino a una presenzialità, sul palcoscenico della quale si è attori credibili e non già principianti. Tutto ciò immancabilmente apporta delle modifiche anche alla forma memorizzata dell’evento, comportandosi al pari di come ciascuna esperienza di conoscenza apporti il sigillo di qualcosa di mancante e che – fortunosamente – sia pervenuto oppure sia stato colto, deprivandosi di qualsiasi fattispecie viva il pericolo di esaurire non già l’energia di sapere, quanto l’energia di accostarsi a conoscenze vitali, a quelle conoscenze che spiegano da sé, e che nemmeno occorre portare in auge con alcunché rimandi ad eventuali e approssimative spiegazioni; senza alcun bisogno di descrivere passaggi di quella esistenza che appartiene alla realtà di ciascun tempo, ai tempi preparatori e alle fasi successive e ipotetiche, laddove – se un possibile dove può esser attendibile – pure le significazioni principiali si perdono nell’ostilità di una memoria claudicante.

Tutto questo soggiunge a preambolo fondante all’indagine da me svolta sul libro di Giancarlo Micheli – Paris Prassède. Un’esperienza affatto nuova e un evento, per i quali ciascun lettore avverte l’urgenza di riconoscere, nella dinamica dello svolgimento narrativo, lo stile dell’autore, uno stile che determina la necessità di andare a ritroso e ricercare le fonti; corroborarne poi l’effettività traducendo – attraverso il medium linguistico e strutturante – il conosciuto e ricercato con le dinamiche immaginali e rese, non già sommariamente, come reali, come parti tutt’altro che intorpidite della storia. Di fatto, si concilia con questa ennesima prova la scena esperienziale di un tempo giammai logorato da approssimazione e dal quale – parlo del secolo XIX – gran parte del tutto (?) attuale dipende nel procedere graduale e corroborato da presenza anziché latitanza di idee e non senza sofferenza, passando dalle scienze, dalle tecniche e dalle tecnologie, attraversando le jungle dei viaggi fisici e dei viaggi immaginali, pervenendo al nuovo secolo corrispondente a un del tutto nuovo modo di sognare attraverso la scrittura, alle strategie che imprimono caratteri distintivi e pressoché collocabili in un determinato periodo, uno squarcio appariscente all’orizzonte quale sponda di uno scambio visuale, di punto di vista che si allarga, si dilata, lascia lo sconcerto e l’eccitazione come promessa di modernità mantenuta.

Assai vasto il territorio di azione di quel tempo che si allunga fino alla foce intricata del secolo successivo: un secolo soprattutto abbreviato dalla velocità che fin da subito lo anima e ne squarcia il mistero attraverso gli innesti socio-letterari, passando da una socialità che concede l’interlocuzione e rende la parola diletto veicolo di riflessioni, di progettualità e di variazioni: così il lettore incontra la magniloquenza della parola, innanzitutto; essa traduce in sé la struttura articolata di un ponte di equilibri, di congiunzione temporale, prima che intellettiva ed emozionale; attraverso l’innesto ponderato di una parola attenta e giammai vagheggiante, né approssimativa, avviene l’incontro tra i personaggi, si stabiliscono collegamenti e correlazioni e si difendono posizioni; si estingue l’improbabile e si lascia spazio al divenire in fieri e distante dalla mera teoria. Lo scrivere in sé appare dunque un evento prima che agli eventi si conforti l’andare ricercando di Giancarlo Micheli – un andare incentivato alla concertazione e alla concentrazione di tanto e di tanto insieme, piuttosto che nell’ubriacatura sfuggente. Tutto corre e ricorre e sono gli atti e i fatti, i personaggi e le condizioni a decretare questa voracità di conduzioni che deliberano in Paris Prassède quello che è e che sarà il tenore di massima dell’operazione, laddove la narrazione materializza una dinamica cinematografica e fatti emergono con esorbitanza e con la velocità di un dissidio, se si vuole, che preme perché vari passaggi da una situazione all’altra pervengano a dar motivo dell’atto e non già tralasciarlo in un andito celato a prender la polvere della dimenticanza. Così ci sorprendiamo a conoscere e – ancora una volta – a riconoscere e a stupire, caldeggiando la solennità di un linguaggio utilizzato con protervia e accordo musicale, ove mai una parola – qualora vivesse il decadimento della sostituzione con una pur minimale complanare facilitante – non farebbe altro che impoverire l’intera struttura in favore di un’interruzione nevralgica, anche subordinata ad esser spicciola e flessibile, ma non dilatabile. E, di fatto, è la dilatabilità a sistematizzare il processo narrativo di Pâris Prassède: un lavoro che è e che si autodefinisce in progressione alla stregua di un ricamo o di un intarsio, per il quale gli elementi interagiscono per integrazione, quanto per un’esigenza di orientare l’accadimento e l’immaginale risvolto, al fine di generare un’intelaiatura densa di contiguità – coniatori di una struttura congrua di una solidità comprensiva. L’intento è, pertanto, duplice: insieme, quanto pure su fronti paralleli, le evenienze reali sono sfondo e, al contempo, snodi cruciali, così come la vastità dei nomi di personaggi reali ivi presenti. Tutti insieme creano l’imbastitura di un romanzo che sia realmente – una condizione dall’apparenza contrastiva – di fantasia. Il funzionamento rammenta l’imbastitura tutt’altro che fantastica e improbabile del Frankenstein, per dire, nella misura in cui la prospettiva si incanala – e incalza – su proiezioni dal vero desunte da esperienze conciliate dall’autrice Mary Shelley, e che notificano la modalità secondo la quale la diffusione scientifica avesse, nel tempo del quale il libro tratta (il crepuscolo del XVIII secolo), la potenza di uno sguardo panoramico, ma anche lo sfavore del mito, di quel Prometeo la cui ambizione è raggiungere il potere divino. Sebbene su versanti distinti, invero, anche il libro di Micheli intraprende un percorso identitario e, talora, insospettabile, per poi svoltare in esperienze che coagulano il vero e il non vero con l’invero(simile) fino a risultare depurate di qualsiasi ascesi assurda – almeno per tempi specifici – e che portano in concretezza qualcosa di incollocabile e tantomeno misurabile perché oramai assai distante ed imponderabile. Da qui l’osservanza di schemi che desumono l’irrealtà soltanto come infiorescenza di quanto è (ancora, perlomeno) sconosciuto e che appare alla mente del coevo come irreale.

Giungiamo, quindi, all’opera dal titolo criptico, se si vuole: Pâris Prassède. Nulla a che fare con la capitale francese, sebbene la Francia sia diletto scenario principale, bensì con Pâris – Paride – il nome del personaggio di fantasia con il quale si apre nel libro il potenziale di liberazione dalla schiavitù, una schiavitù che intraprende una varietà di forme come soltanto una società fortemente fossilizzata sulla deviazione dei criteri di urbanizzazione può dare; Paride, dicevo, «in omaggio al principe di un antico poema epico» (leggiamo a p. 41). A Pâris si accompagna poi il patronimico Prassède «poiché praxis» – scrive l’autore – «nella lingua in cui era stata cantata l’originaria virtù d’armi ed amori, significa “azione”, e sull’intraprendenza e l’azzardo avevano riposta la fede e maturata la gloria tutti gli eroi che concorsero ad abbattere il dominio dei bianchi». Basterebbe questo a definire il codice scritturale del libro, laddove eroico e sincero è il nobile afflato di un sapere che muove dall’esperienza, un’esperienza che, seppur filtrata da un terreno immaginale, depone a favore di un’interlocuzione spaziale, oltre che temporale; di una sorta di crescente reticolato che volge con serietà (e indifferenza alle mode) verso la conciliazione di quelle tappe che distinguono la prassi rispetto a un fare generico. Da qui la convergenza tra vero, invero (invisibile) e vero(simile) riempie lo spazio di conquista della parola-veicolo di idee in continuo trasferimento, adottando una narrazione fondata sul criterio convergente della liberazione e del diritto, vale a dire, dei passi significativi affinati al raggiungimento di libertà e di diritto, passando per circostanze individuali che si dilatano a incrociare destini di tipo economico, sociale, di ruoli assai diversi senza mai frantumarsi.

Gli eventi, pertanto, si accompagnano alle loro stesse deflagrazioni, mantenendo intatto il punto iniziale e la volontà mai estinta, interloquendo fittamente con i passi misurati di una temporalità giammai vista sullo sfondo, e, vieppiù, irrobustita dalle circostanze. Allo stesso modo, i dialoghi affrontano i fatti, portando alla luce realtà tutt’altro che tumefatte dall’oblio. Ecco, dunque, come l’opera raggiunga il suo apice esattamente in quanto scritto: è punto di snodo e necessita di ulteriori elementi per contraddistinguere il desiderio – o necessità – dell’autore di evitare l’oblio su quegli eventi che avrebbero decretato passi avanti; che sarebbero stati il sostegno e la crisi di valori umani. In tal senso Pâris Prassède dispone sul medesimo piano la volontà dell’autore di farsi guida e anteporre l’abilità di generare una prospettiva in divagazione degli eventi, conquistando, di questi, le identità performative attraverso accadimenti, la cui rotondità viene raccontata dallo stile e dalle motivazioni di ciascuno e, non da ultimo, dall’interiorità dello stampo tematico.

In altri termini, l’autore segue una praxis consolidata al punto da caratterizzare l’opera intera e particolare del romanzo. Sicché il romanzo stesso prende il titolo quasi in maniera autonoma, oserei dire: si fa prassi non necessariamente convenzionalizzata (istruita, cioè, da un correntismo banalizzato e indotto per agio): è meta-azione che volge, in quanto prassi, a consolidare le fasi in maniera edotta, scientifica cioè, adducendo tutte le condizioni intese a irrobustire la strutturazione di un romanzo che tale è in quanto miscellanea di soggetti operanti e, di conseguenza, di eventi che vedono i protagonisti tutti coinvolti nell’orientamento degli eventi medesimi. Inoltre, a suggellare i vari snodi intervengono con decisività le marcature immaginali. E sono marcature che, in ogni caso, rivestono la facoltà del mantenere la determinazione oltre il possibile depauperamento, quanto l’oltre del deperimento di conoscenze e di condizioni a fondamento dell’intera attualità. Talora nel bene, tal altre nel male, allorquando pressa la miopica utilizzazione aberrante sovente perpetrata dagli stessi viventi. Tutto questo rinvia a una sequenza calibrata di parametri non già presi in prestito al fine di creare una tela di dissociazione, quanto a realizzare la dilatazione di episodi congeniali, imbastiti per essere efficienza di socialità e, pertanto, di esperienza reale, piuttosto che faticosamente realistica. Vale, dunque, a questo punto, la pena escludere l’irreale, tanto che il romanzo consegue una visualità temperata su aspetti che rendono incidentale qualsiasi tentativo di lettura pari a un umorale compendio di fantasia. Mi spiego: la realtà, insieme alla realtà immaginale dei personaggi (malgrado taluni siano efficacemente recuperati alla storia), consegue l’efficace tema per avvalorare la conoscenza come ambito di condivisione nel mentre si prosegue nella lettura-investigazione. Così ciascun episodio incontra il successivo attraverso rimandi e memorie. Anzi, ciascun episodio – nel momento in cui costituisce il fatto e lo storicizza – va a costruire altresì il compendio di una memoria quale efficace fronte di riflessione. Così, ancora, il lettore intravede e intraprende, in un unico tempo, avvedutezza storica e accuratezza lessicale, alle quali, poi, si affianca l’essere totale dell’autore animato dalla passione per l’oratoria pedissequa e attenta al benché minimo dettaglio, dileguando qualsiasi lacerto di noia. E all’acutezza dello sviluppo narrativo non mancano di affiancarsi tratti che avvampano la curiosità di saperne di più per le ipotetiche – e quanto mai afferrate – intuizioni di là da pervenire sullo scenario della pagina.

In questa nuova operazione letteraria, Giancarlo Micheli non diserta il criterio; né, a sua volta, il contenuto viene oscurato dalla forma, benevolmente inquieta e assai vivace tra le esponenzialità che emergono via via dal sottobosco ombrato, laddove si adagia lo sviluppo in una molteplicità di irrequietezza che dà forma alle parti, tutte conciliate a garanzia dell’ottimale resa letteraria. E sì, perché, accanto al valore letterario, Pâris Prassède conquista per essere sinfonia di storia, di ricerca e di narrativa intensa. Qui si instaura l’attitudine di Giancarlo Micheli. Qui il proemio di precedenti opere conquista un ricamo a sé per essere formula ensoverbale – nel senso di sondare tutte le direzioni correlate – al fine di un andare arricchendosi, che oscura l’iniquità. Iniquità alla quale Giancarlo Micheli si ribella, proponendosi nella vastità narrativa; compiendo un taumaturgico ordito funzionale a una tela che, insieme alla provvidenziale dilatazione argomentativa, intreccia fitti nodi mediante un lessico rigoroso, ben distante da concilianti approssimazioni. Dall’osmosi risulta una narrazione liturgica che nulla trascura e che, anzi, trasmette la valenza preponderante di conoscenze dettagliate che quindi fioriscono in un’intelaiatura tutt’altro che sommaria, mediante la quale la testualità viene assunta come condizione caratterizzante.

Quindi, una serie di parametri svolge a suffragare il valore dell’opera, nel cui svolgimento il dato della schiavitù, del dileggio del dato umano di uguaglianza, quanto l’imponderabile slegamento dall’oscurità di un femminino manipolato a esser scudo a se stesso, si inserisce non senza spiegazione autonoma tra le pagine che evolvono come solchi ponderati a dar significazione alla storia, traendo il giovamento dell’emancipazione dall’inganno del sapere. E Giancarlo Micheli prepara il terreno esplicativo per le circostanze, riservandosi una letterarietà che diviene il vero spirito del mondo con le sue discrepanze, le sue increspature e i casi sequenziali, esplorando le proprie credenziali lungo una rotta libera dalle catene di un letterariamente facile, per avviarsi sul sacro solco di una conoscenza in progressione, esplicitata mediante la coltivazione di una dialettica che, nella sua doviziosa puntualità, appare innovativa. E, di fatto, l’innovazione insiste in quella che potremmo definire come scrittura rivoluzionaria per il fatto di sovvertire il qualunquismo retorico e restituisce dignità alla prontezza che la lingua italiana riserva, fervida e compatta.

Carmen De Stasio


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Un romanzo vorticoso

Una recensione di Gianluca Paciucci

al romanzo Pâris Prassède (Monna Lisa edizioni, 2023)

pubblicata in Odissea


Pâris Prassède è un romanzo anche corporalmente forte, come i romanzi di Volponi (Le mosche del capitale e altri), esplicito riferimento dell’autore. Un’immaginazione potente, quella di Giancarlo Micheli. Il titolo ci indica il protagonista, l’eroe eponimo, il quale attraversa tutta la narrazione con la forza e anche la prestanza fisica di un personaggio vorticoso in un romanzo vorticosissimo che si situa sicuramente nell’ambito del romanzo storico, così come è stato definito dalle riflessioni di György Lukács e Eric Auerbach. Certo, il romanzo storico, in Italia, è quello che ha introdotto la maggior parte della popolazione alla letteratura, innanzitutto grazie all’esperienza scolastica: i Promessi sposi di Manzoni, che alcuni dicono inflitto agli studenti e quindi fatto non amare. In realtà, in qualche elemento di libera costrizione può esserci una dose di sanità, perché una persona a modo non andrebbe mai a leggersi Manzoni da adulto, se non fosse costretto… Con quel minimo di costrizione, però, si può guadagnare l’accesso a un mondo straordinario, un mondo robusto, conflittuale, con un narratore onnisciente che conosce i più intimi pensieri dei suoi personaggi e con un autore che ha fondato, in Italia almeno, la storia di questo genere letterario, arrivando fino ai nostri giorni.

   Nonostante queste origini in grande della nostra letteratura moderna, ci sono state diverse fasi in cui, da noi e non solo, le mode editoriali hanno privilegiato una scrittura votata al frammento, alla prosa d’arte, alle storie minime e minimali, conseguendo a volte anche risultati di grande bellezza. Dagli anni Novanta del secolo scorso fino all’inizio del nostro, però, si ricominciò a sentire il bisogno di grandi narrazioni, di cui la fase post-moderna pareva aver decretato la fine lasciandoci in mano a un pensiero debole, a un romanzo debole, a una poesia debole, che non potevano nutrirci e quasi imponevano di rassegnarci ad un presente senza alternativa, alla fine delle speranze collettive. In particolare all’inizio di questo secolo abbiamo così avuto una rinascita narrativa (il romanzo Q del collettivo di scrittura Luther Blissett, uscito proprio nel 2000, ne è stato un segnale), riemersa dal desiderio di tornare a respirare in grande, perché lettori/autori – abbiamo bisogno di questo, di una grandezza che certo non sia basata sul fanatismo, quanto piuttosto spinta da alta passione, quella della vicenda degli esseri umani nella storia.

   E Pâris Prassède è un romanzo di grande passione, che tratta argomenti importanti, epocali. Non aspettiamoci dunque microstorie, sebbene alla narrazione di grandi accadimenti storici l’autore affianchi talora la dimensione dell’aneddoto, quanto piuttosto il quadro grandioso di una stagione forse irripetibile, almeno in quei termini di sete di futuro. Il protagonista attraversa una fase della storia e della geografia umane, dalla metà dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento e poi alla data fatidica della Rivoluzione del 1917, che avrebbe rifondato – o provato a rifondare – il secolo nuovo. Un romanzo storico, quindi, questo di Micheli, dall’accezione molto personale, in cui i personaggi appaiono e s’incontrano, surrealisticamente, secondo i riferimenti propri all’autore, ma s’incontrano in modo oggettivo, poiché una forza unificatrice li mette l’uno al cospetto dell’altro, non per una cabala delle coincidenze, ma perché elementi precisi dell’intero flusso della storia umana determinano che alcune figure vadano a toccarsi e a scontrarsi facendo così scoccare scintille fragorose.

   La grande storia e i grandi personaggi – anche nelle loro piccolezze…– che vivono in lei, dunque, sono materia del romanzo. Il lettore incontrerà, dapprima, quei sognatori che, nella seconda metà dell’Ottocento, hanno pensato come poter costruire politicamente un mondo nuovo, i fondatori del cosiddetto socialismo utopistico. Il lettore farà quindi esperienza dell’asprezza dello scontro che oppose Proudhon, da un lato, e Marx, dall’altro; per poi apprendere, tra molto altro, anche episodi biografici della famiglia Marx (soprattutto delle sue figlie sognanti e per questo punite nel dolore di esistenze non facili), mai descritti con frivolezza, bensì in modo da illustrare i valori umani dei personaggi proprio in virtù delle loro debolezze e persino delle loro miserie.

   C’è, nello stile di Micheli, una sorta di poesia dei nomi propri e geografici: se ne gusterà il colore in elenchi. In filigrana a tutta la narrazione, si può leggere il discorso peculiare ad alcuni precursori (ma grandi in sé, non solo perché anticipatori d’altri più maturi, più completi autori), dalle vite radicali e sofferenti, i quali, accanto al sogno di una cosa politica, magari dal fondo di un nero carcere coltivavano visioni cosmiche, come August Blanqui nell’Éternité par les astres (ma quanti rivoluzionari, hanno pensato al cosmo come a un luogo praticabile: Bogdanov su tutti, citato nel romanzo). Donne e uomini che misero i loro corpi nella lotta con un investimento desiderante (alla lettera: da strappare alle stelle…) che, pagina dopo pagina, viene a sorprenderci. Vi è dunque, in questo romanzo, il sogno di altri mondi, dove poter andare se questa terra ci è stretta, tanto più oggi, quando, sempre più, la stiamo divorando, e divorando così noi stessi, che ne siamo figli e padroni disonesti (mentre dovremmo esserne solo umili custodi). Il vortice rutilante della trama riproduce una forma a spirale, resa densa da uno stile di scrittura interessantissimo dal punto di vista del lessico e della sintassi.

Un lessico ricercato, fatto di tecnicismi, di lingue straniere, di arcaismi, di parole bellissime/dal profondo, il cui suono da solo basterebbe a convincerci che sia valsa la pena di leggere la pagina che le contiene. È un linguaggio sottratto a quello, mistificatorio e mistificante, che caratterizza il nostro tempo. Le sconfitte dell’umanità accadono prima nella sfera del linguaggio, quello che ci viene imposto di usare, poi di conseguenza vengono tutte le altre. Lo sapeva Franz Rosenzweig, messo in epigrafe da Victor Klemperer nel suo geniale scritto LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo (1947), che “la lingua è più del sangue”. Nella lingua vengono preparati fatti di sangue, ecco, ne viene allestito lo spettacolo.

Lessico, dunque, e poi sintassi. Vi sono, in Pâris Prassède, dei passaggi straordinari in cui l’autore inizia una frase ma poi lascia solo il soggetto appena apparso e lo abbandona, sulle prime, smarrito/irretito in un ampio inciso al cui interno accadono eventi che sembrano prendere il sopravvento su quanto è al di fuori della parentesi: così, mentre il soggetto resta lì in attesa e ancora non sappiamo cosa veramente accadrà di lui, esso viene lasciato in sospeso da un’ulteriore piccola digressione, mentre poi quasi inaspettatamente arriva il verbo (azione, praxis come nel cognome del protagonista…) e il lettore si sente rassicurato, perché rintraccia la sua sintassi minima, soggetto, verbo, complemento (ma è una rassicurazione intrisa sempre di spaesamento…). In tal modo, l’autore disarticola il nostro approccio a una linearità che spesso non è autentica semplicità, ma banalizzazione tirannica, quasi totalitaria: slogan di propaganda e/o grido di guerra.

Dal momento che ci forniscono una ricchezza nutriente, la lingua di Pâris Prassède, il suo lessico e la sua sintassi, non compongono un grido di guerra, ma uno di pace. Il sangue può anche essere sangue risparmiato (cioè ribelle, che risponde a una guerra portata), non sangue fatto versare.

Gianluca Paciucci


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Un’intervista a Giancarlo Micheli

a cura di Sonia Magi

per Radioemme 


parte 1

parte 2

parte 3




Nella storia – una riflessione allungata nel panorama di Esposizione dell’Amore

 Una recensione di Carmen De Stasio

al romanzo Esposizione dell’Amore (Campanotto, 2023)

pubblicata in Il Ponte (Anno LXXX, n.1, gennaio-febbraio 2024)


La narrazione s’infittisce negli eventi con un nitore che addensa l’ambiente, consegnando la sostanza del tempo narrato e del tempo descritto. Riprendiamo il filo, dunque, con una narrativa che mette insieme fatti di realtà con una costruzione del tutto immaginale. Con questo afflato, Giancarlo Micheli presenta al lettore il romanzo Esposizione dell’Amore e ancora una volta non manca di lavorare in simultaneità su tre piani proattivi, conseguendo risultati a dir poco di pienezza. Quali i piani a cui mi riferisco: la varietà di contesti storici non soltanto come mero sfondo agli accadimenti individuali di quel che riconosciamo come vero protagonista del romanzo, vale a dire il tempo compreso tra l’Esposizione Internazionale che nel 1889 rende Parigi cuore pulsante dell’ascesa creativo-industrializzata dell’occidente, e il tempo tormentato della guerra civile in Spagna nel 1936; la storicizzazione degli eventi correlati in quel frangente situazionale, insieme alla modalità di congiungerli in maniera congrua; non ultima, l’ambientazione attitudinale, mediante la quale alcuni dei personaggi colti in conversazione tra loro svelano impressioni rilevando in concordanza le proprie scelte. Il quarto e non meno importante cardine del romanzo – riprendendo il primo piano di riferimento ivi riportato – è il tempo dalle vicende legate al fermento tecnologico al tramonto del diciannovesimo secolo, fin nel cuore delle trame di un tempo nel suo ruolo di magistrale interlocutore.

Un compendio di narrazioni si intreccia a cogliere eventi indiscutibili insieme alle impressioni e alle realtà di ciascun protagonista, fermo restando che anche i luoghi raccolgano la testimonianza di quel che avviene, afferrandosi alla simultaneità di ciò che è di carattere sociale, politico e che vede la sua espressione confluire nella tematica dell’arte, laddove sembra coniugarsi il fervore di decisioni che sovvertono un temperamento votato al ristagno. E che cosa avviene, se non l’incastro di decisioni alla luce di decisioni politiche nella contrazione di come l’arte sia il baricentro di raccolta e di memoria e all’insegna della quale qualcosa va cambiando a un livello meta-topico, dove nulla ha luogo in casualità e non sfugge come ciascuna proposizione, ciascuna parola – che sia programmata interlocutoria, piuttosto che una semplice incisione – permetta di dilatare la concezione talora fustigata da brevità che il tempo in fuga proietta sulle menti impigrite da assente ricerca. Al contrario, si palesa fin dall’esordio la trama articolata di quello che mi sovviene definire romanzo di un tempo, romanzo di individuali presenze, alle quali si deve l’andare storico, avversando tanto la fuga dis-conoscitiva, che la marmorizzazione rispetto alla realtà dei fatti che induce a trattare i medesimi capitali eventi al pari di quadri appesi molto in alto su una parete e pertanto irraggiungibili. Giancarlo Micheli strappa la tela dalla parete e la accosta allo sguardo-mente nella consapevolezza di vivere un tempo altro nel bisogno di imprese e di eccellenza[1].

In altri termini, l’amore che anima la trama del libro si svolge per piani in convergenza e un invito richiama ad uscire dalla fissità prestata a manuali d’antologia, a una distaccata elencazione di date e di nomi e di tutto quanto ne sia contorno, per consentire, invece, una penetrazione che sia avanguardia del plausibile. Per far questo, la stesura non può che essere capillare, quanto coordinata per proposizioni esplicative, in un intento che riunisce sensibilità e prassi verbale in un agglomerato di forze, le stesse che rendono la simultanea soggettività-oggettività. Tanti e tutti equamente significativi, dunque, i personaggi in scena rimandano a situazioni, a scelte fuori scena, e che, nonostante il “fuori scena”, rimarcano l’impegno razionale in forma di accadimenti dal tenore etico, oltre che epico, mai disgiungendosi da una realtà proposta in un’integralità tesa a dar sostegno a un bisogno concreto di voltar pagina. Così non solo vediamo comparire in scena personaggi che nell’oggi sappiamo abbiano segnato la storia del progresso quali l’uomo d’affari Henri Menier, il politico Edouard André, il poeta surrealista – e amico di André Breton – Benjamin Péret, la cui figura è capitale nell’evolversi narrativo del romanzo per via del richiamo a personalità di magistrale formazione: tutti muovono la direzione degli eventi e il loro clima in un concatenarsi che esprime la pervicace pennellata su una tela (come evinciamo dall’incipit del Capitolo terzo) per riprendere le redini con i campi della conoscenza e ad essi rendere merito nella pienezza etica del rigore, quanto dell’equilibrio nel dosare la voce esteriore con una lucida comprensività di tesi intime in sinergia dentro-fuori e agendo al di fuori di qualsiasi metamorfismo.

Con Esposizione dell’Amore ci troviamo, dunque, alle prese con tutto quanto si rapprenda dalla realtà trattenendone il riconoscimento causale, oserei dire prospettico, quanto delineato come una sorta di rinnovabile mise en abyme di stampo surrealista (corrente che si presenta diffusamente nel libro quale luogo di immersione e di svolgimento) che dispone il tutto simultaneo, attendendo a una scientificità che sconvolge una definitività negligente, propendendo per una coloritura a campo vasto e rispondendo nella mediazione di un linguaggio rigoroso e coerente, nel quale risuona il segno rivoluzionario di un’identità storica da recuperare e da non dimenticare.

domenica 8 dicembre 2024

Su Esposizione dell'Amore

Una recensione di Manlio Cancogni

al romanzo Esposizione dell’Amore (Campanotto, 2023)

pubblicata in Zeta (Anno XLVII, n.2, 2024)


Nei romanzi finora scritti e pubblicati, Micheli, viareggino come l’omonimo e ingiustamente dimenticato Silvio, partendo dalla Lucchesia ha spaziato in almeno tre continenti e in tre o quattro secoli. Egli si sente felicemente a suo agio in qualsiasi tempo e luogo del vasto mondo, attento a ogni esperienza culturale che gli accende la fantasia, dalla musica di Puccini al surrealismo di Benjamin Péret (fedele sodale del turbolento e dispotico Breton) passando attraverso la lacrimevole odissea degli emigranti negli Stati Uniti di fine Ottocento e primo Novecento e lo shintoismo del Giappone dal XVI al XX secolo.

La cosa straordinaria è che egli non si contenta di darci una rappresentazione generica di quelle epoche lontane e di quei luoghi spesso remoti, ma ne deriva gli aspetti più particolari con una precisione che sarebbe rara anche in un testimone diretto. Di fatto egli non si è mai mosso dalla città nativa e ha fatto tutto da sé per documentarsi, non avendo che pochi amici del tutto sconosciuti.

Forse è proprio questa innocenza che rende così evidenti e credibili le sue invenzioni, come possono esserlo solo le fantasie d’un poeta. 

 

Manlio Cancogni


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Buttes Chaumont, paesaggi dell'oppressione

un articolo di Giancarlo Micheli

pubblicato in Zeta (Anno XLVII, n.2, 2024)


Un tipico gioco surrealista consiste nell’estrapolare da banali conversazioni, registrabili nelle più varie circostanze – in camere di postriboli, interni familiari, stanze del potere pubblico o segreto –, modelli morfologici da distribuire alla forza lavoro disponibile all’apparato editoriale-industriale, affinché essa li applichi nella prassi discorsiva, quanto basta a riprodurre il valore linguistico necessario come mezzo di circolazione dei significati e ad aggiungere un’eccedenza incorporabile al capitale fisso di conoscenza il quale, solo al prezzo stabilito nelle relazioni socioeconomiche di ciascun elemento con tutti gli altri e di ciascuno con il tutto da essi composto, diventa collettivo. Un sottoinsieme delle regole che governano tale gioco è quello che sovraintende al funzionamento reale dell’apparato editoriale-industriale, in tutta la complessa struttura di gerarchie professionali, componenti metodologiche e disciplinari. D’altronde, come insegnò pure Umberto Eco nel massimo ed italico dizionario enciclopedico d’una scienza tipicamente novecentesca, dato alle stampe a metà anni Settanta sotto il titolo di Trattato di semiologia generale, e come insegnava, si parva licet componere magnis, pure il critico letterario statunitense Eric Donald Hirsch accorgendosi che «anche quando il significato che l’enunciante desidera esprimere è inusuale egli sa che per esprimere il suo significato deve prendere in considerazione la probabile comprensione dell’enunciatario», tant’è che, in anticipo su entrambi, il linguista svizzero Charles Bally descrivesse tale transfert tra enunciante ed enunciatario come «sdoppiamento della personalità» nel suo Linguistique générale et linguistique française, pubblicato a Berna durante il penultimo anno della Seconda guerra mondiale, d’altro canto, l’insolito non trova per manifestarsi un luogo d’elezione ed un miglior contesto altro che nell’ovvio e persino nel triviale, addirittura nel tetraviale secondo l’accentuazione da cui è orientata questa breve prosa prospettica. Esiste un punto della superficie terrestre dove lo stato capitalistico si è fatto in quattro più letteralmente che altrove: lungo coppie di segmenti rettilinei e perpendicolari, vi concorrono i confini territoriali di Utah, Colorado, New Mexico e Arizona, in forza di quanto sancito dal Congresso degli Stati Uniti al tempo in cui era ancora in corso la guerra civile. L’area sulla quale insistette l’efficacia di quei decreti fu abitata, sin dall’alba dell’olocene, da numerose popolazioni native, una delle quali venne icasticamente denominata Pueblo da parte dei precedenti colonizzatori spagnoli ed è oggi nota, nel lessico dell’etnologia nonché in quello generico, sotto la forma abbreviata alle prime due sillabe dell’autonimo Hopituh Shi-nu-mu, il popolo pacifico. Eppure non è ancora il genere di meraviglia di cui stiamo andando in cerca quello esemplato dall’ineccepibile corollario democratico che, sotto al dominio giuridico fattovisi via via bellicoso ed occidentale, concede ai parlanti di quell’antico idioma una libertà di espressione ed autodeterminazione proporzionale alla quota irrilevante che essi rappresentano sul totale della cittadinanza nella patria del primo emendamento. Tra le credenze cui indulsero codesti aborigeni e delle quali l’evoluzione adattiva della specie si affretta a fare giustizia, tra le interpretazioni ingenue rilevabili nei loro miti cosmogonici, che un’analisi narratologica bachtiniana annovererebbe senza ambage al cronotopo folclorico-idillico, modellato sulla ciclicità del regno vegetale, ve n’era una stando alla quale la terra, che essi calpestarono e su cui seminarono il mais a partire dal disgelo würmiano, fosse composta dalla polvere d’ossa degli antenati. Ora, lettore, fai ricorso alla minima alchimia che serve a trasformare non tanto lo sterco in oro massiccio, bensì il fosfato di calcio, da cui è composta la parte mineralizzata del nostro scheletro, in solfato del medesimo metallo alcalino e, a meno che tu non sia persuaso di non poter assolutamente aprire una porta ruotando la serratura attorno alla chiave, acconsentirai a lasciarti guidare, all’istante e senza alcun onere di lunghe e faticose tratte, su un sedimento dove la storia ha impresso omologhi segni cruenti.

Nel bacino di Parigi, a metà del periodo geologico terziario, si formarono gli strati calcarei e gessosi che l’erosione avrebbe poi rimodellato fino a farli affiorare in una serie di modesti rilievi lungo i meandri della Senna. A nord-est svettarono, poche decine di metri sopra al livello del mare, alcune di queste buttes, alle quali sarebbe stato attribuito il toponimo Chaumont a causa del loro brullo aspetto (chauve mont, monte calvo), se è vero quel che sostenne nelle sue memorie il barone Haussmann, prefetto dell’ultimo imperatore Bonaparte e promotore della grande ristrutturazione urbanistica della capitale; fin dal Seicento le grotte sui loro fianchi vennero adibite a cloaca, dove, ad effetto della successiva crescita demografica, i bottinai vennero a scaricare da sempre più lontano, sicché nei paraggi si sviluppò presto un’economia sussidiaria e malsana, di macellatori, conciatori, allevatori di vermi per la pesca, mentre ai piedi delle collinette si somministrava la pena capitale sul patibolo di Montfaucon, tanto da supplire con archetipi del tutto autoctoni alle esigenze creative di Antonin Artaud quando, negli anni Trenta del ventesimo secolo, si accinse ad evocare i truci riti assiri degli imperatori bassianidi nel noto Eliogabalo o l’anarchico coronato. A quel tempo, però, il sito aveva ormai subito ampie bonifiche: durante la Rivoluzione erano state aperte le cave di scagliola, le quali dettero incremento all’edilizia parigina ma infersero nuove sofferenze all’ambiente e alla cittadinanza, come registrarono le cronache di crolli e cedimenti del sottosuolo, tant’è che a metà dell’Ottocento le condizioni dei residenti non si fossero di molto sollevate al di sopra di quelle degli antenati. Come poteva dunque non intervenire un uomo della provvidenza? Ordinata la cessazione delle attività estrattive e colta l’occasione offerta dall’Esposizione universale in programma nel 1867, Napoleone III volle donare agli abitanti un parco, edificato sulla sede della preesistente discarica senza nulla lesinare quanto a supremazia tecnologica e salubrità di competenze. Tramite lavori di sterro e di riporto a dir poco pionieristici la planimetria fu rivista e le alture riattate, cosicché l’eminente, ribattezzata butte Puebla, sovrastasse un laghetto artificiale ed un sofisticato sistema idraulico d’acque correnti, in modo da fornire la perfetta suggestione d’un paesaggio alpino in piena regola e da saziare con effluvi oltremodo balsamici i polmoni dei visitatori proletari, adusi ai miasmi della banlieue. Il pianeta non fece però a tempo a completare quattro orbite che già i sogni positivisti dell’autocrate s’infransero contro gli acuminati Pickelhauben prussiani e proprio quei lotti di terreno, i tempietti e i padiglioni in mattoncini, ceramiche colorate ed altri materiali innovativi caratteristici dell’Art nouveau, furono sventrati dagli obici delle truppe di Thiers incaricate di reprimere la resistenza degli ultimi comunardi, che si erano asserragliati là. «Alle buttes Chaumont fu innalzato un rogo colossale, inondato di petrolio, e per giorni un fumo spesso, nauseabondo impennacchiò le massicciate»; di quanti difesero eroicamente il popolo parigino fino all’ultimo respiro «trecento, che erano stati gettati nei laghetti artificiali, riaffiorarono in superficie e, gonfi, emanavano il loro afrore di morte» riferì, in Histoire de la Commune, Olivier Lissagaray, genero di Marx. Eppure, mezzo secolo più tardi, tra quei poggioli di pietra gessosa, una volta che fu ripristinato l’arredo vegetale tramite la piantumazione di sofore, gledissie e tutta una ricca epitome di biodiversità, i surrealisti stabilirono uno specifico culto della loro poetica visionaria e Louis Aragon dedicò ai giardini pubblici del quartiere del Combat persino un lungo capitolo del suo romanzo Le paysan de Paris (Gallimard, 1926), dove, come ebbi a scrivere anni or sono, permise «all’opera, quale compimento di attimi vissuti, di risalire fino alla quota dove il paesaggio, non più mero sfondo delle azioni incorrelabili e contraddittorie dei personaggi, si lascia ammirare come un volto umano, come il volto della donna amata».

domenica 7 aprile 2024

I conti con la tradizione letteraria

una recensione di Francesco Macciò

al romanzo Pâris Prassède (Monna Lisa edizioni, 2023) di Giancarlo Micheli

pubblicata in Fissando in volto il gelo (marzo 2024)

 

Pâris Prassède (Monna Lisa edizioni, 2023) è un’opera ponderosa, un romanzo di oltre seicento pagine suddivise in 54 capitoli. La prosa ricorda quella manzoniana, così calibrata e ricca di dettagli, ma certi passaggi, che talora si addensano rallentando lo scorrimento narrativo, acquistano al cospetto di tanti sciatti prodotti odierni una valenza sperimentale, che potrebbe suggerire riferimenti a Gadda o allo stile “anticheggiante” di Gesualdo Bufalino. Questa modalità di scrittura costituisce il grande pregio di Giancarlo Micheli e, allo stesso tempo, anche il suo limite, nei confronti di un pubblico di lettori che l’industria editoriale ha ormai addestrato a ricercare sempre e soltanto i prodotti più semplici, ridotti alla misura di sceneggiature, che in non pochi casi lasciano la sola soddisfazione di poterli abbandonare su un cassonetto dei rifiuti, perché qualcuno possa servirsene. Se oggi viviamo dunque un tempo di totale distrazione, di cui siamo un po’ tutti i testimoni, indotti dalle pratiche della comunicazione di massa ad essere utenti di un linguaggio deprivato di ogni complessità, il linguaggio di Micheli fa i conti con la nostra grande tradizione letteraria, costruendosi in grappoli di strutture ipotattiche, col frequente ricorso anche alla tecnica di ripresa che, dopo una lunga serie di subordinate, ritorna alla frase principale per aiutare il lettore alla comprensione.

Il romanzo offre poi un’estensione lessicale importante e veramente ammirevole, ma ci costringe anche a tenere un vocabolario a portata di mano; e questo è un bene, perché invita a scoprire o a riscoprire parole magari cadute in disuso, dotate però di una loro forza semantica, nonché sonora, dove si coniuga il significante al significato, nell’intreccio dei ritmi sui suoni e sul senso delle parole.

L’altro aspetto che emerge, quasi ad apertura di pagina, è la rigorosa precisione storica, dovuta a un pregevole lavoro di ricognizione, che affonda un po’ in tutte le tematiche dell’Ottocento, soprattutto quelle sociali, dalla Comune a Marx e oltre, tutte analizzate sotto molteplici aspetti e con rigorosa precisione.

Lo stile, in grado di intrecciare la fiction con il continuo gioco con la storia, è connotato da una peculiare ironia, tale che spesso, nella descrizione di un evento o di una situazione, tralascia la via più semplice per eleggerne una più complessa e quasi provocatoria, come, ad esempio, si può rilevare in questo passo tratto dal capitolo V, Un incontro fortunato: «I moti popolari […] non produssero esiti efficaci, eccetto l’avvicendamento a Charles X di Louis Philippe d’Orléans, il re borghese che, alla sacertà del primo emionomastico, aveva copulato il beffardo sarcasmo dell’appellativo connotante il secondo, sulle labbra della patria intera, Égalité».

Uno stile, quello di Micheli, degno di essere riconosciuto e valorizzato, in particolare per le venature ironiche tese a uno straniamento che consenta al lettore di revocare in dubbio le versioni ufficiali della Storia, soprattutto quelle di cui si è meno disposti a riconoscerne i tratti ingannevoli o consolatori.

Francesco Macciò


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