impressioni di lettura di Marino Tarizzo
pubblicato su Literary (n.11/2021)
Qualche
anno fa, in un circolo Arci di Torino, si svolgevano serate in cui un autore
veniva esaminato, sezionato, eventualmente scorticato da un gruppetto di
giovani virgulti delle patrie lettere. Mi toccò in sorte di essere stroncato
poiché reo di aver inserito in un testo una parola rara, inconsueta. La poesia
deve essere facilmente comprensibile da tutti, sostenevano. Me ne feci una
ragione e continuai a concordare con Gramsci, Don Milani e Dario Fo per i quali
conoscere una parola nuova era un modo per difendersi meglio dal padrone. Per
questo devo ringraziare la lettura di Verses versus capital di Giancarlo
Micheli, per avermi dato modo di apprendere e/o di ri/conoscere una serie di
lemmi di non comune uso (mi sono divertito a contarli, grossomodo: sono almeno
una quarantina). E tutto questo in un contesto dove l’analfabetismo di ritorno
(solo quello?) è rivendicato quasi come una nuova “libertà”; ma il mio grazie e
la mia gratificazione vanno oltre l’uso di queste parole, sono relative al
linguaggio usato dall’Autore. Un linguaggio magmatico, in continua e piena
ebollizione, inondazione, ma tutt’altro che caotico, incanalato dall’Autore
(presumo non senza fatica) verso l’approdo ustionante ma coinvolgente della
propria evoluzione/rivoluzione linguistica, insieme all’apparenza respingente
e, in uno, del tutto affabulante. L’Autore vi trova evidente appagamento
nell’assemblare aulicità, formazione culturale e ricercatezze stilistiche con
espressioni anche quotidiane, di uso comune o paraproverbiale, seppure
rivoltate di senso, in dis/senso. Un paio di esempi: “Ad ogni suicidiota la sua
supercazzuola” (Muratorio). “Dove la tecnica divisione/ Del lavoro da
fare” (Il mare tra le terre). Percorso che lo porta, in un mondo dove la
libertà tutt’al più è fraintesa con il concetto di privacy, alla destinazione
di proporre rigorosi versi liberi/liberati/liberanti. Una scelta che, oltre a
quella tematica, parimenti impegnativa, di sicuro gli regalerà un ulteriore
motivo di “embargo” nei suoi confronti. Ciò gli consente, da un lato, di
condursi tra versi quasi usuali d’amore (“Appena ti ho sentita/Qua dove sono è
uscito il sole/Ed anche questo è un caso/Di cui è bene tener conto”, I passi
ritrovati), ma contemporaneamente non gli impedisce, scrivendo, di giungere
pari pari alle arti visive: il verso/titolo “Uomo di stile con randello” è
indubitabilmente Magritte!
Poco
sopra accennavo alla tematica di Verses versus capital, titolo
programmatico, e pertanto lascio alla lettura del libro il relativo pieno
nutrimento. Mi preme soltanto introdurre un aspetto apparentemente marginale
tra i temi trattati. Potrà sembrare inconsueto per un poeta, un letterato, un
filosofo, un umanista, ma in alcune parti del libro, non solo ne La presa di
Wall Street, l’Autore ci parla anche di economia. D’altronde chi, se non un
poeta, può parlare di un qualcosa di inafferrabile e di oscuro? En passant:
ovviamente sappiamo che Wall Street non è più la sede dell’Impero, cfr. Senato
dei Fondi e non solo. Forse nel libro di Micheli, però, in uno dei tanti
sotto/metatesto, c’è come una tensione ad andare oltre: come se, silente,
strisciante, una domanda si rotolasse tra i versi, inespressa e non so quanto
consapevole. Questa domanda: ha senso, ha ancora senso la critica al capitale?
Certamente sì, è la risposta. Ma è sufficiente? O criticare il capitale
equivale a riconoscerne comunque un suo aspetto valoriale, in un certo senso ad
accoglierne la cornice entro cui opera? Non è forse il caso, anche per uscire
dallo stallo culturale da ridotta manco più assediata in quanto totalmente
ininfluente, di principiare seriamente a ragionare sull’innaturalità
dell’economia stessa, come storicamente conosciuta, sulla sua struttura
culturale tanto estrema quanto costringente ma pur sempre totalmente effimera?
Ovvio che mi sovvenga il Serge Latouche de L’invenzione dell’economia. O
è solo il luccichio del verso “L’economia che poni nella fede” (Senza
dottrina) che mi abbaglia?
A
un Autore che scrive, tra le altre, La Resistenza è facile arguire
l’effetto che deve aver fatto il trovare bandito dal linguaggio comune la
parola ‘resistenza’, sostituita con ‘resilienza’. Parola questa che, se
ristretta al mondo fisico, ha un significato, ma se rapportata a un complesso
organismo sociale forse non è facilmente sovrapponibile, anzi ne è percepibile
il suo rinculare di significato, quasi una mezza resa preventiva. Per altro
verso, nel libro (L’incontro) si legge “Che l’Apocalisse sia in atto/ Non
è il male peggiore” e (Sortie de l’usine) “Devi comunque mettere le mani
in questa merda/ Come il bambino dentro al pozzo”. Ora, decontestualizzando le
due citazioni dai singoli testi, forse è vero che qualcuno, magari neanche
pochi, percepiscano l’irrimediabilità del disfacimento, ma a ben vedere, tutto
sommato, dell’Apocalisse gliene frega scarsamente e dentro a questa merda si
sentono (ma soprattutto, ci sentiamo) bene, al caldo, comodi. Allora, forse,
l’interrogativo cela un’iperbole affermativa nel verso “che può farmi
l’Apocalisse?”. Ciononostante, in una sorta di ottimismo della felicità
ventura, l’Autore (Bere o annegare) intuisce che “Cammineremo sulle
acque/ Bevendo il vino della fratellanza/ E spezzando il pane della giustizia”,
che fa il paio con: “Umanità nuova/ Partoriscici”, e trova la forza (ancora!)
per disegnare e disegnarci un futuro migliore o almeno un futuro. Una nuova
alba. Ecco, io non so chi sia Giancarlo Micheli, nel senso che non so e non mi
interessa se il suo approccio culturalmente di classe sia più, stando ai testi
presenti in questo libro, comunista, anarchico o sensibile a echi di un
cristianesimo radicale. Così come non mi interessa spolverarlo di una spruzzata
di ossimorico nichilismo ottimista. Questi sono compiti per salariati dell’aria
fritta. Penso in generale che far giocare il gioco dell’‘io sono il più bello’
faccia il gioco, appunto, del capitale. Ma Giancarlo Micheli, dopo aver scritto
questo libro, è probabile che abbia maturato qualche idea più precisa, o abbia
precisato ulteriormente la propria idea, su chi lui è rispetto a quando lo ha
iniziato (“Santa dell’innocente la ragione/ Santo il diritto di uccidere il
padre/ E di sopprimere il padrone”, Rivoluzione). Non necessariamente
ciò lo renderà più gradito al variegato mondo dell’industria culturale
contemporaneo (lettori compresi), poiché troppo “congiunto al terzo pianeta/ del
sistema solare/ da vincoli d’amore”.
Marino
Tarizzo
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